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DAVID BOWIE -BLACKSTAR

Spegnete subito le torce. Nascondete la luna, nascondete le stelle. (cit. Velvet Goldmine – film)






L’accostamento a Blackstar è viscerale, inquietante.

La voce, sinuosa ed evocativa di David, si avverte sin da subito, dalle prime strofe della titletrack, che arranca indolente, nella ritmica tratteggiata da fumose atmosfere jazz, trastullate e scandite passo passo, tra scenari mai scontati, e vellutate aperture romantic che ne suddividono il pezzo.

La miscellanea ipnotica, è un suggestivo vivaio di sonorità, a cui l’artista da sempre attinge con cura, solcando e amalgamando ogni sorta di evoluzione come nuova linfa.

E dopo avere esplorato ogni territorio inibitorio della propria cultura, il pezzo si conclude cupo e risolutorio.

Tis a pity she was a whore, martellante, apre le danze fusion, furoreggiando un impasto jazzato dall’empasse rock, uno stile che si fonde con il cantato, un autentica jam session in piena regola, ove l’ascolto ti fa desiderare ancora di più l’accattivante diatriba sonora, che ne genera un orgasmica esperienza.

Lazarus, dolente, dallo spirito acustico, un macht decisivo, un solo round percettivo che ne rivendica un criterio marcatamente di ampio respiro negli arrangiamenti, risuona mistica, elevata, pregevole composizione, soul, cantato prettamente qualitativo, mentre lo spirito bizzarro del brano, ne avvalla maggiormente la percezione.

Sue (or in a season of crime), entra subito spiazzante, inseguita da un onda elettrica, midtempo, combinata dagli stilemi mai tipici del jazz come lo conosciamo, poiché l’impasto della voce di Bowie, si eleva nell’accompagnamento stilistico.

Girl loves me, altro cambio, altra scena antisegnana, ibrida percezione, impreziosita da una cantilena inziale, segue il passo jazzato un po’ bossa rock, altamente qualificata e arrangiata, spirito libero, nessuna banalizzazione, frazione dopo frazione, la dignità tecnica della sua riuscita non ha eguali.

Dollar days, tra sospetti, e la malinconia di un piano, echeggia dentro un sax capace di turbare l’animo. L’accompagnamento procede acustico, soave, fino all’esplodere di una ballad, dalle corde corali, un compianto bellissimo, una gioia che ripara le lacrime, un canto del cigno compulsivo, un crescendo amabile di bellezza, corpulenta forma artistica.

I can’t give everithing away, ennesimo cambio, ennesima scena musicale, ampio respiro strutturale, melodica maturità che eccelle nell’adagio della voce di Bowie, mentre soffia un vento di rivalsa, gli accordi si posano ulteriormente in uno strato mai gravido di commercializzazione.

E quando il disco finisce, ci si trastulla ancora nella bizzarra stesura di un genio, e solo allora, ti rendi conto che Blackstar surclassa qualunque altra cosa – e riflettendo sulla musica, comprendi che essa non è morta invano, se questo capolavoro ne suggella la fine.

S.P.

 

 

 

 

Redazione Scomunicando.it

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