La conversione dell’Arsenale di Messina in Centro d’eccellenza NATO dove demilitarizzare e smaltire le unità navali militari sino a 2.000 tonnellate è, tuttora, “nella fase istruttoria da parte dell’Agenzia Industrie Difesa (AID)”. Così ha risposto il ministro della difesa Giampaolo Di Paola all’interrogazione parlamentare presentata dall’on. Americo Porfidia di Noi Sud lo scorso mese di luglio.
“Affermare che il progetto sia sposato dalla NATO Maintenance and Supply Agency (NAMSA), l’agenzia logistica con sede a Capellen (Lussemburgo), è ancora prematuro”, ha aggiunto Di Paola. “Il progetto potrà passare alla fase propositiva solo dopo tutti gli accertamenti di sicurezza e di convenienza. Anche nel caso in cui gli approfondimenti da parte dell’AID portino a riscontri complessivamente positivi, non è detto però che NAMSA giudichi accettabile la candidatura dell’Arsenale di Messina”.
Durante le operazioni di dismissione delle unità NATO i lavoratori opereranno a stretto contatto con innumerevoli agenti inquinanti, rifiuti tossici e speciali, ma ciò non sembra preoccupare le autorità di governo. “È opportuno precisare che lo smontaggio e lo smaltimento di navi militari radiate dal servizio, comporta operazioni su unità completamente scariche e asciutte, quindi con esclusione della presenza di prodotti chimici e di idrocarburi, e trattamenti secondo legge di taluni materiali di allestimento”, afferma Di Paola escludendo dunque i rischi di inquinamento ambientale. “Le modalità operative sono sostanzialmente riconducibili a quelle delle operazioni di raddobbo e di riparazione navale usualmente svolte dall’arsenale. Qualora si dovessero realizzare nuove opere, in particolare connesse ad attività concernenti la gestione di materiali pericolosi, è evidente che si dovrà acquisire il parere del comitato misto paritetico regionale costituito ai sensi del decreto legislativo n. 66 del 2010”. Strano gioco di parole quello del ministro: prima si esclude l’esistenza di prodotti inquinanti, poi invece si ipotizzano nuove infrastrutture per la loro gestione. Di Paola omette inoltre di rilevare che il comitato paritetico ha meri poteri consultivi sui “problemi connessi all’armonizzazione tra i piani di assetto territoriale e di sviluppo economico e sociale e i programmi delle installazioni militari”. Inoltre l’organo regionale non possiede alcuna competenza tecnico-scientifica per poter valutare i rischi per l’ambiente e la salute di eventuali nuove attività e impianti.
Bruxelles ha stimato che nei dieci anni successivi alla pubblicazione del Libro Verde saranno smantellate circa 100 tra navi da guerra e altre unità battenti bandiera di uno Stato dell’UE, “soprattutto francesi e britanniche”. Si tratta in buona parte d’imbarcazioni militari costruite tra gli anni ‘60 e i primi anni ’80, con quantitativi “relativamente elevati” di materiali pericolosi. “Con le navi destinate alla rottamazione tra il 2006 e il 2015, si prevede che nei cantieri di demolizione confluiranno circa 5,5 milioni di tonnellate di materiali potenzialmente rischiosi per l’ambiente, in particolare morchie, oli, vernici, metalli pesanti, PVC, PCB (bifenili policlorurati) e amianto”, aggiunge lo studio UE. Sempre secondo la Commissione, le morchie derivanti dalle navi da rottamare inciderebbero annualmente per 400.000-1.300.000 tonnellate, l’amianto per 1.000-3.000 tonnellate, il tributilstagno (TBT) per 170-540 tonnellate, le “vernici nocive” per 6.000-20.000 tonnellate.
La lettura del Libro Verde dell’Unione Europea pone inoltre serissimi interrogativi sulla reale sostenibilità economica-finanziaria del progetto NAMSA per l’Arsenale di Messina. La domanda internazionale di dismissione di unità navali non coprirebbe infatti minimante l’offerta d’intervento a basso impatto ambientale da parte dei numerosissimi cantieri e arsenali navali già esistenti in ambito UE o nei principali paesi partner. “La capacità oggi esistente di demolizione ecologica delle navi all’interno dell’UE e in Turchia (paese membro dell’OCSE dove è possibile esportare anche rifiuti pericolosi e dove sono presenti sul litorale di Aliaga, vicino Smirne, circa 20 cantieri di demolizione con una capacità complessiva di quasi 1 milione di tonnellate l’anno) è sufficiente per le navi da guerra e le altre imbarcazioni di Stato che saranno smantellate nei prossimi dieci anni, un centinaio circa, con una capacità di oltre 1.000 ldt, per una stazza complessiva di 500.000 ldt”, afferma Bruxelles. Se poi si guarda a livello mondiale, la capacità di riciclare le navi nel rispetto delle norme di tutela ambientale e di sicurezza viene stimata in 2 milioni di ldt/anno, come dire quattro volte in più della domanda europea per dieci anni.
“A questi dati vanno aggiunte le migliaia di persone che contraggono malattie irreversibili perché entrano in contatto o inalano sostanze tossiche senza la minima precauzione o protezione”, aggiunge il Libro Verde. “Secondo un rapporto medico presentato alla Corte suprema dell’India nel settembre del 2006, il 16% della manodopera che manipola amianto ad Alang risultava affetto da asbestosi e correva dunque un rischio elevato di contrarre il mesotelioma”, una forma di tumore al polmone che raggiunge il picco di incidenza solo vari decenni dopo l’esposizione.
“Finché non ci sarà parità di condizioni sotto forma di norme obbligatorie efficaci e valide per le attività di demolizione delle navi a livello mondiale, gli impianti europei avranno sempre difficoltà a competere sul mercato e i proprietari delle navi tenderanno sempre a dirigere le loro navi verso siti asiatici che non soddisfano gli standard minimi”, conclude l’UE. Appare dunque impossibile che l’Alleanza Atlantica, guardiano armato del capitale finanziario globale, possa assumere comportamenti diversi. E comunque se pure non volesse scegliere l’India o il Bangladesh per rottamare fregate e sommergibili, sono già belli e funzionanti i centri navali della Turchia, pedina chiave NATO per il controllo del Mediterraneo e del Medio oriente. Perché allora il governo d’Italia si ostina a candidare l’obsoleto Arsenale di Messina impedendone nei fatti la conversione a bene comune?
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