Lo confesso: il mandante delle accuse a Fini sono io.
Io e tutti quei ragazzi che hanno creduto nella destra, investendoci la vita.
Noi, che possiamo comprendere i trasformismi, ma che non gli perdoneremo mai di aver svenduto i nostri sacrifici al “cognato”.
Io so chi c’è dietro le carte che accusano Fini.
So chi le ispira, conosco bene il mandante.
Non c’entra affatto con Palazzo Chigi, i servizi segreti, il governo di Santa Lucia.
Sognava un’Italia migliore, amava la tradizione quanto la ribellione, detestava l’arroganza dei contestatori almeno quanto la viltà dei moderati, e si sedette dalla parte del torto, per gusto aspro di libertà.
Portava in piazza la bandiera tricolore, si emozionava per storie antiche e comizi infiammati, pensava che solo i maledetti potessero dire la verità.
Quel ragazzo insieme ad altri coetanei fondò una sezione e ogni mese facevano la colletta per pagare tredicimila lire di affitto, più le spese di luce, acqua e attività.
Si tassavano dalla loro paghetta ma era solo un acconto, erano disposti a dare la vita.
Il ragazzo aveva vinto una ricca borsa di studio di ben 150mila lire all’anno e decise di spenderla tutta per comprare alla sezione un torchio e così esercitare la sua passione politica e anche di stampa.
Passò giorni interi da militante, a scrivere, a stampare e diffondere volantini. E con lui i suoi inseparabili camerati, Precco, Martimeo, il Canemorto, e altri.
Scuola politica di pomeriggio, volantini di sera, manifesti di notte, rischi di botte e ogni tanto pellegrinaggi in cerca di purezza con tricolori e fazzoletti al collo.
Erano migliaia i ragazzi come lui.
Ce ne furono alcuni che persero la vita, una trentina mi pare, ma non vuol ricordare i loro nomi* ( lo faremo in fondo all’articolo, non per memoria storica ma per un ricordo doveroso e giornalistico ndr) ; lo infastidiva il richiamo ai loro nomi nei comizi per strappare l’applauso o, peggio, alle elezioni per strappare voti.
È lui, il ragazzo di quindici anni, il vero mandante e ispiratore delle accuse a Fini.
Non rivuole indietro i soldi che spese per il torchio, per mantenere la sezione, per comprare la colla. Furono ben spesi, ne va fiero.
Non rivuole nemmeno gli anni perduti che nessuno del resto può restituirgli, le passioni bruciate di quel tempo. E nemmeno chiede che gli venga riconosciuto lo spreco di pensieri, energie, parole, opere e missioni che dedicò poi negli anni a quella «visione del mondo».
Le idee furono buttate al vento ma è giusto così; è al vento che le idee si devono dare.
Quell’etichetta gli restò addosso per tutta la vita, e gli costò non poco, ma seppe anche costruirvi sopra qualcosa.
No, non chiede indietro giorni, giornali, libri, occasioni e tanto tanto altro ancora.
Però quel che non sopporta è pensare che qualcuno, dopo aver buttato a mare le sue idee e i loro testimoni, dopo aver gettato nel cesso quelle bandiere e quei sacrifici, dopo aver dimenticato facce, vite, morti, storie, culture e pensieri, possa usare quel che resta di un patrimonio di fede e passione per i porci comodi suoi e del suo clan famigliare.
Capisce tutto, cambiare idee, adeguarsi al proprio tempo, abiurare, rinnegare, perfino tradire.
Non giustifica, ma capisce; non rispetta, ma accetta.
È la politica, bellezza.
E figuratevi se pensa che dovesse restare inchiodato alla fiamma su cui pure ha campato per tanto tempo.
Però quel che non gli va giù è vedere quelle paghette di ragazzi che alla politica dettero solo e non ebbero niente, quei soldi arrotolati di poveracci che li sottraevano alle loro famiglie e venivano a dirlo orgogliosi, quelle pietose collette tra gente umile e onesta, per tenere in vita sezioni, finire in quel modo.
Gente che risparmiava sulla benzina della propria Seicento per dare due soldi al partito che col tempo finirono inghiottiti in una Ferrari.
Gente che ha lasciato alla Buona Causa il suo appartamento.
Gente che sperava di vedere un giorno trionfare l’Idea, come diceva con fede grottesca e verace.
E invece, Montecarlo, i Caraibi, due, tre partiti sciolti nel nulla, gioventù dissolte nell’acido.
È questo che il ragazzo non può perdonare.
Da Berlusconi il ragazzo non si aspettava nulla di eroico, e neanche da Bossi o da Casini.
E nemmeno da Fini, tutto sommato.
