Scoperto da Saul Bellow alla fine degli anni Novanta, accostato dalla critica ad autori come Cormac McCarthy e Don de Lillo, accolto con tutti gli onori dalla stampa internazionale, Scibona siede già nell’Olimpo letterario Usa.
Dopo il trionfo dell’edizione americana, l’opera è stata pubblicata in Francia e in Inghilterra ed è nelle librerie italiane per conto della “66thand2nd”, una giovane casa editrice indipendente romana che prende il nome dall’incrocio newyorkese tra la Sessantesima strada e al Seconda avenue.
La storia comincia nel 1953, nel giorno della festa dell’Assunta, a Cleveland, Ohio, quando Rocco, il fornaio del quartiere, riceve una lettera che lo informa della morte del figlio in Corea e decide di mettersi in viaggio per ritrovare la moglie che lo aveva abbandonato molti anni prima, portando con sé due dei tre figli.
Ma la vicenda di Rocco diventa subito il racconto corale di un nugolo di personaggi che cercano disperatamente il proprio passato per dare un senso al viaggio che li ha catapultati dall’altra parte del mondo. Le vicende di tre generazioni di italiani emigrati s’intrecciano e diventano il simbolo di un’Italia contadina, di una Sicilia rimasta immutata, che va a sbattere con il Nuovo Mondo.
In quasi quattrocento pagine vengono rievocate le tappe di una saga che non ha nulla a che fare con la valigia di cartone e gli emigranti ammassati a Ellis Island, né tantomeno con gli indistruttibili stereotipi siciliani. «È davvero ridicolo — dice Scibona, che a maggio sarà ospite del Salone del libro di Torino e a settembre del Festival della letteratura di Mantova — che uno non possa parlare dei siciliani in America senza parlare di pizza e di mafia.
The Sopranos è uno splendido divertimento, i film di Scorsese e Coppola sono tremendi». È stato difficile raccontare la Little Italy americana? «In verità è stato molto facile per me scrivere a proposito di questo milieu. Sui milioni di italiani venuti in America potevo a stento pensare di scrivere un romanzo che ne parlasse come se fossero i primi e i più importanti esseri umani, non delinquenti o membri di un particolare gruppo etnico. Per me è stata una regola ferrea: i personaggi sono innanzitutto esseri umani con un’anima inimitabile.
Quando ho finito di scrivere, ho dovuto trovare un altro modo di spendere il mio tempo. Ne ho trascorso molto nel mio giardino, negli aeroporti, a leggere, chiedendomi che cosa fare adesso».
I suoi bisnonni emigrarono da Mirabella Imbaccari dopo la prima guerra mondiale. Suo nonno, che si chiamava Salvatore come lui, nacque nell’Ohio, ma fino a sei anni parlò solo in “mirabelese”. «Potete immaginare — continua Scibona — la mia ingenua meraviglia quando nel 1999 ho preso il traghetto da Reggio Calabria e ho scoperto che la Sicilia esisteva ancora.
Ero davvero sbalordito». Nell’isola Scibona è rimasto un bel pezzo durante il periodo di stesura del romanzo (il nome di Catania compare nelle primissime pagine del libro), ospite dei suoi cugini, che ancora vivono a Mirabella nella casa dove nacque il suo bisnonno («senza il loro aiuto sarei morto di fame o diventato pazzo per la solitudine»).
Ma “La fine” è la storia della sua famiglia? «No. Non mi interessa parlare di me stesso o della mia famiglia». E perché? «Perché è noioso. Meglio stare alla larga dall’autobiografia. Ciò che nel romanzo viene fuori dalla vita viene fuori solo per caso. Penso alla mia vita come a frammenti di cibo che raccolgo e getto in un mucchio di concime: prima di poterlo usare, si deve decomporre. Una volta che il terreno è pronto, allora posso piantarvi qualcosa e vederla crescere».
«Giovanni Verga perché si fida della ragione piuttosto che dell’agenda. Il rischio che si corre quando si scrive un romanzo del genere è quello di mitizzare personaggi di modeste condizioni. Ma Verga rende i suoi personaggi non migliori né peggiori di quelli che sono. Rimane fedele alle sue creature e al loro mondo.
Così il lettore si abbandona con totale fiducia allo scrittore. Una volta pranzavo con uno studente di una classe in cui insegnavo, e con sua madre, una formidabile donna d’affari del Taiwan.
E’ proprio quello che ha provato a fare Scibona: descrivere la Little Italy che ha visto con i suoi occhi.
E con quelli di sua nonna, che gli ha riempito la testa di storie e che ha vissuto ottant’anni negli States senza spiccicare una parola d’inglese.
scritto da Salvatore Falzone – fonte http://www.ilsacco.it
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