A dar la notizia, per prima è la Gazzetta del Sud, qui si legge che dopo due anni di indagini non è stato possibile individuare l’identità di killer e mandanti. Le indagini sono state orientate sui mozziconi di sigaretta, perizie balistiche, prelievi del dna, fotografie, sopralluoghi, intercettazioni telefoniche e ambientali. Sono stati scandagliati gli ambienti storici della malavita organizzata. La ricostruzione dei fatti si basò anche sulle testimonianze delle vittime, Antoci, il vice questore Manganaro e gli agenti di scorta, che furono sentiti dai magistrati nell’immediatezza dei fatti. Ma tutto questo non è servito ad individuare responsabilità.
Di fatto ora leggendo quelle carte resta un mistero chi sparò la notte del 18 maggio 2016 contro l’auto blindata del presidente del parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci.
Restano i dubbi su quel fatto, solo le certezze dei firmatari dell’odierno provvedimento, i sostituti procuratori Angelo Cavallo, Vito Di Giorgio e Fabrizio Conte che senza prove mandano in pensione il caso.
Così si scopre che a sparare tre colpi di fucile calibro 12 fu una sola arma.
La traiettoria dei colpi fu dall’alto verso il basso.
I colpi centrarono lo sportello dell’auto su cui viaggiava il presidente del parco dei Nebrodi. Colpi non per uccidere ma solo per frenare la corsa della macchina al resto dovevano pensarci le due molotov preparante ma non utilizzate per l’arrivo dell’auto di scorta.
Su questa c’era il vicequestore della polizia Antonio Manganaro, dirigente del commissariato di Sant’Agata e l’assistente capo Tiziano Granata che spararono su quel gruppo di fuoco fermo sul ciglio della strada mettendo in fuga i killer.