Il suo passaggio alla lotta armata è avvolto nel mistero, come la bruciante carriera in Ordine Nuovo clandestino, che lo porta al vertice in meno di un anno. Lillo Concutelli, romano di origini marsicane, cresce a Palermo, dove la famiglia si è trasferita per lavoro. Qui emerge come caposquadra all’università. Il 24 ottobre 1969 è arrestato, lo sorprendono con altri camerati, tra cui l’avvocato Guido Lo Porto, che tre anni dopo sarà eletto alla Camera con il Msi, mentre si addestrano all’uso di mitra, pistole e bombe a mano sulla collina di Bellolampo. Se la cava con una condanna a 14 mesi. Milita nel Fronte nazionale con Ciccio Mangiameli (insieme, nella primavera 1971, compiono un attentato contro la sede della Giovane Italia) poi rientra nel Msi come dirigente provinciale e presidente del Fuan.
Il 1974 è un anno pesante per l’estrema destra e il fallimento dei progetti stragisti e golpisti scatena una durissima repressione.
Giusto in quei mesi, secondo il “pentito” Sergio Calore, Concutelli avrebbe animato il Fronte unitario di lotta al sistema, banda armata di area ordinovista, responsabile di attentati a Roma, in Calabria e in Sicilia (dove il Fulas diventa Fronte unitario di lotta arabo-sicula). Concutelli è ancora attivo nel Msi: in primavera si candida al comune di Palermo ma è bocciato, con meno di mille preferenze.
Dopo l’omicidio del procuratore di Genova Francesco Coco e della sua scorta da parte delle Brigate rosse, l’8 giugno ’76, Concutelli decide di bruciare i tempi. Il “centro” estero stenta a riconoscergli la leadership italiana, lui avverte profonde divergenze strategiche. Per i vecchi ordinovisti, cresciuti alla scuola reazionaria de Gli uomini e le rovine di Evola e dei manuali Nato di controguerriglia, l’uso della violenza va limitato alle vendette o alle ritorsioni nei confronti di chi ha personalmente perseguitato il gruppo. Concutelli, invece, ha imparato da von Clausewitz che la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi, da inquadrare in un progetto unitario, prima di propaganda e poi di lotta armata contro lo stato. A fine giugno Lillo si trasferisce in via Clemente X, in una casa affittata da un tarantino, Gianfranco Ferro, un altro senza partito, proveniente dagli Arditi d’Italia. Completano la rete di appoggio alcuni romani, Sergio Calore con i tiburtini e Mario Rossi, l’ex segretario giovanile di piazza Bologna, il quadro più brillante di Lotta popolare. In due settimane Concutelli uccide il pm Occorsio, il 10 luglio, organizza una rapina in una villa a Tivoli per procurarsi armi (e ci scappa il morto) e poi un colpo alla Banca del ministero del lavoro (con il buon bottino di 460 milioni di lire). Intanto, nella notte tra il 16 e il 17 luglio, una banda di fascio-criminali aveva svuotato di un carico miliardario di lingotti d’oro un caveau di Nizza. Un’impresa rivendicata con la croce celtica e una scritta sul muro: Sans armes, sans heine et sans violence. Il capobanda è il corso Albert Spaggiari ex militante dell’Oas, stretti rapporti con il giro di Concutelli e degli avanguardisti latitanti in Spagna. (…) Le ricostruzioni giornalistiche sul coinvolgimento degli esuli nella guerriglia antibasca ruotano sul ruolo centrale di Delle Chiaie e di Guerin Serac. E, alla luce dei processi conclusi e delle cause civili avviate dalle vedove di “controguerriglieri” morti in azione, è possibile ricostruire i bacini di reclutamento dei primi gruppi antibaschi. Nel 1976 gli italiani si distinguono negli scontri di Montejurra in Navarra: alcune centinaia di neofascisti armati assaltano i carlisti democratici, i legittimisti spagnoli (il leader dell’altra fazione è Sisto di Borbone, intimo di “Caccola”). Due i morti, decine i feriti. In seguito, il terrorismo anti-basco sarà diretta opera poliziesca ma anche il regime democratico si sentirà vincolato a garantire coperture e impunità.
