Nel territorio di Sant’Agata e Capo d’Orlando, ma non solo, nasce nel 2008 Pink Project, un’associazione dedicata alla sensibilizzazione contro il disarmante fenomeno della violenza di genere.
di Italo Zeus
Le vere attività che trasformano l’associazione in un centro antiviolenza iniziano nel 2013, spinte dall’esponenziale aumento di visibilità dei femminicidi. Inizialmente composta da un piccolo gruppo di massimo sette persone con formazione trasversale — dall’assistenza psicologica a quella legale e amministrativa — il centro diventa un luogo di accoglienza e aiuto per donne in difficoltà.
L’operatrice è la figura chiave: può essere psicologa, assistente sociale, pedagogista, educatrice o assistente legale. Non esiste un percorso universitario specifico per trattare la fenomenologia della violenza; per questo, è fondamentale una preparazione trasversale che consenta di proporre soluzioni ampie e diversificate alle donne accolte.
Importante è anche la metodologia tutta al femminile: non vi sono uomini tra le operatrici interne, poiché la relazione empatica tra donne è la base su cui si costruisce il percorso di aiuto. Gli uomini possono collaborare solo in progetti esterni come l’inserimento lavorativo o la formazione.
Durante un’intervista, la coordinatrice Maria Grazia Giorgianni e le operatrici Carmen Bertino, Federica Danì, Chiara Barbagiovanni ed Erika Pintabona hanno descritto con grande professionalità ed empatia il lavoro svolto.
Il primo contatto avviene solitamente per telefono o direttamente presso la sede. L’approccio iniziale è cruciale: capire quale sia la reale richiesta di aiuto e trasmettere fiducia sono i primi passi.
Il centro offre numerosi servizi: orientamento, protezione, connessione con istituzioni per l’alloggio d’emergenza, supporto psicologico e legale.
Raccontare la propria storia è il primo atto di liberazione: all’inizio le narrazioni sono confuse, a volte minimizzate. Un lavoro paziente e rispettoso aiuta la donna a ricostruire la memoria dei fatti, a riconoscere le violenze — fisiche, psicologiche, economiche o sessuali — e a dare un nome a ogni abuso.
Spesso, forme di violenza non fisica sono le più difficili da riconoscere: la normalizzazione di gesti aggressivi, la coercizione sessuale, il controllo economico. Emergere da questi meccanismi richiede tempo e un grande lavoro di consapevolezza.
Le donne che si rivolgono al centro sono di ogni età, condizione sociale e provenienza. Negli ultimi anni, l’associazione ha lavorato molto anche con donne provenienti da Africa, America Latina ed Europa dell’Est, scontrandosi con differenze culturali ma anche con forme di patriarcato diffuse ovunque, Italia compresa.
Ogni settimana l’équipe si riunisce per condividere aggiornamenti, programmare incontri, valutare i nuovi ingressi e gestire la delicatissima reperibilità telefonica, fondamentale per rispondere immediatamente a richieste di aiuto.
Rispondere a una telefonata può fare la differenza tra la vita e la morte: il tono di voce, i silenzi, ogni dettaglio viene ascoltato con estrema attenzione.
Non tutte le donne riescono a lasciare subito situazioni di violenza. Spesso tornano a casa, e proprio per questo il centro effettua attente valutazioni del rischio, preparando le donne a riconoscere segnali di pericolo e a proteggersi.
“Fingiti scema, fingiti morta” — consigliano talvolta, tragicamente consapevoli che in certi contesti l’unica possibilità di salvezza è abbassare il profilo, proteggersi con ogni mezzo.
Accanto alle attività di protezione, il centro promuove anche progetti di autonomia, come “Cucire in libertà“, un’iniziativa di imprenditoria sociale in cui le donne collaborano, si formano e iniziano a costruire la loro indipendenza economica, fondamentale per uscire dal ciclo della violenza.
Un’altra emergenza affrontata è la violenza economica: firme inconsapevoli, debiti occulti, manipolazione finanziaria. Da qui nasce l’esigenza di un’alfabetizzazione economica e digitale.
Il lavoro nelle scuole è un altro pilastro fondamentale: educare fin dall’infanzia a una cultura della parità e del rispetto reciproco, superando stereotipi di genere ancora troppo radicati.
La narrazione si arricchisce di esempi concreti, come quello di Nora, una ragazzina di 15 anni, vittima di dipendenza e sfruttamento, morta tragicamente nonostante l’incessante battaglia della madre contro l’indifferenza delle istituzioni. Una storia che denuncia la drammatica inefficacia del sistema di protezione e l’assenza di ascolto.
L’équipe di Pink Project denuncia anche le difficoltà di interlocuzione con forze dell’ordine e servizi sociali, spesso impreparati a gestire adeguatamente situazioni di rischio elevato.
Anche dopo la denuncia, per le vittime si apre il doloroso percorso del processo penale, dove si rischia una vittimizzazione secondaria e terziaria: un vero e proprio calvario che mette nuovamente in discussione la veridicità e la dignità delle donne sopravvissute.
Il centro Pink Project è diventato così un punto di riferimento: non solo un rifugio contro la violenza, ma anche un luogo di crescita, speranza, rinascita.
Non solo un luogo dove sopravvivere.
Un luogo dove ricominciare a vivere.
Italo Zeus
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