16 marzo 1968. Sono le foto che raccontano un massacro tenuto nascosto per anni dall’esercito Usa.
Quella mattina di sabato un contingente americano di circa un centinaio di soldati, noto come la Compagnia Charlie (11a Brigata), approdò nel piccolo villaggio della provincia di Quang Ngai, 840 km a Nord di Saigon.
Dalle scarse informazioni militari ricevute credevano di trovare nascosti lì alcuni ribelli del Fronte Nazionale per la Liberazione del Sud Vietnam, i cosiddetti Vietcong. Così gli aveva riferito il capitano Ernest Medina che li aveva spediti in missione, ma ad accoglierli c’erano solo contadini inermi, vecchi, donne e bambini.
Nonostante ciò i soldati americani, su ordine del tenente Calley, svuotarono i caricatori sui civili disarmati. Buttarono le bombe a mano nelle capanne.
Violentarono le ragazzine in branco e poi le trucidarono con le baionette. La pancia di una donna incinta fu squartata con un machete, il feto lanciato lontano nelle sterpaglie. Vecchi, donne e bambini furono raccolti in piccoli cerchi e falciati con le mitragliatrici.
Un orrore senza limiti dinanzi al quale forse anche un plotone dell’Isis impallidirebbe.
A fermare la mattanza fu il pilota di un elicottero dell’esercito Usa in ricognizione, che atterrò frapponendosi tra i soldati americani e i superstiti vietnamiti. Il sottufficiale Hugh Thompson Jr. affrontò i capi delle truppe americane e disse che avrebbe aperto il fuoco su di loro se non si fossero fermati. Poi diresse l’evacuazione del villaggio, mentre due membri del suo equipaggio, Lawrence Colburn e Glenn Andreotta, tenevano i soldati sotto tiro.
Salvarono 11 vite, gli unici superstiti.
Il numero delle vittime non fu mai stabilito con certezza, anche perché i soldati, per nascondere l’eccidio, gettarono bombe a mano sui corpi e incendiarono le capanne.
Forse 70, come sentenziò la Corte Marziale, 347 dice la stima ufficiale statunitense, 504 secondo il piccolo museo memoriale vietnamita che sorge oggi in mezzo alla vegetazione e al silenzio. Nel rapporto militare il capitano Medina scrisse che erano stati uccisi 90 Vietcong e nessun civile.
Ci vollero due anni e la tenacia di un reporter freelance di nome Seymour Hersh per arrivare ad un processo. Fu lui a raccontare la storia come la conosciamo oggi: lo scoop gli valse il Premio Pulitzer ma prima dovette passare per il rifiuto di importanti testate fotogiornalistiche come Life e Look.
Il massacro di My Lai divenne di pubblico dominio solo quando Hersh riuscì a scrivere un articolo per la Associated Press in cui svelava l’inchiesta del tribunale militare nei confronti del sottotenente Calley e metteva in dubbio il numero reale di morti.
Gli scatti del fotografo dell’esercito Usa, Ronald Haerberle
tratto da Bliz Quotidiano
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