Fotonotizie

FRANCESCO CECCHIN – Il monumento e la memoria

un raggio di immortalità tra le ombre della storia

“E Francesco che è volato sull’asfalto di un cortile,
con le chiavi strette in mano, strano modo per morire…

Ricorre oggi, 16 giugno, l’anniversario della morte di Francesco Cecchin, giovane militante del Fronte della Gioventù aggredito brutalmente il 28 maggio 1979 a Roma, nel quartiere Trieste–Salario, e morto dopo diciassette giorni di agonia. Aveva appena diciannove anni. Gli autori dell’aggressione non sono mai stati condannati, e ancora oggi la sua morte resta una delle tante ferite aperte del periodo più oscuro della Repubblica italiana: gli Anni di Piombo.

Nel cuore di Piazza Vescovio, dove la memoria resiste più forte dell’oblio, un monumento lo ricorda, eretto nel 2011 nel giardino a lui intitolato.

Non è solo una stele, ma un simbolo visibile di una memoria negata, un gesto civile e silenzioso che sfida il tempo, l’indifferenza e la rimozione.

Il progetto porta la firma dell’architetto Giuseppe Pezzotti, e fu promosso da un comitato composto da familiari, amici e militanti, tra i quali anche Stefano Cortini, figura storica della destra romana, scomparso – per un destino quasi simbolico – anche lui il 16 giugno, qualche anno più tardi.

Un monumento che parla di eternità

Alla base della stele è incisa una frase dello scrittore e filosofo Ernst Jünger:

“L’uomo è un essere animato da una speranza, da un bagliore di eternità, un raggio di immortalità lo ha penetrato. Questo distingue anche il suo modo di amare da ogni altra specie di amore.”

Parole che evocano una spiritualità laica e universale, che riflettono la ricerca di senso oltre la morte, la convinzione che l’impegno, la dedizione, la passione per un ideale non si esauriscano nel corpo, ma sopravvivano nella testimonianza. Il monumento, nel suo slancio ascensionale, comunica ascesa, speranza, passaggio. Una visione della morte non come fine, ma come transito verso un significato più alto.

Francesco Cecchin morì in un’epoca segnata da uno scontro ideologico feroce, nel quale la violenza era divenuta linguaggio quotidiano e dove uccidere “un fascista non era un reato”. Il Fronte della Gioventù, movimento giovanile del MSI, subiva in quegli anni numerose aggressioni.

“E’ lui prendetelo”

Francesco venne trovato ai piedi di un muretto in via Montebuono, dopo essere stato inseguito e picchiato. Le testimonianze parlano chiaramente di un’aggressione da parte di militanti di sinistra, e risuonano le minacce subito prima “smettila protesti farti male” e pochi attimi prima dell’aggressione ” è lui prendetelo prendetelo”,  pronunciate da un’attivista comunista bel identificato allora provenienti da una Fiat 850 bianca dove viaggiava il commando pronto a colpire..

La verità giudiziaria non è mai arrivata, e questo silenzio ha acuito il dolore della famiglia e di una comunità politica che per anni si è sentita dimenticata.

Oggi quel monumento non è solo il ricordo di una giovane vita spezzata: è un invito a riflettere su quanto possa essere pericolosa la demonizzazione dell’avversario politico, su quanto la violenza – anche verbale – continui ad alimentare spaccature nella società italiana. È anche un monito ai giovani: perché l’impegno, la partecipazione e la passione non sfocino mai più nell’odio e nella sopraffazione.

Nel clima attuale, in cui i rigurgiti di intolleranza spesso riaffiorano sotto forme diverse, il monumento a Francesco Cecchin assume un valore civile universale, come lo è stata la sua morte, al di là delle appartenenze. Ricorda che ogni giovane vita che si spegne a causa dell’odio è una sconfitta per tutti, e che la memoria – se condivisa – può diventare ponte, non muro.

Il silenzio spezzato

A distanza di 45 anni dalla morte di Francesco, la sua memoria vive anche grazie a questo luogo: un giardino pubblico, aperto, dove ogni giorno passano persone, bambini, famiglie. Lì, sotto la stele, il silenzio parla, e la pietra racconta. In un tempo in cui si parla molto di memoria condivisa, quella di Francesco Cecchin resta un test difficile ma necessario. Perché ricordare non significa soltanto celebrare, ma riconoscere. E solo attraverso questo riconoscimento possiamo, forse, superare le lacerazioni del passato e costruire una società più giusta, dove l’odio non abbia più cittadinanza.

Redazione Scomunicando.it

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