La commemorazione di Sergio Ramelli si svolge da ben 43 anni. La sua morte è un orrendo crimine che non può essere dimenticato. Il tempo non ne fa svanire il ricordo ma perpetua il sentimento di dolore, di ingiustizia ma anche di appartenenza di un’intera Comunità politica. Per questo quel ricordo non può essere blindato, accerchiato, intimidito.
Dunque anche il prossimo anno la Comunità tornerà a riunirsi il 29 aprile data del sacrificio di Sergio. Piaccia o non piaccia. L’unico consiglio è che con l’emergenza criminalità che ha investito Milano e poliziotti e carabinieri possano essere inviati più proficuamente nelle numerose zone calde della città. In questo caso potrebbe essere giustificabile l’esibizione di caschi e scudi.
Il fatto
Il 13 marzo 1975, a Milano, Sergio Ramelli veniva preso a sprangate sotto casa sua.
Dopo aver parcheggiato il motorino all’angolo tra via Amadeo, dove abitava al civico 40, e via Paladini, venne aggredito da un gruppo di 8 extraparlamentari di sinistra che lo stava aspettando con chiavi inglesi, le famigerate Hazet 36 che all’epoca andavano di moda come strumento di punizione per i “giovani fascisti”.
Soltanto due di loro, Marco Costa e Giuseppe Ferrari Bravo, colpirono Sergio, gli altri facevano da palo.
Gli aggressori erano studenti di medicina facenti parte del cosiddetto servizio d’ordine di Avanguardia operaia.
Non conoscevano Sergio, avevano solo desiderio di mettersi in mostra e ben figurare al cospetto degli altri servizi d’ordine della realtà antagonista milanese.
E’ stato un delitto su commissione. Sì, un delitto, perché Sergio, rimasto in coma, non ce la fece: il 29 aprile, 40 giorni dopo, morì in ospedale.
Aveva appena 18 anni.
Una storia che oggi sembra incredibile. Nella Milano di allora, ma non solo a Milano – anche, e soprattutto, a Roma – era invece usanza comune e quasi accettata. Era la Milano in cui “uccidere un fascista non è reato”, come cantavano gli antifascisti di quegli anni.
Semmai, è incredibile che l’omicidio sia stato soltanto uno, dato che le aggressioni erano all’ordine del giorno: Peter Walker, Carlo Viaggiano, Carlo Piancastelli, Sergio Frittoli, Giuseppe Costanzo, Benito Bollati, Rinaldo Guffanti, Rodolfo Mersi, Francesco Moratti, Cesare Biglia, Pietro Pizzorni, sono solo alcuni dei nomi di “fascisti” aggrediti con le spranghe tra il 1973 e il 1975, tutti finiti all’ospedale in prognosi riservata o addirittura in coma.
In quella Milano, il Consiglio comunale, sindaco compreso, accolse la notizia della morte di Sergio con un applauso.
Alcuni professori dell’Istituto Molinari, scuola frequentata ed abbandonata da Sergio a causa delle continue minacce ed aggressioni, hanno commentato: “Che importa, dunque, se costui era un fascista?”.
In quella Milano, si faticava a trovare un prete disposto a celebrare il funerale di un “giovane fascista”.
Oggi non è più così. Ma la storia di Sergio Ramelli è da ricordare e fa ancora paura. Fa paura che ancora oggi molti intellettuali giustifichino lo squadrismo di sinistra di quegli anni, o che si racconti la menzogna che Sergio Ramelli fosse un picchiatore fascista.
Non è vero: come dimostrano gli atti processuali non aveva mai partecipato a risse. E si era iscritto al Msi semplicemente perché disgustato dai soprusi degli autonomi all’interno del suo istituto: come quel giorno in cui Sergio stesso ha scritto un tema contro le Brigate Rosse ed è stato messo alla gogna e preso di mira da studenti e persino professori. Quel tema è stata la vera causa scatenante la persecuzione. Un paradosso.
