Cronaca

NESSUN COLPEVOLE – L’agguato a Giuseppe Antoci va in archivio? Eppure sospetti e riscontri c’erano

La Procura della Repubblica di Messina ha chiesto l’archiviazione per le quattordici persone indagate per i fatti accaduti il 18 maggio 2016. il DNA non da riscontri, e nonostante i sospetti, non è stato possibile individuare l’identità di killer e mandanti. Nelle mani del Gip ora resta l’ultima parola, mentre Antoci commenta “Nessuno si illuda tra i mafiosi e i collusi che il pericolo è passato, l’impegno va avanti con convinzione”. Un duro monito mentre in questa vicenda si intreccia anche la figura investigativa di Tiziano Granata e le ipotesi, quasi da film giallo, di depistaggi e interessi oscuri.

A dar la notizia, per prima è la Gazzetta del Sud, qui si legge che dopo due anni di indagini non è stato possibile individuare l’identità di killer e mandanti. Le indagini sono state orientate sui mozziconi di sigaretta, perizie balistiche, prelievi del dna, fotografie, sopralluoghi, intercettazioni telefoniche e ambientali. Sono stati scandagliati gli ambienti storici della malavita organizzata. La ricostruzione dei fatti si basò anche sulle testimonianze delle vittime, Antoci, il vice questore Manganaro e gli agenti di scorta, che furono sentiti dai magistrati nell’immediatezza dei fatti. Ma tutto questo non è servito ad individuare responsabilità.

Di fatto ora leggendo quelle carte resta un mistero chi sparò la notte del 18 maggio 2016 contro l’auto blindata del presidente del parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci.

Restano i dubbi su quel fatto, solo le certezze dei firmatari dell’odierno provvedimento, i sostituti procuratori Angelo Cavallo, Vito Di Giorgio e Fabrizio Conte che senza prove mandano in pensione il caso.

Così si scopre che a sparare tre colpi di fucile calibro 12 fu una sola arma.

La traiettoria dei colpi fu dall’alto verso il basso.

I colpi centrarono lo sportello dell’auto su cui viaggiava il presidente del parco dei Nebrodi. Colpi non per uccidere ma solo per frenare la corsa della macchina al resto dovevano pensarci le due molotov preparante ma non utilizzate per l’arrivo dell’auto di scorta.

Su questa c’era il vicequestore della polizia Antonio Manganaro, dirigente del commissariato di Sant’Agata e l’assistente capo Tiziano Granata che spararono su quel gruppo di fuoco fermo sul ciglio della strada mettendo in fuga i killer.

Manganaro, si legge su La Repubblica, in diverse relazioni ha fatto i nomi di appartenenti alle cosche mafiose dei Nebrodi che aveva notato poche ore prima vicino ai luoghi in cui il presidente del Parco si trovava, ma gli accertamenti nei loro confronti, così come le intercettazioni hanno dato esito negativo.

E l’ormai ex presidente del Parco dei Nebrodi rilancia la sua sfida e parla chiaramente di collusi e mafiosi dicendo che “Nessuno si illuda” e intimando che per loro “il pericolo non è passato, l’impegno va avanti con convinzione”. Aggiungendo: “Ormai il protocollo è legge  se ne facciano una ragione, ormai i mafiosi non potranno più accaparrarsi i fondi europei per l’agricoltura a discapito dei poveri e onesti agricoltori”.

Di certo questo capitolo finale della vicenda dell’agguato, senza colpevoli, senza nomi, quasi fatto da fantasmi dissolti nelle nebbioline dei boschi dei nebrodi, lascia a tanti l’amaro in bocca.

Un finale da libro giallo, anzi quasi un finale già scritto, se si lascia credito ai complottisti che sposarono da subito la teoria del depistaggio sistematico atto a colpire Antoci, isolarlo nelle sue operatività strategiche in tema di legalità contro il crimine organizzato.

Un filo rosso che lega anche altro.

Redazione Scomunicando.it

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