SI COMPLETA LA PUBBLICAZIONE DE “IL LIBRO NERO”. IL RACCONTO DI PATTI, TRA FATTI E RICORDI SCRITTO DA ENZO RUSSO. UNA STORIA CHE PARTE DAGLI ANNI SESSANTA. LA STIAMO PUBBLICANDO IN PIU EPISODI UTILIZZANDO LE FOTO CONCESSE DA DARIO LAGUIDARA.
terza parte
La chiesa era la mia casa. Diventai chierichetto fin da piccolo e dovevo con pazienza subire la legge dei più grandi. Mi concedevano di fare “il secondo” se non “il terzo” nel servire la messa e poi il prete ci segnava i punti nelle schede che teneva nella sacrestia e alla fine dell’anno i primi venivano premiati. Altra cosa molto ambita, che solo il primo chierichetto poteva fare, era di suonare la campanella durante la celebrazione della Messa nel momento della fase della consacrazione per richiamare l’attenzione dei fedeli. Io impazzivo per poterlo fare e, poiché volevo anche primeggiare, le studiavo tutte. A volte, se ero indietro con i punti, al mattino mi alzavo prestissimo, mi vestivo di fretta e scappavo in chiesa a servire la messa delle sei. Ero tra i pochi capace di farlo. Poi tornavo a casa per lavarmi e vestirmi, facevo colazione e andavo alle scuole elementari con mia zia la maestra con il punto interrogativo al rovescio ben in vista sulla fonte. Così a fine anno, con l’invidia di tutti, prendevo sempre uno dei primi premi.
A scuola ero molto bravo soprattutto in matematica e facevo fin da allora qualsiasi calcolo a mente, cosa che è rimasta sempre nelle mie corde anche se ora con l’età inizio a perdere qualche colpo. Andavo bene in tutte le materie, ma la mia passione erano le poesie che imparavo subito a memoria e ripetevo con enfasi, quasi fossi al teatro. Cercavo rime nascoste o significati reconditi e mi piaceva scoprirne sempre di nuove. Al dire il vero le poesie dell’infanzia spesso erano tristi e parlavano di morte come continuò ad essere anche dopo alle scuole medie: la cavallina che portava colui che non ritorna, la giovane donna che andava a spigolare e ne vide morire trecento, l’esilio forzato fino alla morte senza poter mai più toccare le sacre sponde, colui che emise il mortal sospiro, e tante altre. Ma quella che mi struggeva di più da bambino era quel pianto antico che mi faceva pensare a quel bimbo sepolto nella terra fredda che il suo babbo non poteva più abbracciare. Un dolore estremo. Solo dieci anni dopo avrei compreso cosa avrebbe significato nella mia vita la poesia dopo che la scoprii nelle parole di Pasolini e nei versi di De Andrè.
I miei amici coetanei più intimi erano Nino C. e Nino G. e il pomeriggio dopo i compiti li raggiungevo in piazzetta per giocare con loro. Aspettavamo con ansia che mia zia Maria terminasse una pezza delle tante stoffe che erano avvolte attorno ad una esile struttura di legno, composta da due lunghe bacchette laterali tenute insieme da altre due più piccole ai limiti estremi e da due centrali, formando così una specie di gabbia abbastanza rigida. Mio zio Nello diceva sempre che le stoffe erano ancora tutte intere ma appena lui si allontanava mia zia ci chiamava e ce ne dava una, dopo aver tolto i pochi giri finali della stoffa che ripiegava e metteva sopra le altre negli scaffali. Noi smontavamo con delicatezza le corte bacchette centrali e le fissavamo perpendicolarmente con un chiodino e con del fil di ferro sottile nella parte alta di quelle lunghe, costruendo così delle spade e dando inizio alle epopee di Zorro. Qualche indumento diventava il mantello e il gioco durava fino a quando le spade, inesorabilmente, non si spezzavano. Altre volte legavamo una lunga corda sopra la base della madonnina, che ci perdonava e sorrideva sempre, e l’altro capo, attraversando metà piazzetta, alla maniglia del portone di casa di Nino C. e iniziavano così interminabili partite di pallavolo.
