“Io sono ignorante, ma ho letto qualche libro. Tu non ci crederai, ma tutto quello che c’è a questo mondo serve a qualcosa. Ecco, prendi quel sasso li, per esempio.
Quale?
Questo… Uno qualunque… Be’, anche questo serve a qualcosa: anche questo sassetto.
E a cosa serve?
Serve … Ma che ne so io? Se lo sapessi, sai chi sarei?
Chi?
Il Padreterno, che sa tutto: quando nasci, quando muori.
E chi può saperlo? No, non so a cosa serve questo sasso io, ma a qualcosa deve servire. Perché se questo è inutile, allora è inutile tutto: anche le stelle. E anche tu, anche tu servi a qualcosa …”
Il matto e Gelsomina (dal film La strada di Federico Fellini)
Nessuno di questi toni mi si addice.
Scrivo questo articolo all’indomani della strage di Brindisi, del terremoto che ha sconvolto l’Emilia, dell’ennesima notizia di cronaca di genitori che ammazzano i figli e si suicidano per depressioni legate anche a difficoltà economiche, all’indomani delle celebrazioni commemorative per i giudici Falcone e Borsellino. La gioia e la soddisfazione per un evento bello che ha toccato la nostra città ha già ceduto il passo alla tristezza e alla rabbia.
Ho sempre più l’impressione che la cultura collutoria, (fai due sciacqui per rinfrescare la coscienza e poi sputi) di cui ci ha parlato Bergonzoni con quella profonda leggerezza che lo contraddistingue, sia quella che più ci appartiene anche se siamo ormai molto abili nel mascherarla travestendola con slogan presi a prestito da gente che ha perso la propria vita pur di dare peso e corpo alle proprie idee.
Mi riferisco, in particolare, alla frase del giudice Caponnetto che in questi giorni a migliaia condividiamo su Facebook: “la mafia teme più la scuola che la giustizia”. Il significato è lampante ma la domanda è: quanto siamo convinti che sia necessario investire sulla cultura per spezzare la diabolica circolarità tra ignoranza e mafia?
La risposta è altrettanto chiara: poco o niente.
Finché si tratta di finanziare un evento in grado di attirare un po’ di gente (tanto al kilo) allora va bene, qualcosa si può fare, ma se si chiede di inserire quell’evento in una rassegna culturale che si dispieghi nel tempo, che ha dei contenuti, una logica di sviluppo, una coerenza interna, che può creare un nuovo bacino di interesse allora no, non ne vale la pena perché “con la cultura non si mangia” e di questi tempi è un lusso che non possiamo permetterci.
Questo il tono di ciò che mi è stato detto dopo i complimenti per il più che riuscito convegno. E’ stato un successo! Però ora basta! Stai calma e torna all’ordinario di ciò che ti compete.
E cosa ce ne facciamo di ciò che è successo?
Lo sputiamo perché non ci serve più, perché era solo una dimostrazione di ciò che possiamo fare?
Se è così io dico che non ci sto, non è questo il motivo per cui ho messo in piedi il progetto Cogitazioni (vd. num. precedente) e l’ho presentato il 9 maggio scorso all’interno del convegno di Bioetica “Il sapere del corpo”.
Non è per dimostrare che posso, ma che voglio impegnarmi ed occuparmi di ciò che mi compete per formazione e lo voglio non solo a titolo personale e di ordinaria ricerca accademica ma anche sociale e di extra-ordinaria valenza politica (non per una geniale originalità ma per quel sovrappiù di chi sceglie di dedicarsi a …). Se non fosse stato così non avrei scelto un luogo pubblico come l’Università, ma l’avrei fatto in confessione o al telefono con un amico. Non è per tornare a stare calma dopo aver mosso le acque, ma per provare a stare colma di idee e di progetti e, soprattutto, per vedere se e quanto questi progetti possano entrare nelle pieghe della storia vissuta da ciascuno di noi. Ne va di me, degli studiosi e degli artisti che mi sostengono, ne va di chi si sta affidando ad un progetto di ricerca incerto nell’esito ma denso nei contenuti (mi riferisco in particolare agli specializzandi in oncologia della Facoltà di Medicina e Chirurgia del Policlinico Universitario di Messina) ne va di ciò per cui lavoro e in vista di cui continuo a formarmi: esercitare la professione accademica. Non ci si pensa quasi più ma per far questo non basta sapere, bisogna essere, provando a portarsi all’altezza delle cose che si dicono, a maggior ragione quando queste cose hanno a che veder, come nel mio caso, con la filosofia morale.
Forse conviene allora ricordare, con il filosofo Derrida, ciò che significa professare e quale posta in gioco si nasconda in tale questione per quel che riguarda il lavoro, il mestiere (professorale o meno), per l’università, la scuola e la cultura in generale. Professare (dal latino profiteor) significa dichiarare apertamente, dichiarare pubblicamente.
La dichiarazione di chi professa è in qualche modo una dichiarazione performativa. Essa impegna attraverso un atto di fede giurata, un giuramento, una testimonianza, una manifestazione, un’attestazione o una promessa. E’ appunto, nel senso forte della parola, un impegno. Professare, significa dare un pegno impegnando così la propria responsabilità.
“Fare professione di”, significa dichiarare francamente quel che si è, quel che si crede, quel che si vuol essere, chiedendo all’altro (in questo caso le numerose persone che ho contattato direttamente e a cui ho presentato il progetto, tra cui molti studenti) di credere a questa dichiarazione sulla parola. Insisto su questo valore performativo della dichiarazione che professa promettendo perché, se ci pensiamo bene, è simile a quella che fa l’attore nel momento in cui entra in scena: dichiara di essere Otello senza dirlo ma agendo, pensando e muovendosi come se lo fosse, ed io, spettatore, gli credo non solo o non tanto perché è tecnicamente bravo ma perché è.
La sua presenza scenica è tale che cattura la mia attenzione ed io non mi chiedo più chi sia realmente l’attore che interpreta Otello, non mi interessa, anzi se lo vedo, se ne riconosco gestualità e tratti quotidiani la magia del come se svanisce, la verità della finzione si frantuma e la noia e la tristezza cominciano a farla da padroni. E’ questo il motivo per cui ho scelto il teatro per ridare peso e corpo alle parole dell’etica. Non è più tempo per fossilizzarsi su dogmatiche posizioni legate alla logica binaria: bene/male; giusto/ingiusto; sacro/profano.
Le parole restano parole vane se perdono l’aderenza alla realtà, se non passano attraverso la fatica e il sudore del corpo che apprende solo dopo lunghi e, apparentemente, insensati esercizi.
Imparare a pensare alla complessità del tempo che viviamo – se non è uno slogan dal sapore intellettualistico – significa disporsi ad un senso della cultura che non è potere ma servizio e che implica scelte ragionate e ragionevoli legate al valore d’uso (perché ho studiato filosofia?
Come posso farla circolare fuori dall’Accademia al di là delle tappe prestabilite?) significa, ancora, pensare all’etica non come una “dottrina” ma come una “disposizione abituale ad agire in una certa maniera” e per far questo non basta un giorno, un investimento, uno slancio, una scommessa.
E’ una impresa lunga, un’arte sapiente, che implica una metamorfosi culturale in virtù della quale la smettiamo di piangere sul latte versato e ci decidiamo tutti, a vario titolo, a cambiare le mucche impegnandoci pure a tenere pulita la stalla.
Giusi Venuti
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