Quando scatta il blitz madrileno, la rete logistica di Concutelli è già crollata. Accade per errore, nell’estate ’76. Il pm di Firenze Pier Luigi Vigna, un mastino, sta indagando sui fiancheggiatori di Mario Tuti. Da un memoriale difensivo pieno di fiele per i “bischeri” che l’hanno scaricato emerge che Mauro Tomei aveva inutilmente interessato un camerata romano, Peppino detto “l’impresario”, per procurare soldi e documenti falsi. Ci vuole poco a scoprire che uno dei più stretti amici di Graziani è l’impresario teatrale Giuseppe Pugliese, arrestato per un favoreggiamento non commesso. Scattano le perquisizioni a tappeto: è trovata la moto rossa usata per l’omicidio Occorsio e il cerchio si stringe intorno a Gianfranco Ferro, arrestato per il possesso di una colt 45. Scoprono il contratto d’affitto della casa di Lillo e quando ci arrivano trovano tracce di un precipitoso trasloco. I vicini riconoscono in Ferro e Concutelli i frequentatori dell’appartamento. Ferro crolla e fa una serie di nomi. Ammette i rapporti con Lillo: glielo aveva presentato Pugliese nel novembre ’75 ed era stato incaricato di reclutare militanti clandestini ma, per gli scarsi risultati, era poi stato il “comandante”, ricco di carisma e di talento organizzativo, ad assumere il compito.
Concutelli ripara all’estero e rientra solo quando è disponibile un nuovo alloggio sicuro, a Ostia. Altri camerati procurano poi la base di via dei Foraggi dove si installano anche Calore e un “pischello” di Tivoli, Aldo Tisei. Ma si trova da solo quando è arrestato il 13 febbraio 1977, alla vigilia di un attentato contro il pm Vigna, “venduto” da Paolo Bianchi, un rapinatore di Tivoli amico di Calore, aggregato alla banda da tre mesi, all’uscita del carcere.
Lo stesso giorno del sequestro Moro, Lillo è condannato all’ergastolo per l’omicidio Occorsio, pena confermata in appello, a tempo di record. Nel periodo successivo sono scoperti numerosi tentativi di evasione. Intanto, il 13 aprile 1981, lui e Tuti uccidono nel cortile del carcere di Novara Ermanno Buzzi, condannato in primo grado all’ergastolo per la strage di Brescia, perché confidente dei carabinieri, “provocatore” e corruttore di minorenni. L’inchiesta esclude un esplicito rapporto con l’articolo di Quex, la rivista dei neofascisti carcerati, che aveva indicato Buzzi tra gli “infami da schiacciare”. Concutelli è l’unico leader tra i prigionieri nazionalrivoluzionari che non aderisce al progetto dello spontaneismo armato. Saranno entrambi condannati all’ergastolo per l’assassinio di Buzzi. Trasferito a Nuoro, Lillo tenta di impedire l’omicidio di Francis Turatello, suo compagno di cella, ma è messo in condizione di non nuocere.
Il 10 agosto 1982, nel carcere di Novara, strangola con una rudimentale garrota Carmine Palladino, fedelissimo di Delle Chiaie, arrestato nell’inchiesta sulla strage di Bologna e sospettato di aver causato la morte di Giorgio Vale svelandone il nascondiglio con una soffiata. Dopo il secondo omicidio in carcere Concutelli è sottoposto al regime di massimo rigore, in totale isolamento nei cosiddetti “braccetti della morte”, un trattamento talmente duro da provocare la protesta anche dei brigatisti. Accusato da qualche pentito di essere affiliato alla camorra, riceve un mandato di cattura nella megaretata che porta in galera Enzo Tortora, nel giugno 1983, ma respinge sprezzantemente l’accusa. Per alcuni anni l’unico contatto con l’esterno sono i processi dove è imputato o testimone. Sempre da protagonista: contesta l’inettitudine dei periti balistici; estende ai suoi giudici, agenti della “persecuzione democratica”, la condanna eseguita su Occorsio; rivendica gli omicidi commessi in carcere. Qualche volta, con stile alla Garrone, cerca di scagionare i coimputati con improntitudine. In difesa di Graziani, afferma che “è il capo riconosciuto di Ordine nuovo ed è dovuto espatriare per sottrarsi alla cattura. Egli non può essere riconosciuto responsabile di atti di violenza perché ciò non rientra nei suoi compiti, sia perché, essendo uomo deciso e nel contempo di carattere mite, aborre dalla violenza”.
