Scritto in occasione del ventennale dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, il testo ripercorre gli ultimi momenti di vita dei due magistrati che sanno di non avere più come alleato il tempo. È una corsa che parte dalla loro ultima notte in Sardegna, all’Asinara, dove nell’estate del 1985, furono spediti per ordine del giudice Caponnetto, dopo l’omicidio del capo della squadra mobile di Palermo Ninni Cassarà, proprio per completare l’istruttoria del Maxi Processo, il più grande mai celebrato al mondo contro la criminalità organizzata. Procede per fatti salienti, noti e meno noti, come per le stazioni di una via crucis. Per raccontare fuori dalla cronaca, lontano dalla commiserazione, la forza di quegli uomini, la loro umanità, il rigore dei pensieri, il loro senso profondo dello Stato e, soprattutto, la solitudine a cui furono condannati. E le vicende di Falcone e Borsellino, quasi senza volerlo, fanno allargare la riflessione ad oggi, quando, venti anni dopo quelle stragi, si riapre prepotentemente il filone di inchiesta della trattativa tra Stato e Mafia, che non sembra risparmiare neppure le più alte cariche dello Stato.
«Il testo – spiega Claudio Fava – nasce dal desiderio di raccontare la dimensione più autentica e quotidiana di Falcone e Borsellino, che nulla toglie o sottrae al senso della loro battaglia, ma li completa come esseri umani. Un’umanità fatta di vitalità, di solitudine, di senso profondo del dovere: un rapporto di amicizia che non può essere cristallizzato in un fermo immagine, ma che nasce da un’ idea di militanza civile e umana, di cui non sempre ci arriva tutto il senso e la forza. Ci sono amicizia, la ritualità di piccoli gesti, a cui l’apparato celebrativo che ha fatto di Falcone e Borsellino delle icone, li ha in qualche modo sottratti».
Sigarette, caffè, perfino la forza di trovare l’ironia. Poi il disappunto, l’amarezza per chi mette loro i bastoni tra le ruote. Il male ha tante volti, non solo quelli dei mafiosi: un consigliere che li ostacola, un magistrato preferito per anzianità ai meriti conquistati in campo dalle inchieste di Falcone, un mafioso che profetizza a Borsellino la sua morte. «Novantadue è una moderna tragedia classica. Suo malgrado – sottolinea il regista Cotugno – La modernità è nei fatti, nel titolo che scandisce la nostra ridottissima distanza (solo temporale, perché nei fatti c’è già un universo a separarci) dalla storia che mette in scena.
La sua classicità è nella dimensione epica, consapevolmente eroica, dei suoi protagonisti: sarebbero piaciuti a Sofocle, Falcone e Borsellino. Ma erano – e non dobbiamo dimenticarlo – uomini, che lo Stato ha lasciato soli, a consumarsi ed immolarsi in una tragedia assolutamente annunciata».
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