Anche quell’anno arrivò come sempre il mese di maggio, mese mariano cioè della Madonna. La casa di Nino C. era grandissima, aveva un’enorme cantina e tre piani. L’ultimo piano era una pensione, attiva nel paese da tantissimi anni, condotta dalla sua famiglia. Ci alloggiavano perlopiù impiegati o insegnanti che venivano da fuori paese. Le scale erano di una pietra grigia freschissima molto antica e lungo le pareti laterali erano ricavate diverse nicchie dove si trovavano delle statuine sacre di gesso. All’ingresso, subito dietro il portone, c’era una specie di altarino e, a seconda della festività, trovava onore su di esso la relativa statuetta che riceveva le preghiere del rosario che veniva recitato tutte le sere. Così per Santa Febbronia, che è la protettrice del nostro paese, era la sua statuina ad essere posizionata in quel posto privilegiato, per il Corpus Domini quella del cuore di Gesù, per la festa della Madonnina nera del Tindari veniva adorata la sua statua con in braccio il bambinello anch’esso nero, e così via fino ad arrivare al mese di maggio. La statuetta della Madonna era davvero bella e commovente, credo fosse una statua della madonna di Lourdes, vestita di bianco con dei risvolti della veste celesti, le mani unite in preghiera, il viso sereno come quello di una mamma con il sorriso appena accennato. Io diventavo buono solo a guardarla, anche se mai per più di cinque minuti.
Nel mese di aprile del 1967 mio zio Nello aveva ordinato dietro ordinazione per la Pasqua una grandissima pezza di cotone nero spesso con la quale si dovevano fare delle tende che dovevano essere usate anche per la scenografia della Via Crucis vivente che attraversava tutte le vie del centro storico, accompagnata dalla banda municipale che suonava una musica molto triste e struggente. Nessuno fiatava a quei tempi nelle processioni e ad ogni tappa un prete recitava il rosario e alcune preghiere previste dal rito sacro. Gesù era interpretato da un figlio di compare Cavaliere Greco, uno dei due che chiamava “patrozzu” mio padre, che porta il mio stesso nome e che da giovane assomigliava tantissimo a Gesù con la barba e i lunghi capelli biondi, vestito con una leggera tunica bianca legata con una cintura di corda alla vita, truccato alla perfezione e che doveva trascinare una pesante croce per tutto il paese salendo fino alla piazza in sterrato chiamata “’nta Sibba”, oggi piazza XXV Aprile, dove c’era una piccola montagnola sulla quale venivano posizionate le tre croci davanti a degli ulivi che facevano da sfondo e sui quali erano piazzate le luci che mandavano lampi inquietanti e le casse che emettevano rumori da “fini du munnu”. Tutto il resto si nascondeva con la pesante stoffa nera dello zio Nello.
E fu da qui che aguzzammo l’ingegno e iniziarono i guai.
Tutti gli anni portavamo in processione un’altra statuetta della Madonnina che aveva sempre la nonna di Nino C. per tutta la piazzetta, salivamo il primo breve tratto della Via Verdi e all’angolo del bar Galante scendevamo nella Via Regina Elena fino allo slargo rialzato di fronte casa mia, dove continuavamo a imitare, a bocca chiusa, le musiche sacre suonate dalla banda il venerdì santo e battevamo con dei bastoni su dei tamburi improvvisati, non erano altro che dei fustini di cartone di detersivo rovesciati, e facevamo musica sacra anche sbattendo tra di loro dei grandi coperchi piatti delle pentole dell’epoca. Questo avveniva soprattutto la domenica quando tutto il paese passava attraverso la mia via per andare alle varie messe del mattino mentre l’aria era satura dell’odore del sugo.
