L’anno scorso, intorno all’anniversario di Acca Larentia, successe di tutto e di più – scrive Ugo Maria Tassinari sul suo “FascinAzione” – La spaccatura consumata in quei giorni furiosi a proposito del corteo “unitario” ha lasciato ferite profonde.
Un manifesto dalla grafica estremamente spartana fissa l’appuntamento per il triplo presente per le 18 di lunedì 7 gennaio, ad Acca Larentia”
Ma ricoradre quel pezzo di storia, in un’Italia divisia tra terrorismo rosso e nero, pressioni di Governi troppo deboli ed ancora legati alle leggi di Yalta, prse di coscienze che tardavano a venire, vuol dire, oggi, comprendere, capire, assolvere, condannare, ricordare che è morto per un “ideale”.
Erano dalla parte sbagliata, l’ha cantato De Gregori, l’hanno detto in tanti, ma era gente che ci credeva.
Barbara Zicchieri, sorella di un altro cuore nero come Mario, ricorda così quei ragazzi, parlandone con il cuore in mano.
Rimango per un attimo interdetta non mi sarei mai aspettata una simile richiesta, tanto che in quel momento mi sono chiesta se avevo capito bene.
Io Barbara, ricordare Franco, Francesco e Stefano? E’ stata una sensazione bellissima e soprattutto un grande onore.
Avevo preparato una piccola scaletta delle cose che avrei voluto dire in questa occasione ma tutto ho fatto tranne che guardare quel foglietto.
Arrivo davanti il leggio le gambe mi tremano, per non parlare delle mani; all’improvviso un grande applauso il respiro diventa affannato, per un attimo l’emozione prende il sopravvento ma riesco a gestire quelle tante sensazioni che mi assalgono.
Comincio a parlare e vedo che nessuno si siede, rimangono in piedi fino alla fine del mio intervento, tutto questo rispetto non me lo sarei mai aspettato. Questa è stata una delle emozioni più forti che io abbia mai provato fino ad ora.
Posso solo dire di aver parlato con il cuore, nulla era preparato, certe cose le senti perché ce le hai dentro e purtroppo perché le hai vissute in prima persona.
Spero tanto che tutti coloro che c’erano in quegli anni e tutti coloro che sono venuti dopo nelle file della destra politica, a prescindere da ogni divisione, da ogni scelta di sigla e di partito, siano fedeli al sacrificio dei ragazzi degli anni “70” non rinunciando mai alla battaglia per cambiare l’Italia, per farne veramente una Nazione carica di valori, di giustizia, di senso religioso e di dignità.
L’Italia che Franco, Francesco e Stefano, come Mario, hanno sognato fino alla fine.
Il7 Gennaio 2008, Acca Larentia 30 anni dopo Luca Telese da Roma scrive:
Il biglietto, solo pochi secondi prima di uscire dalla sezione lo scrisse Franco Bigonzetti, lasciandolo sul tavolo come si faceva prima che inventassero gli sms:
“Siamo a Prati. Ci vediamo domani. Franco”. Invece Franco, i camerati con si era dato appuntamento non li avrebbe rivisti mai più. E la sera stessa sarebbe finito immortalato in una di quelle terrificanti istantaee da paparazzo per cui oggi i garanti danno il carcere a vita. La foto all’epoca fu pubblicata, invece, su L’Espresso.
E a doppia pagina, con un titolo da far accapponare la pelle “La guerra civile italiana”.
Era apppriato.
Nella foto Franco Bigonzetti è riverso su un lettino d’ospedale, ha un occhio perforato da una pallottola e il viso allagato di sangue, la camicia stropicciata e alzata sulla pancia, con il capezzolo scoperto, e sopra un’altra macchia di sangue, e la cravatta ancora allacciata, perchè la morte quando ti sorprende è strana, non si cura mai dell’incoerenza.
Morirono in tre, e in condizioni folli e incredibili, e furono seguiti da altri tre morti, tutti legati a quella carneficina: dopo scontri con la polizia, guerriglia urbana e candelotti lacrimogeni, P38, barricate in strada, auto incendiate.
