Giorgio Vale e la sua corsa tragica negli Anni di Piombo
5 maggio 1982
Via Decio Mure, periferia romana del Quadraro. Un muretto scrostato, una scritta nera: “ONORE AL DRAKE”. Una croce celtica, quattro lettere: V, A, L, E. Pochi, oggi, ricordano chi fosse Giorgio Vale, detto “il Drake”. Eppure, la sua storia incarna in modo feroce e paradossale il cuore oscuro degli Anni di Piombo italiani: quel periodo lacerato tra ideologie assolute, gioventù radicalizzate e violenza politica cieca.
Vale era un ragazzo mulatto — padre eritreo, madre italiana — cresciuto a Roma nel pieno fermento ideologico degli anni Settanta. Un’anomalia, la sua, nell’ambiente dell’estrema destra neofascista, dove approdò giovanissimo militando prima in Lotta Studentesca e poi in Terza Posizione. Ma in un contesto giovanile dove “razza” e gerarchia lasciavano spazio a retoriche di popolo, rivoluzione e anticapitalismo, la pelle di Giorgio non fece di lui un escluso. Anzi, divenne uno dei più temuti militanti dei Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR). Aveva appena vent’anni quando la sua corsa si interruppe tragicamente il 5 maggio 1982. I poliziotti della Digos lo trovarono in pigiama, in un appartamento romano. Quando ne uscirono, Vale era morto con un colpo alla tempia. Le versioni si accavallarono: suicidio, scontro a fuoco, esecuzione?
Il guanto di paraffina non rilevò tracce di polvere da sparo. Da allora, la sua morte è rimasta sospesa tra mistero e simbolo.
Per alcuni fu un combattente idealista, per la polizia un pluriomicida freddo e implacabile. Per la famiglia, un ragazzo mite, fragile. I fatti però parlano chiaro: Vale fu protagonista e autore di numerosi episodi di sangue. A febbraio 1980, prese parte all’omicidio del poliziotto Maurizio Arnesano, ucciso per sottrargli l’arma. Poco dopo, sparò all’agente Manfredi e partecipò a scontri armati, agguati, rapine, persino all’esecuzione interna del neofascista Giuseppe De Luca, reo di aver tradito l’organizzazione, ma fu un “ragazzo” che stette vicino a Francesca Mambro in più occasioni anche nei momenti più bui.
Il suo percorso lo vide avvicinarsi sempre più al carismatico Valerio Fioravanti, leader dei NAR, dal quale assorbì tecniche militari e ideali rivoluzionarie. La spirale violenta culminò nella rapina di piazza Irnerio, marzo 1982, in cui fu ucciso il giovane Alessandro Caravillani. Vale ferì un agente, soccorse la compagna d’armi Francesca Mambro e la lasciò accanto a un pronto soccorso. Poi, la latitanza. Fino a quel giorno di maggio.
Il blitz della Digos in via Decio Mure fu rapido e letale.
Le ricostruzioni ufficiali, però, cambiarono più volte nell’arco di poche ore. Le prime agenzie lo davano per arrestato e ferito, poi per grave, infine morto. L’autopsia parlò di suicidio. Ma le prove balistiche e la totale assenza di residui da sparo sulle mani lasciarono dubbi. Troppe discrepanze, troppa fretta. “Stava per costituirsi” racconta la madre, che apprese la morte dal portiere di casa. Per la famiglia, Giorgio fu giustiziato. La reazione del mondo neofascista fu feroce. Il giorno dopo, un commando dei NAR uccise l’agente Giuseppe Rapesta nella stazione San Pietro. Qualche mese più tardi, in carcere, Pierluigi Concutelli strangolò Carmine Palladino, ritenuto colpevole della soffiata fatale per Vale.
Oggi: la memoria contesa
Quel muretto al Quadraro, con la sua scritta sbiadita, è un simbolo dimenticato, decifrabile solo da pochi. I ragazzi che passarono per via Decio Mure non sanno più chi fosse il Drake. Eppure, i social, le commemorazioni, gli scontri virtuali, dimostrano che quella ferita — gli Anni di Piombo — è ancora aperta. Parlarne è difficile, farlo con obiettività lo è ancora di più. L’odio di ieri continua a generare divisione, a trasformare la memoria in campo di battaglia.
Giorgio Vale è stato, per molti, un errore tragico. Per altri, un martire. In realtà fu entrambe le cose, e forse nessuna. Fu un giovane nel tempo sbagliato, inghiottito dalla macchina ideologica e dalla violenza del suo tempo. Fu vittima e carnefice. E morì — come troppi — nel silenzio di un appartamento anonimo, portando con sé una verità che nessuno ha mai potuto (o voluto) chiarire fino in fondo.
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