In verità già dal sabato pomeriggio il profumo della carne messa a cuocere a fuoco lento nella pentola iniziava a invadere la via, era un miscuglio di odori leggermente diversi poiché ciascuna nonna o mamma aveva i suoi segreti sia nei tagli di carne, anche se quella di maiale con un pezzo di cotenna attaccata non poteva mancare, sia negli aromi usati. La domenica mattina presto la carne si metteva nella grande casseruola con la salsa di pomodoro, un po’ di “astrattu di pummadoru” e altre spezie che venivano aggiunte. Mia nonna usava pochissima cipolla ma abbondava con i chiodi di garofano e aggiungeva un pizzico di bicarbonato. Il gas era tenuto bassissimo e il coperchio sulla pentola si lasciava un po’ discosto per fare uscire il vapore e così l’inebriante profumo ne approfittava per farsi apprezzare. Il balcone della cucina si doveva lasciare accostato per evitare che si formasse eccessivo vapore acqueo dentro la stanza e così da tutte le case i vari profumi scendevano nella mia piccola via e si fondevano insieme. Ancora oggi quando passo per quella strada riesco a sentire quell’odore di festa e del pranzo di quelle antiche domeniche. Inutile dire che il sugo di mia nonna, con il quale spesso condiva i “maccaruni cu bucu fatti a manu ca pannuzza”, era il più buono di tutti e che mai più riuscirò a ritrovare quel sapore in nessun altro piatto.
Nel mese di maggio mio zio Nello, ispirato non so da quale bontà, ci regalò la struttura di quella enorme pezza di stoffa di cotone che era stata tutta venduta e che era composta da legni molto più grossi e resistenti di quelli che usavamo di solito per costruire le spade di Zorro. Di fronte al bar Galante c’era una bottega di ferramenta e il fabbro proprietario costruiva anche enormi giare di acciaio per tenere l’olio durante l’anno, che facevano bella mostra poste nella strada davanti l’ingresso. Andammo dal figlio del fabbro, un giovane nostro amico, che con gli attrezzi adatti riuscì a togliere le bacchette centrali senza romperle e a posizionarle tutte al centro di quelle lunghe, pochissimo distanziate tra di loro, e poi le fissò per bene con dei chiodi e con del fil di ferro. Avevamo così costruito la nostra vara. La statuetta della Madonnina trovò posto su questa struttura e la legammo con dello spago ben stretto e girato attorno alla base per non correre il rischio di farla cadere, mettemmo un pezzo di stoffa di raso rosso sempre regalato da mia zia Maria e dei fiori di plastica che Nino C. prese dai suoi altarini che fissammo con il fil di ferro vicino la Madonnina. La processione era ora uno spettacolo. In quattro, due avanti e due dietro, portavamo la vara nel nostro percorso e tutti gli altri bambini del quartiere camminavano attorno suonando musiche sacre con la bocca e battendo su ogni tipo di cosa disponibile che poteva creare rumore. Era una copia in piccolo della processione delle varette del venerdì santo.
Ma il pericolo era dietro l’angolo. Non ricordo bene di chi fu l’idea ma credo sia stato io a chiedere ad uno dei nipoti della Sig.ra Panta della tipografia, quello che consideravo mio cugino, di procurarci, per meglio dire di trafugare, un mazzetto di immaginette della Madonna che la tipografia stampava per le chiese del paese in quel mese. E così oltre la processione passavamo dai vari negozi o fermavamo la gente che si recava in chiesa e passava davanti lo slargo di fronte casa mia chiedendo a tutti delle offerte. In un primo tempo non sapevamo bene cosa fare, ma visto il gran successo ottenuto la domenica sera i tre organizzatori ci riunimmo nella piazzetta della Madonnina e, avendo raccolto l’incredibile cifra per quei tempi di novecentocinquanta lire, decidemmo di dividerci trecento lire ciascuno e di portare in chiesa le rimanenti cinquanta lire. In fondo tutto il lavoro lo avevamo fatto noi. Smontammo la varetta e giurammo di mantenere il segreto.
