Per chi conosce il Woody Allen regista cinematografico, spesso regista di se stesso, una rappresentazione teatrale in cui nulla manca del suo genio, è un’occasione imperdibile.
Sul palco scenico come sul set, con la stessa profondità di spirito indagatore delle vicende umane, Woody Allen non risparmia allo spettatore la rappresentazione sottilmente ironica, ma non per questo meno tragica, delle crisi esistenziali dei componenti un nucleo familiare che, come tutti, nutrono sogni e sopportano una vita per lo più fatta di delusioni.
Il sipario si apre sull’interno di una modesta abitazione della periferia di New York, scenario privilegiato delle storie “alleniane”.
Non manca, dunque, uno dei leitmotiv principi dei suoi film. Lo stesso Woody Allen nell’incipit di “Manhattan” , del resto, fa dire al personaggio che interpreta che “New York era la città che adorava, e lo sarebbe sempre stata”.
La storia ruota, principalmente, intorno a Paul, ed al rapporto con la madre, una donna frustrata dal palese tradimento del marito che ogni sera, con regolarità, le viene preannunciato dallo squillo del telefono e che vive il presente in un continuo rinvio agli anni passati, quelli in cui desiderava sfondare nel mondo dello spettacolo facendo la ballerina.
Ma il tempo, impietoso con tutti, ha lasciato alla donna solo un marito estremamente immaturo, incapace di assumersi qualsiasi responsabilità, colmo di insicurezze che si concretizzano della pistola che porta sempre con sé, incapace di svolgere il proprio ruolo all’interno della famiglia, tanto come compagno, quanto come padre. In una realtà domestica così disagiata, dove speranze e valori si sbriciolano come l’intonaco che cade dal soffitto umido, crescono Paul e suo fratello. Mentre quest’ultimo vive l’insubordinazione ad ogni tipo di regola, tipica dei ragazzi cresciuti per strada e dediti alla commissione di piccoli reati, Paul spende il proprio tempo, nell’isolamento ovattato della sua camera, esercitandosi in giochi di prestigio per i quali ha un insolito talento.
Nonostante la balbuzie che impedisce al ragazzo qualsiasi esibizione innanzi ad un pubblico, anche laddove la platea sia composta dai suoi soli genitori, Paul viene spinto dalla madre a mostrare la sua bravura ad un improbabile impresario.
A questo punto si svela tutta l’amarezza delle vite di ciascun personaggio. Ancora all’inseguimento del successo, la madre di Paul, incurante delle difficoltà di quest’ultimo, trascina il mondo che lui, con passione e delicatezza, si era creato tra fazzoletti colorati e mazzi di carte, innanzi alla superficialità brutale del mondo dello spettacolo.
Nella totale negazione della propria personalità, Paul mostra i suoi trucchi fin quando il malessere che lo faceva apparire così diverso agli occhi altrui si traduce in un attacco di panico che impedisce al ragazzo di realizzare, prima che il suo, il sogno della madre.
Woody Allen descrive con poche battute l’immensa solitudine dell’animo umano: con una naturalezza disarmante ed in un’atmosfera piuttosto metafisica i personaggi si mostrano nudi nelle loro sofferenze di uomini, vittime di un ideale di società in cui tutte le speranze sono riposte nel raggiungimento della notorietà. Poco conta se, a causa di questa, si trascura la fragilità dell’animo umano. Il mondo di Paul, isolato e magico, è una fuga dalla realtà ormai disgregata della propria famiglia, nonché dalla realtà divoratrice delle sensibilità di ognuno.
Sebbene la storia sia ambientata del 1945, essa è facilmente adattabile ad una scenografia meno retrò e molto più attuale: la descrizione delle vicende umane e del loro svilupparsi quotidiano, nella loro evoluzione o involuzione non ha un tempo.
Il bambino che fa galleggiare la lampadina dalla luce azzura nel buio del palcoscenico, non ha nulla di differente dal bambino dei flashback di “Stardust memories” o del protagonista e voce narrante di “Radio Day”.
I tre personaggi, oltre che ad essere autobiografici, hanno una realtà in cui credono, in cui sperano e che li tiene a distanza dalla violenta concretezza della realtà umana.
Essere affetti da “iperattività immaginativa”, come il piccolo Alvy Singer che vive sotto il tremolio regolare delle montagne russe di Connie Island nel capolavoro alleniano “Io ed Annie”, è un dono che poco ha di diverso dall’esser maghi, ma che in una società disattenta e che spesso chiede troppo alla fragilità umana, si sostanzia in una solitudine ed in un senso d’impotenza insormotabili.
PROSSIMI APPUNTAMENTI PER LA STAGIONE DI PROSA dopo La lampadina galleggiante..
Teatro Vittorio Emanuele
29 Febbraio / 4 Marzo 2012
Dr. Jekyll e Mr. Hyde
un musical ideato da Giancarlo Sepe
con Alessandro Benvenuti, Rosalinda Celentano
e la partecipazione straordinaria di
Alice & Ellen Kessler
regia Giancarlo Sepe
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11/15 Aprile 2012
L’Ufficio
di Giacomo Ciarrapico e Mattia Torre
con Maurizio Marchetti
Antonio Alveario e Giampiero Cicciò
regia Ninni Bruschetta
Produzione Ente Autonomo Regionale Teatro di Messina
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26/29 Aprile 2012
Tutto su Mia Madre
testo teatrale di Samuel Adamson dal film di Pedro Almodovar
traduzione di Giovanni Lombardo Radice
con Elisabetta Pozzi
Alvia Reale ed Eva Robin’s
regia Leo Muscato
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2/6 Maggio 2012
Cercasi Tenore
di Ken Ludwig
con Gianfranco Jannuzzo
con la partecipazione di Milena Miconi
regia Giancarlo Zanetti
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6/10 Giugno 2012
Salvatore Giuliano
opera musicale di Dino Scuderi
testi di Pierpaolo Palladino, Franco Ingrillì e Dino Scuderi
con Giampiero Ingrassia e Barbara Cola
direzione musicale Dino Scuderi
regia Giampiero Cicciò
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