Attualita

DIRITTI NEGATI – Messina raccoglie il grido d’allarme degli avvocati palestinesi

– di Corrado Speziale –

 Mohanad Karaja e Thafer Saaideh, avvocati della Cisgiordania, esponenti dell’organizzazione Lawyers for justice, sono stati in città per incontrare i colleghi e gli attivisti messinesi al fine di rappresentare i drammatici effetti del “diritto sotto occupazione” in Palestina e sensibilizzare sulle ingiustizie subite dai cittadini, cui è negata la possibilità di difesa. Karaja e Saaideh il primo giorno sono stati accolti dal presidente e dai colleghi del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Messina. In vista di un gemellaggio tra quest’ultimo e l’Ordine Palestinese (PBA Palestinian Bar Association), è stato siglato un accordo generale di cooperazione su formazione e diritti umani, nel segno di una “normativa ordinaria e democratica”. L’indomani, in un incontro organizzato alla libreria Colapesce, i due legali hanno dialogato con gli attivisti messinesi riguardo “l’occupazione e l’applicazione sistematica di norme e prassi non democratiche in violazione dei diritti fondamentali”. Sancito un gemellaggio tra il Circolo ARCI Thomas Sankara, organizzatore dell’evento, e gli avvocati che si battono per la giustizia in Palestina. Alla fine dell’incontro, momento di convivialità a base di za’atar palestinese e olio italiano.  

 “L’avvocato come professione indipendente a garanzia del diritto alla difesa delle persone”.

In Palestina, Paese martoriato dall’eterno conflitto con Israele, che a partire dal 1948 ha fatto propri interi territori, tra accordi mancati o non rispettati, guerre, occupazioni, divisioni, resistenze, l’impresa è più che ardua. Cosicché, quali siano le leggi che regolamentano il diritto in Palestina è un enigma tutt’altro che semplice da decifrare. Di conseguenza, la professione di avvocato risulta assoggettata ad un ginepraio di norme sommarie e frammentate, all’interno di un’area che non conosce né pace, né diritti fondamentali.

Per questo motivo, l’organizzazione Lawyers for justice si sta battendo alla conquista di ciò che una categoria e un popolo, da soli, non possono ottenere. Ne sono attivisti e rappresentanti gli avvocati palestinesi, provenienti dalla Cisgiordania, Mohanad Karaja e Thafer Saaideh, presenti alcuni giorni a Messina per incontrare colleghi e attivisti. I due hanno fatto tappa in riva allo Stretto provenendo da un tour europeo nel quale hanno effettuato un ciclo di incontri su iniziativa dell’European Palestinians Initiative for National Action, organismo indipendente che rappresenta i palestinesi in Europa, sostenuto a Messina dal Circolo ARCI Thomas Sankara.

Mohanad Karaja e Thafer Saaideh, nel ruolo anche di rappresentanti della PBA – Palestinian Bar Association (l’Ordine degli Avvocati palestinese) sono stati ricevuti a Palazzo Piacentini dal presidente dell’Ordine degli Avvocati di Messina, Domenico Santoro, dall’avvocato Antonio Cappuccio, delegato ai Diritti Umani, e dai consiglieri, assieme all’avvocato Carmen Cordaro, storica esponente del Circolo ARCI Thomas Sankara che ha promosso l’iniziativa. A far da tramite come traduttrice e punto di riferimento di tutta l’operazione, Renè Abu Rub, attenta osservatrice e attivista nella questione palestinese. Tra gli avvocati messinesi e palestinesi è stato siglato un accordo generale di cooperazione su formazione e diritti umani. Una promessa di gemellaggio che nel prossimo futuro vedrà collaborare i due ordini professionali.

Ordine degli Avvocati, ma non solo, perché ai due palestinesi era stato organizzato un incontro anche all’Università. Sul tema si sarebbe dovuta svolgere una lezione di Diritto penale per i dottorandi in Scienze giuridiche. L’evento è saltato a causa della chiusura delle lezioni per l’emergenza meteo. Ma la collaborazione resta e l’occasione è solo rinviata.

Alla libreria Colapesce è invece avvenuto l’incontro con gli attivisti messinesi. Il dibattito è stato introdotto dalla presidente del Circolo ARCI Thomas Sankara, Patrizia Maiorana: “La nostra associazione, dalla sua fondazione, si è sempre schierata dalla parte della popolazione palestinese. L’ARCI, sin dalla prima intifada, ha cercato di creare ponti fra la società civile palestinese e israeliana”. European Palestinians Initiative for National Action: “Questa organizzazione – ha precisato Maiorana – ha l’obiettivo di realizzare e chiedere il supporto dell’Unione Europea e della società civile per far svolgere elezioni realmente democratiche, facendo sì che in quei territori vengano rispettati i diritti fondamentali”. L’incontro con il Circolo ARCI Thomas Sankara: “Annunciamo questo gemellaggio, perché non crediamo più nella retorica della violenza generalizzata da entrambe le parti. Sin dall’inizio abbiamo parlato di un popolo oppresso e di uno Stato che opprime. In questa visione ogni anno commemoriamo la nakba”. Le responsabilità: “Quella maggiore – ha proseguito Patrizia Maiorana – è dello Stato israeliano. Ma lo è anche di una rappresentanza dei palestinesi sui territori che non rispecchia la reale composizione della popolazione e soprattutto chi amministra non è democraticamente eletto”.

