Casualmente mi è capitato tra le mani un libro di poesie di padre David Maria Turoldo, “Il sesto angelo”, comprato nel 1977, se ricordo bene era il mese di maggio ed avevo dato gli esami di Letteratura italiana moderna e contemporanea.
Ero tornato da Catania a Floresta facendo autostop, allora eravamo in tanti a viaggiare facendo autostop ed era facile trovare qualcuno che ti dava un passaggio.
Nelle pause tra un passaggio e l’altro leggevo qualche poesia.
Una mi aveva particolarmente colpito e da allora l’ho riletta diverse volte.
Rileggerla ora, in questo clima di festa che, come tutti gli anni tra Natale e capodanno, trasmette un vago senso di tristezza e di nostalgia e nel silenzio di una sera invernale in cui si sente solo il rumore del vento, è come riscoprirne altri significati.
Ma sempre rileggere le poesie è riscoprirne altri significati.
Nello stesso libro trovo questa frase che che avevo sottolineato:
” Bisogna sempre distinguere, come fa Moltmann, tra ‘avvenire’ e ‘futuro’, il il ‘futuro’ soltanto è fonte di speranza; mentre ‘l’avvenire’, questo avvenire è inevitabilmente un andare verso la definitiva morte. Invece quello è il futuro di Dio…
Dunque, di qua la disperazione è un dovere, un doloroso atto fraterno di verità.”
Credo che il Natale, l’idea di un Dio che si fa uomo per permettere agli uomini di iniziare la scalata al cielo, sia l’irrompere nella storia del ‘futuro’, un futuro da costruire, che non è la somma dei tanti passati già noti, ma la progressiva conquista di un futuro possibile.
La poesia di padre Turoldo
ESAME DI COSCIENZA
Cosa è quel gridare di cani nella notte,
quell’ululare da cascinale a cascinale
quando una mano di nuvola
oscura la luna?
Cosa quel contorcimento di querce e d’eucaliptus,
quello scricchiolio di bosco
quando neppure un dito di vento
muove una foglia nella foresta?
E tuttavia tu devi premere le mani alle orecchie
per non udire il micidiale silenzio.
E’ mezzanotte, mezzanotte, uomini!
E poi l’una, e poi sono le due
e bisogna resistere almeno fino all’ora terza,
che un barbaglio di lume filtri tra ramo e ramo
o tagli la fronte al cupo grattacielo
immobile cadavere di cemento.
Questo non è tempo dei vivi,
questo è il tempo del tempo
eternità del tempo
tempo di pietre in lacrime,
del sudore di sangue dalle rocce,
del gemere implacabile del mare.
Tempo di Getzemani del mondo,
tempo dei crocefissi che grondano sangue
chiazze di sangue intorno ad ogni croce
mentre tutte le chiese dormono.
Tempo dei morti in cammino per tutte le strade
per i sentieri dei campi, per i deserti
ognuno a cercare una casa, un familiare, un amico,
ognuno a cercare la bandiera
in cui aveva creduto.
E non c’è più una casa, non un vessillo.
Sul monumento è ancora issata la svastica.
No, i morti non sono morti
e i vivi non sono vivi.
Non ci sono che uccisi e assassini.
Non un metro solo di terra
che non porti l’impronta di una vittima,
la sagoma nera di un caduto sotto la clava
o schiacciato come un cane sull’asfalto;
oppure che non ci sia sotto la polvere
una chiazza di sangue:
la montagne sono pietrificate
la polvere è cenere.
E che non si alzi il vento
che non si alzi il vento, uomini,
perché avrete nella gola la cenere
dei vostri uccisi.
Invece
al mattino potete fare molti gargarismi,
è igienico: e poi lavatevi,
e poi non pensate:
è l’unica scelta per non impazzire.
E non uscite dalle vostre tane,
tenete sprangata la porta
ben tappate ante e finestre.
Tiratevi anzi il bianco lenzuolo sul capo
e prendete sonniferi dal farmacista e dal prete;
ormai la partita è perduta.
Oppure restate nei nights
e suonate le trombe degli ultimi jazz
e tenetevi buone tutte le ‘geishe’.
O grandi capitani
uomini d’industria, voi
fabbricanti di atomiche,
uomini bianchi come cadaveri
siamo tutti ugualmente nazisti!
Resistete almeno fino ai primi raggi dell’aurora:
poi tutta la città comincerà a muoversi
poi nessuno si illuderà di essere solo
e di avere paura;
poi nessuno si guarderà dentro.
E qualche bambino, ignaro vi sorriderà.
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