Avevo compiuto da pochi giorni 8 anni e come stabilito il mio socio andò in chiesa a portare le cinquanta lire al prete il quale sapeva già tutto e ci aspettava. Era passata più volte davanti a noi “a signurina”, la chiamavano tutti così, una piccola donna ormai un po’ curva e con le gambe arcuate come quelle di un fantino e che sovraintendeva a tutte le cose della chiesa, diceva il rosario a voce alta e dava l’inizio ai canti con una voce che penetrava nei timpani, difficile da dimenticare, di quelle che spesso le pie donne insospettabilmente tirano fuori in chiesa. Un pomeriggio mentre ero dal barbiere, costretto come sempre a aspettare a lungo il mio turno, “a signurina” era passata davanti al salone e qualcuno aveva detto “taliati a signurina comu curri pi iri a chiesa unni u parrinu” e un altro aveva aggiunto “si, a signurina… ni manciò picca ciucculatta di miricani”, e giù risate incontenibili. Comunque “a signurina”, che aveva mangiato tanta cioccolata offerta dagli americani durante la liberazione ringraziandoli e ricambiando generosamente con tutto il suo cuore, tutte le volte che passava nella mia via e vedeva la nostra varetta, ci guardava con sdegno e aveva subito raccontato tutto al prete.
Quando il mio socio gli diede le cinquanta lire, avendo stupidamente pensato che fosse meglio fare così invece di metterle nell’offertorio, il prete lo guardò male e con appena una o due domande si fece confessare tutto, facendogli così tradire il suo giuramento, e lo mandò a chiamarci perché voleva parlare a tutti e tre insieme. Tremavamo già prima di entrare in chiesa e io avevo gli occhi pieni di lacrime. Il prete ci fece entrare in sacrestia e si mise seduto sopra il gradino sulla sedia grande con i braccioli. Sembravamo così ancora più piccoli e sottomessi già dall’inizio. Con parole gravi ci disse che avevamo rubato a Gesù, alla Madonna e a tutti i poveri, che non avremmo più potuto entrare in chiesa o fare l’anno successivo la prima comunione alla quale ci stavamo preparando, che non eravamo più degni di fare i chierichetti (avrei quindi perso tutti i miei punti) e, cosa assai più grave e di cui nessuno di noi era a conoscenza e che ci sconvolse la vita, che esisteva un grande LIBRO NERO custodito da San Pietro in persona dove i nostri nomi erano stati scritti con l’inchiostro indelebile, cosa che ci avrebbe sbarrato per sempre le porte del paradiso. Eravamo destinati a marcire all’inferno. Poi ci buttò letteralmente fuori dalla chiesa. Prima di uscire uno dei miei due amici trovò il coraggio di chiedere se era possibile restituire i soldi e lui disse che questo era il minimo che potevamo fare.
Nei giorni seguenti non riuscivo quasi più a dormire e facevo sogni apocalittici, vedevo apparire dalle nuvole un immenso LIBRO NERO con il mio nome scritto a caratteri cubitali. Non uscivo di casa per paura e mi venne anche un po’ di febbre e vomitai quasi per un pomeriggio intero. Mia madre iniziò a preoccuparsi, ma io resistevo e non dicevo nulla. Fu la mamma di uno dei miei soci a metterla a corrente di tutto perché anche con lei il figlio non aveva resistito più di mezza giornata a mantenere il segreto. Mia madre mi chiamò e mi disse con tono severo che la sera ne avremmo discusso con mio padre al suo rientro e avrei dovuto vedermela con lui. Immaginai che avrei ricevuto tutte quelle legnate che fino ad allora non avevo mai preso e che avrei avuto tremende punizioni. Senza bisogno di cantare Granada anche quella volta me la feci un po’ addosso.