Mohanad Karaja è partito dall’unione tra quella parte di Italia sensibile al problema e la Palestina:Il nostro scambio non è solo attraverso le parole, lo è anche col sangue. Vittorio Arrigoni stava col popolo palestinese”. Le sue priorità: “Per arrivare alla pace dobbiamo avere tutti i nostri diritti. Siamo venuti per questo dalla Palestina. Speriamo di riuscire a fare cose concrete”. Imbeccato da Carmen Cordaro sulle condizioni e sui criteri del diritto in Palestina, Thafer Saaideh ha descritto il quasi indecifrabile quadro geopolitico della sua terra: “I diritti non sono uguali in tutte le zone. La situazione è complicata. La Palestina si divide in quattro parti. Cisgiordania, Gerusalemme, la parte occupata da Israele nel ‘48, quella scaturita dagli accordi di Oslo. In Cisgiordania c’è l’Autorità Palestinese, che tuttavia controlla solo il 22 per cento della regione. Il resto è interamente sotto il controllo di Israele, la cosiddetta zona C. Nel 2000, dopo l’intifada, c’era stato un cambiamento, ma nel 2002 le cose sono andate verso il peggio. Adesso, il potere dell’Autorità Palestinese sul territorio è molto limitato”. Le conseguenze: “La possibilità di movimento è molto limitata. Andare da una città all’altra non è facile, ci sono molti check point e facilmente si rimane bloccati”. La denuncia rispetto al diritto: “Israele applica sempre la legge militare, pur trattandosi di fatti avvenuti all’interno del territorio governato dall’Autorità Palestinese”. Nel corso del dibattito si è riflettuto su quanto, in maniera indiscriminata, Israele consideri tanti reati d’opposizione politica alla stessa stregua di minacce di terrorismo, con arresti ingiustificati, non suffragati da giuste motivazioni e soprattutto senza dare possibilità di difesa agli imputati.

I dettagli sulla carcerazione li spiega Karaja: “Gli israeliani arrestano i palestinesi per sei mesi, poi, senza un motivo, aprono un fascicolo segreto senza emettere alcun un atto. La detenzione si rinnova per altri sei mesi e altri sei mesi ancora. Quindi, si può restare a lungo in carcere senza un motivo e senza andare in giudizio”. E descrive circostanze drammatiche: “In questo momento ci sono 550 persone in carcere con questa modalità e nello stesso tempo sei persone fanno sciopero della fame perché alcuni di loro sono già da cento giorni in queste condizioni, quindi rischiano la vita. Chiedono di andare in giudizio o essere liberati. Responsabili di tutto questo – prosegue l’avvocato – sono gli ufficiali militari. In questo caso non interviene neanche un giudice, il quale non viene neanche contattato. Ci sono persone la cui carcerazione viene rinnovata fino a cinque anni senza essere sottoposti a giudizio e senza poter contattare neppure un avvocato”. Un caso: “Hanno condannato un uomo a diciotto mesi, ma il giorno della liberazione gli hanno rinnovato a sorpresa il periodo di detenzione. Molti di loro in questi casi vengono colti da crisi nervose, sottoposti a una guerra psicologica, ed iniziano lo sciopero della fame”. Come se non bastasse, c’è un doppio giudizio: “Se un attivista viene arrestato dall’Autorità Palestinese, va al tribunale palestinese, ma appena esce andrà sempre processato dal giudice israeliano. Cosicché, avrà due processi”. Differenze al di là del confine: “I Palestinesi all’interno del territorio ottenuto nel 1948 sono giudicati solo dal tribunale israeliano”. Il dramma più grave, l’arresto dei minori: “Lo operano gli israeliani. Ultimamente – denuncia Karaja – ci sono in carcere quasi 200 bambini. Ne hanno arrestati due nella zona di Hebron, sotto l’Autorità Palestinese, di nove e dieci anni, perché lanciavano sassolini contro l’esercito israeliano. L’avvocato ha portato loro due palloncini per farli giocate, finché finisce il processo”. Sempre con Karaja è stato affrontato il tema dell’apartheid: “Ci sono profughi della prima guerra della Nakba cui l’ONU ha dato delle terre, ma Israele ha dato l’ordine a quelle persone di lasciare il territorio rivendicandone l’appartenenza, mentre ci sono dei coloni che hanno occupato le case dei palestinesi e li lasciano fare. Per loro questo è normale. Il muro, poi, è stato realizzato sui terreni dei palestinesi creando molti problemi rispetto ai loro modi di vivere. L’obiettivo degli israeliani è mettere sempre i palestinesi in difficoltà. Per loro meno palestinesi ci sono, meglio è. Tipo pulizia etnica”.

Affrontato anche il tema della discriminazione indiretta rispetto alle case: se a Gerusalemme Est i palestinesi vogliono costruire, devono pagare cifre proibitive. L’alternativa è farlo in modo illegale, pena la demolizione coatta, a proprie spese, mentre un israeliano costruisce facilmente. “L’obiettivo è quello di diminuire sempre più la presenza di palestinesi a Gerusalemme”, dice Saaideh.

Privare delle case come fatto punitivo: “C’è una legge israeliana – prosegue Saaideh – che prevede le demolizioni delle case nei confronti di chi fa attivismo politico contro lo Stato israeliano. Questa è una condanna per tutta la sua famiglia, dunque violazione dei diritti umani”. A ciò si aggancia un’altra grave questione: la negazione della possibilità del ritorno nella propria terra per i palestinesi cacciati ai tempi della Nakba, mentre Israele agevola i rientri delle persone di religione ebraica.

Di privazione di diritti fondamentali e apartheid ha parlato anche Carmelo Chitè, di Assopace Palestina: “Riusciamo a mobilitarci per la Palestina quando succede qualcosa di eclatante, ma non lo facciamo mai nella normalità. In quelle zone, invece, l’occupazione è una pratica giornaliera e continua. Abbiamo il compito di smascherare ciò che si configura come un’occupazione militare vera e propria, in cui viene esercitato l’apartheid”.

Redazione Scomunicando.it

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