Alla fine degli anni Ottanta accetta però la dialettica processuale, rendendo pubblico il suo tormentato distacco dalla lotta armata. Al processo bis per la strage di Brescia, nega sdegnosamente che l’imputato principale sia stato il mandante dell’omicidio Buzzi, con l’obiettivo di chiudergli la bocca. La motivazione è disarmante: Cesare Ferri era un “pischello” e non era all’altezza di dargli ordini. Buzzi era stato ucciso perché “volevamo dare il buon esempio e avevamo la statura politica e morale per farlo”.
Il nuovo rapporto con la giustizia e le istituzioni si manifesta nel maxiprocesso Ordine nuovo bis, l’assemblaggio delle decine di procedimenti aperti sulla base delle confessioni di Tisei: 150 imputati chiamati a rispondere delle attività illegali del gruppo clandestino ma anche delle innumerevoli imprese che Tisei, diventato tossicodipendente, ha compiuto fino all’arresto nel 1981, associandosi variamente con batterie di rapinatori e gang del racket. Lillo confessa di aver ucciso Occorsio il 5 dicembre 1988. Nei due processi per l’attentato, imitando le Br, aveva rivendicato la responsabilità come comandante militare e quindi titolare della decisione di eseguire la condanna emessa dall’organizzazione. Ammette di aver sottratto l’Ingram al gruppo di Delle Chiaie. Precisa poi che i vertici di On e di An erano contrari, per motivi di opportunità e quindi aveva deciso da solo l’omicidio. Nell’udienza successiva polemizza con i giornalisti per smentire puntualmente le rivelazioni “fasulle” di Aleandri e si scontra con Calore sulla decisione di abbandonare via dei Foraggi, insicura dopo l’arresto di Bianchi, per trasferire tutto a Ostia.34 Concutelli ha fondati sospetti che sia stato proprio il braccio destro a “mollarlo” – allontanandosi all’ultimo minuto dal rifugio senza avvertirlo – e non vuole concedergli alibi morali e politici. (…) Dopo la fallita evasione da Rebibbia del febbraio ’89, Concutelli, che la lunga detenzione rende sempre più simile all’icona dell’abate Faria, barba lunghissima e sguardo lontano, si schermisce con i giornalisti. I lunghi anni di carcere, se hanno ridotto la combattività, non gli hanno mozzato la lingua tagliente. Ultimo detenuto in segregazione totale, scrive a Frigidaire, la rivista di Vincenzo Sparagna, da sempre in prima linea in difesa dei diritti dei detenuti, definendosi un “lupo marsicano”, specie in via d’estinzione che attacca l’uomo solo per difendersi e invoca la protezione del Wwf. Al processo d’appello per la strage di Bologna smentisce di aver ricevuto armi o esplosivi da Fachini che aveva conosciuto quando entrambi erano dirigenti del Fuan e trova il modo di chiudere la partita anche con il “grande nemico”, precisando che “con Delle Chiaie e la sua organizzazione a quei tempi c’era odio e molto malanimo ma sono cose ormai superate dal tempo e dalle cose, anche perché spesso ci si fondava su convinzioni che si sono poi rivelate sbagliate”.
Negli ultimi anni Concutelli si dedica ad altre faccende. Una piccola casa editrice romana pubblica Captiva, le poesie da lui scritte in carcere dal 1984 al 1995. Alcuni versi sembrano testimoniare i cambiamenti più profondi causati dalla lunga detenzione: “M’ero ben temprata l’anima/Aspra era fatta, dura e pura, come una lastra, fredda, ghiaccio/ Scivolavano sopra di essa/ i sentimenti, le cure, tutto”…