Fotonotizie

SFONDAMENTI – 17 febbraio 2017 sul “Massif de Gourogou”, penultima fermata del viaggio

Le considerazioni di Alessio Micale

 

Hanno sfondato, ci sono riusciti.
Oggi, 17 febbraio 2017.
Una logorante guerra di trincea quella dei tantissimi immigrati sub-sahariani che aspettano accampati sul “Massif de Gourogou”, penultima fermata del viaggio che da ogni arteria d’Africa conduce ai cuori Melilla e Ceuta, enclave spagnole in terra di Marocco.
Qualcuno nella fuga per la salvezza si perde, qualcun altro ci crepa.
Si fermano lì sulla montagna preparando l’assalto.
Costruiscono scale lunghe con i rami e i piccoli tronchi che riescono a trovare. Delle volte i militari marocchini appiccano il fuoco alla montagna per liberarla dalle piante e dagli insediamenti, cosi, per fare uno scherzo Caino.
Le scale gli servono per superare le barriere di filo spinato. Il filo squarcia la carne, a questo serve.
Tunnel di metallo pericoloso alti quasi tre piani di casa, cosi da fregare pure i Watussi (Tutsi), che erano alti 6 metri.

Almeno quelli rimasti in vita dopo il genocidio del 1994, un milione (1.000.000) di morti in una stagione, nell’indifferenza del mondo e nell’interesse dei trafficanti di armi.
E’ possibile per noi immaginare domani il genocidio di Palermo, di Campofelice o di Capo d’Orlando per comprendere la drammaticità di una storia?
Tornando alle “escaleras” immaginate questi giovani viaggiatori della fame e della sofferenza a tendere legacci per costruire scale più solide che si può, per l’assalto. Ne lanciano una sulla parete spinata e ci salgono al volo fino in cima.

Uno di sotto passa rapidamente la seconda scala e poi la terza da appoggiare sull’altra parete spinata. Poi ancora un’altra scala che se la superi sei arrivato in Spagna e pensi di aver vinto. Poi tutti dietro come fosse la fila per il pane con tessera ma più violenta. Ne passano pochi, poi arriva la polizia, qualche bum.

Qualcuno ci resta, non per il panorama.
Noi, al massimo, abbiamo scavalcato i muri dei campetti quando si spediva il pallone nella villa accanto. Eravamo giovani. In mezzo a tutti quelli che hanno sfondato oggi, di giovani come noi ce n’erano tanti ed erano a casa loro. Prima di partire erano a casa loro, prima di arrivare lì l’Africa era la loro terra, prima del colonialismo erano i proprietari, prima dello iper-sfruttamento delle risorse erano i ricchi.
Per voler rischiare i denti su un muro di spine di ferro che squarciano carne, prima di rompersi le ossa da sei metri o peggio ancora di mettersi sulla traiettoria di qualche colpo di fucile qualcosa sarà successo, sempre a casa loro.
La storia è certo complessa ma chi se ne frega.
Rientrato dalla Spagna, dopo un breve periodo di lavoro in una piccola O.n.g. che faceva piccole cose, delle ragioni di questo massacro me ne fregavo e andavo in giro per le scuole a fare vedere video di Ceuta e Melilla.
A gratisse.
No bisinis.
Dopo dieci anni, capisco solo oggi, 17 febbraio 2017 che cercavo di riprodurre lo stravolgimento che quella nuova consapevolezza di sofferenza mi aveva consegnato. Forse ho sentito la forza della morte nelle immagini, nelle storie, e ho cercato di consegnare l’orrore della tragedia, perché quei ragazzi traducessero in memoria, per non ripetere.

Ero mosso dalle migliori energie.
A scuola ci andavo nelle ore di religione, in quelle di storia non si poteva.

I video che proiettavo erano in spagnolo, chissà se qualcuno ci ha capito qualcosa.

Redazione Scomunicando.it

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