Il 14 luglio 1970 a Reggio Calabria scoppia la rivolta: i cittadini si ribellano al trasferimento del capoluogo regionale a Catanzaro. Attentati, barricate e scioperi devastano la città, al grido di “boia chi molla”, per dieci mesi fino all’arrivo dei carri armati.
La rivolta Reggio Calabria è uno dei moti di protesta più significativi della storia dell’Italia unita, per durata e intensità: diversi mesi di guerriglia urbana e di repressione poliziesca, con frequente uso del tritolo e delle armi da fuoco, centinaia di feriti e cinque morti.
Essa fu innescata nel luglio 1970 dalla disputa tra Reggio e Catanzaro per il titolo di capoluogo del nascente ente Regione, che ne fu l’imprescindibile motivo originario. La rivendicazione reggina fu sostenuta con riunioni, comizi, cortei e scioperi, promossi da esponenti locali del Movimento sociale italiano, del sindacato e dell’associazionismo. Il Partito socialista italiano e il Partito comunista italiano, pur con qualche dubbio, non aderirono alla protesta, basata su un trasversale senso di appartenenza territoriale che assunse la forma di blocco socio-politico localistico.
L’ordine pubblico a Reggio Calabria fu posto fortemente in crisi dalla guerriglia urbana che si scatenò, dopo i primi interventi repressivi, per diversi mesi e che causò la morte di tre manifestanti o passanti (Bruno Labate il 15 luglio 1970, Angelo Campanella il 17 settembre 1970, Carmine Jaconis il 17 settembre 1971) e di due poliziotti (Vincenzo Curigliano il 17 settembre 1970 e Antonio Bellotti il 16 gennaio 1971).
Durante manifestazioni collegate indirettamente alla rivolta o a causa del clima creato da essa, morirono Giuseppe Malacaria il 4 febbraio 1971 a Catanzaro e Giuseppe Santostefano il 31 luglio 1973 a Reggio Calabria.
La crisi dell’ordine pubblico dipese soprattutto dal fatto che, per vari mesi, gli esponenti politici calabresi e il governo nazionale di centro-sinistra, presieduto dal democristiano Emilio Colombo, non riuscirono a trovare nessuna mediazione capace di placare un conflitto riguardante la distribuzione di ulteriori opportunità di crescita e di sviluppo.
Soluzione che giunse solo nel febbraio 1971, con l’assegnazione del titolo di capoluogo e della sede della Giunta regionale a Catanzaro, la sede del Consiglio regionale e del V centro siderurgico a Reggio Calabria, la sede dell’università a Cosenza.
Dopo qualche settimana dal principio della rivolta, la gestione del movimento per il capoluogo era passata a vari comitati cittadini, soprattutto al Comitato d’azione, capeggiato da un sindacalista della Cisnal locale, Francesco (detto Ciccio) Franco, che, all’insegna del motto «Per Reggio capoluogo: boia chi molla!», rimase egemone fino al termine.
Così il tono prevalente della protesta diventò quello antipartito, di una retorica populista critica verso la “partitocrazia”, il sistema dei partiti nel suo complesso.
Su queste basi, delusione per lo “scippo” del capoluogo e discredito della classe politica locale e nazionale, il Msi costruì in città uno straordinario successo alle elezioni politiche del 1972 e un radicamento territoriale ravvisabile per diversi decenni.
Il partito di Giorgio Almirante sostenne la protesta – anche violenta – dei reggini, senza però sconfessare la propria contemporanea vocazione d’ordine.
Protagonista della rivolta anche quella della destra extraparlamentare (soprattutto Avanguardia nazionale di Stefano Delle Chiaie e Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese, ma anche Ordine nuovo di Pino Rauti).
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