Poteva perfino trescare e finanziare la politica con schifose tangenti; ma giocare sulla pelle dei sogni, giocare sulla pelle dei poveri e dei ragazzini che per abitare i loro sogni si erano tolti i due soldi che avevano, no, non è accettabile.
Attingere da quel salvadanaio di emarginate speranze è vergognoso; come vergognoso è lasciare col culo per terra tanta gente capace e fedele nei secoli, che ha dato l’anima al suo partito ed era ancora in attesa di uno spazio per loro, per favorire con appaltoni rapidi e milionari il suddetto clan famigliare.
Lui non crede che il senso della vita sia, come dice Bocchino in un’intervista, «Cibo, sesso e viaggi» (si è scordato dei soldi).
Il vero ispiratore e mandante dell’operazione è lui, quel ragazzo di quindici anni. Si chiama Marcello, ma potrebbe chiamarsi Pietrangelo o Marco (Renato, Enrico, Giuseppone, Peppino. Alfredo, Enzo, Almerigo, Giovanni, Massimo, Benedetto, Biagio, Daniele …. ndr).
Non gl’interessa se Gianfrego debba dimettersi e andarsene all’estero, ai Caraibi o a Montecarlo, o continuare.
Lo stufa questo interminabile grattaefini.
È pronto a discutere le ragioni politiche, senza disprezzarle a priori.
Sentiremo oggi le sue spiegazioni (ma perché un videomessaggio, non è mica Bin Laden).
Però Fini non ha diritto di rubare i sogni di un ragazzo, di un vecchio, di un combattente.
Non ha diritto di andarsi a svendere la loro dignità, i loro sacrifici, le loro idee.
Non può sporcare quel motto di Pound che era il blasone di quei ragazzi; loro ci hanno rimesso davvero, lui ci ha guadagnato.
Quel ragazzo ora chiede a Fini solo un piccolo sforzo, adattare lo slogan alla situazione reale e dire: se un uomo è disposto a svendere casa, o non vale niente la casa o non vale niente lui.
E la casa valeva.
Marcello Veneziani
Filosofo, Scrittore, Giornalista
“Passerò solitario e non vi accorgerete di nulla
perché nulla in fondo è accaduto.
Solo un’ ombra di vita che si fece scrittura”
*ecco quei nomi di quei “ragazzi” che Marcello non ha citato, che elenchiamo tutti, senza entrare nel giudizio delle loro storie e nelle scelte personali fatte.
Abate Oreste, Adobati Pietro, Alfano Beppe, Alibrandi Alessandro, Aliotti Antonino, Alvarez Alessandro, Anselmi Francesco, Antonelli Giulio, Assirelli Orlando, Bassa Erminio, Bigonzetti Franco, Billi Achille, Boccaccio Ivan, Caligiani Orio, Calzolari Armando, Campanella Angelo, Cecchetti Stefano, Cecchin Francesco, Ciavatta Francesco, Crescenzi Rodolfo, Crescenzo Roberto, Crovace “Mammarosa” Rodolfo, De Agazio Franco, De Angelis Nanni, De Nora Paolo, Di Nella Paolo, Discala Elio, Dominici Benvenuto, Esposti Giancarlo, Falduto Andrea, Falvella Carlo, Ferrari Silvio, Ferrero Enrico, Ferri Vittorio, Ferrorelli Giovanni, Gatti Ferruccio, Ghisalberti Felice, Giaquinto Alberto, Giralucci Graziano, Giudici Bruno, Grilz Almerigo, Jaconis Carmine, Labbate Bruno, Locateli “Michelin” Franco, Lupara Sergio Milano, Macciacchini Eva, Maccio’ Diego, Magenes Giorgio, Maino Antonio, Mancia Angelo, Manfredi Riccardo, Mangiameli Francesco, Mantakas Mikis, Manzi Leonardo, Massaia Leonardo, Mattei Stefano, Mattei Virgilio, Mazzola Giuseppe, Meggiorin Claudio, Meneghini Enrico, Minetti Riccardo, Montano Saverio, Mortari I Gino, Nardi Gianni, Nigro Francesco, Paglia Francesco, Pagliai Pierluigi, Palladino Carmelo, Pedenovi Enrico, Petruccelli Michele, Pistolesi Angelo, Principi Pietro, Ramelli Sergio, Recchioni Stefano, Santostefano Giuseppe, Scarcella Pino, Scarpetti Aldo, Spedicato Walter, Tanzi Brunilde Milano, Traversa Martino, Vale Giorgio, Venturini Ugo, Vivirito Salvatore, Zavadil Antonio, Zazzi Euro, Zicchieri Mario, Zilli Emanuele, Zucchieri Marzio
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