Uno degli aggressori, Antonio Belpiede, ha fatto carriera ed è diventato recentemente primario a Canosa, in Puglia.
A Milano esiste una scuola intitolata a Claudio Varalli, una vittima di sinistra che più che vittima è stato aggressore, mentre il nome di Sergio risulta ancora scomodo per molti, troppi.
Ma ciò che fa più paura è che ancora oggi esistano autonomi di sinistra che si ispirano agli “idraulici” (venivano chiamati così proprio per le chiavi inglesi che utilizzavano nelle spedizioni punitive) della Milano degli anni ’70.
Da http://www.qelsi.it
GENERAZIONE 78 (Francesco Mancinelli)
E ti svegli una mattina e ti chiedi cosa è stato
rigettare i tuoi pensieri sulle cose del passato
prendi un fazzoletto nero che conservi in un cassetto
cominciare tutto un giorno, forse un giorno maledetto
frequentando certa gente di sicuro differente
e un battesimo di rito con il fiato stretto in gola
quando già finiva a pugni sui portoni della scuola
e inciampare in un destino che già ti cresceva dentro da bambino
ed un ciondolo d’argento che ti tieni intorno al collo
odio e amore per cercare di capire una logica ideale
una logica ideale in cui ciecamente credi
e tua madre piange sola e ti osserva dietro i vetri
perchè sa che non perdona questa guerra
perchè sa che non ha pace la sua terra.
Un partito vecchia storia, un’ eredità che scotta
nell’ambiguità di sempre come un senso di sconfitta
e ignorare circostanze giochi assurdi di potere
che ne sai di quel passato di nostalgiche illusioni
di un confronto che da sempre si è attuato coi bastoni
e sentirsi vivere dentro a vent’anni all’occasione
per cercare di dare un senso alla tua Rivoluzione
poi una sera di gennaio resta fissa nei pensieri
troppo sangue sparso sopra i marciapiedi
e la tua disperazione scagliò al vento le bandiere
gonfiò l’aria di vendetta senza lutto nè preghiere
su quei passi da gigante per un attimo esitare
scaricando poi la rabbia nelle auto lungo il viale
fra le lacrime ed i vortici di fumo
da quei giorni la promessa di restare tutti figli di nessuno.
Pochi giorni di prigione ti rischiarano la vista
dimmi, come ci si sente con un’ombra da estremista
cosa provi nelle farse di avvocati e tribunali
ed Alberto che è finito dentro l’occhio di un mirino
la Democrazia mandante un agente è l’assassino
e Francesco che è volato sull’asfalto di un cortile
con le chiavi strette in mano strano modo per morire
e bracci tesi ai funerali ed un coro contro il vento
oggi è morto un Camerata ne rinascono altri cento
e il silenzio di un’accusa che rimbalza su ogni muro
questa volta pagheranno te lo giuro
poi la sfida delle piazze ed i sassi nelle mani
caroselli di sirene echi sempre più lontani
quelle bare non ancora vendicate
le ferite quasi mai rimarginate.
Ma poi il vento soffiò forte ti donò quell’occasione
di combattere il Sistema in un’altra posizione
tra la fine del Marxismo e i riflussi del momento
costruire il movimento tra le angosce dei quartieri
ed un popolo una lotta chiodo fisso nei pensieri
e generazioni nuove in cui tu credevi tanto
poi quel botto alla stazione che cancella tutto quanto
e al segnale stabilito si dà il via alla grande caccia
i fucili che ora puntano alla faccia
le retate in grande stile dentro all’occhio del ciclone
tra le spire della “santa inquisizione”
poi le tappe di una crisi di una storia consumata
di chi trova la sua morte armi in pugno nella strada
di chi viene suicidato in una stanza di chi fugge
di chi chiude nei cassetti anche l’ultima speranza.
E ti svegli una mattina sulle labbra una canzone
e l’immagine si perde sulla tua generazione
quei ragazzi un pò ribelli un pò guerrieri
che hanno chiuso nei cassetti e dentro ai cuori tanti fazzoletti neri.