La sera fu mia nonna a difendermi perché mi vedeva sconvolto anche se disse che erano cose che non bisognava fare, però in un certo senso, lei che era commerciante fino a dentro l’anima, lodò il mio senso degli affari solo che avevo scelto di sicuro il modo sbagliato per metterlo in pratica. Mia madre mi ordinò di portare subito i soldi in chiesa e promise che poi avrebbe parlato lei con il prete per vedere se c’era qualche possibilità di far sparire il mio nome dal LIBRO NERO. Fu qui che io piangendo dissi “ma allora non capisci, il prete mi ha detto che è scritto con l’inchiostro indefebile” e tutti scoppiarono a ridere per il mio errore nel ripetere una parola della quale sconoscevo il significato, ma intuivo rappresentasse qualcosa di veramente grave e di definitivo.
Ma i guai non vengono mai da soli. Come facevo a dire che delle trecento lire ne avevo ora solo duecentoventi? Nei giorni dopo avere avuto tra le mani quella enorme cifra per un bambino, continuando i festeggiamenti dei miei 8 anni, mi ero comprato nel bar Galante due enormi pesche, un dolce buonissimo che era appunto del pan di spagna modellato come una enorme pesca riempito al centro con una crema chantilly molto leggera e farcita all’esterno con una granella di colorito rosa e al centro una foglia di zucchero commestibile. Insomma una vera e propria pesca gigante che poteva tranquillamente essere mangiata come dolce da una famiglia di quattro persone. Ma io ero tenace con i dolci e non mi davo certo per vinto. Le mangiai lentamente, una per giorno, nella parte posteriore del bar dove c’era un biliardino e da dove passavo spesso per andare in piazzetta. Non mi disturbò nessuno. A pensarci bene forse fu quello che mi causò il malessere con il vomito e un po’ di febbre e non tanto la preoccupazione della quale credevo fosse la colpa. Una pesca costava venti lire e così ne feci fuori quaranta. Poi, generoso per come sempre sono stato, con altre quaranta lire comprai un pallone nuovo per giocare a pallavolo di quelli leggeri a pentagoni bianchi e neri della mia squadra del cuore e passando lo feci vedere a “Pitrittu” che aspettava l’arrivo di un nuovo eroe nella nostra Juve.
Non sapevo come fare e non potevo certo dirlo ai miei. Continuavo a essere inquieto e nei miei sogni c’era sempre il LIBRO NERO e anche l’umiliazione di non poter andare in chiesa e soprattutto di non poter entrare nella sala dell’azione cattolica. Il sabato mattina chiesi a mio padre una cosa che riuscì miracolosamente a risolvere tutto. Avevo avuto una grande idea durante la notte e così domandai il permesso di vendere a Vanni Pino, il rigattiere del paese, la bicicletta che avevo ricevuto in regalo a Natale. A quel punto mio padre capì tutto e mi chiese di fare vedere solo a lui i soldi che avevo e così gli mostrai le duecentoventi lire, confessandogli anche come avevo speso le rimanenti ottanta. Mio padre, l’uomo più buono e gentile del pianeta, mi diede cento lire e dopo solo tre minuti tutti i soldi erano nelle mani del prete che, benevolmente, mi disse che ora sarei potuto entrare in chiesa, che dovevo dire cento tra padre Nostro e Ave Maria come penitenza e che avrebbe cercato in tutti i modi di fare usare, a non so bene chi, una polvere speciale che sarebbe riuscita a fare cancellare il mio nome dal LIBRO NERO. Chiesi se con le venti lire rimaste, essendo ormai sdegnato dalle pesche del bar Galante, potevo accendere una delle candele che c’erano davanti alla statua di San Nicola. Naturalmente il prete fu d’accordo e apprezzò il mio gesto. La successiva domenica riuscii a servire anche la messa delle undici, la più frequentata, sempre come terzo essendo la più ambita da tutti i grandi. Tornato a casa mio padre mi chiese se avevo consegnato i soldi e se tutto era andato bene. Gli raccontai dell’incontro con il prete e alla fine lui aggiunse “Spirammu mi non ci potta tutti unni Arturu”.
Arturo era il proprietario della bottega del paese dove si vendeva anche il vino sfuso.
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