Una maledizione che inizia lì, il 7 gennaio 1978, Sezione di Acca Larentia.
O meglio: “strage di Acca Larentia”. Trenta anni fa, il giorno che tenne a battesimo la nascita del terrorismo nero.
Acca Larentia era una delle sezioni di periferia del Msi, nel pieno degli anni di piombo.
Uno degli avamposti sperduti, nel tempo in cui le capitali italiane divennero campi di battaglia, nel tempo in cui rossi e neri si sparavano per le vie e i numeri delle vittime e delle rappresaglie iniziavano a confondersi e a sovrapporsi. Morirono in tre, per i fatti di quella sera, ma in realtà avrebbero dovuto essere in sei.
Li aspettavano all’uscita dalla sezione appostati. Erano un commando, forse di Autonomia. Probabilmente ottenero ad Acca Larentia lì loro battesimo del fuoco, forse il prezzo per arruolarsi nelle Brigate Rosse. Chi ha sparato non è stato mai preso (o meglio: non ancora). La mitraglietta che ha sparato, invece sì.
La ritrovò la polizia molti anni dopo, in un covo ornato da una bandiera rossa con la stella a cinque punte che è entrato nella storia del delitto Moro: via Montenevoso, a Milano. Dopo quel delitto anche l’arma aveva fatto carriera. Nel volantino di rivendicazione si firmarono: “Nuclei armati per il contropotere territoriale”.
Il ragazzo è Stefano Recchioni, e alla loro sinistra c’è la pozza di sangue dove poco prima è stato ferito a morte Franco. Sopra c’è un mazzo di fiori. Cinque minuti dopo quello scatto, i due destini che sono stati uniti da quella sigaretta fumata insieme con inquietudine si dividono per sempre: Stefano cammina verso il fondo della piazza, dove, anche per via della rabbia e della tensione per i due morti, sta esplodendo una rissa per un ragazzo che è stato appena fermato. Fini resta dov’è.
Quando Sivori spara, Stefano viene colpito alla fronte, e la pallottola lo trapassa da parte a parte. Proveranno a dire, gli avvocati del carabiniere, che è un colpo di rimbalzo, che proveniva dalle stesse fila di Stefano. Ma non ci vuole un perito balistico per dimostrare che è una follia.
Quando Stefano cade a terra, in un lago di sangue c’è una ragazza che gli tiene ferma la testa. La ragazza viene da un’altra sezione di periferia, dove tre anni prima hanno ucciso un altro ragazzo, un altro commando di gente che finirà nelle Brigate rosse. Il ragazzo morto si chiamava Mario Zicchieri. Ed era amico anche di Franco Bigonzetti, che lo presentò a D’Audino.
La Roma politica di allora era una piccolo paese, una comunità consanguinea e ristretta. Un’altra amica di Mario Zicchieri si chiamava Daniela Di Sotto, e sarebbe diventata poi la moglie di Gianfranco Fini. La sera della strage, Damiera ospitava una sua amica di Milano, Amina, fidanzata con Maurizio Gasparri e sua futura moglie.
Gli dissero: “Hanno ucciso due dei nostri!”. “Dove?”. Gli risposero: “Acca Larentia”. E allora Stefano decise di andare, con la Cinquecento di uno dei Camerati. Dopo un’ora il suo volto era tra le mani della Mambro. Durante una trasmissione, molti anni più tardi, Giovanni Minoli chiese alla Mambro: “Che colore associa, lei, agli anni di piombo?”. E lei, senza esitare: “L’azzurro”. E Minoli: “Perchè”. E lei: “Perchè è il colore degli occhi di Stefano che si chidono davanti ai miei”.
Anche Valerio Fioravanti fece in tempo ad arrivare su quel piazzale, e raccontò che il suo amico Franco Anselmi, altro fondatore dei Nar (i Nuclei armati rivoluzionari, la più importante formazione della destra eversiva) intinse il suo passamontagna in una delle tre pozze di sangue. Fioravanti, con altrettanta onestà ammise: “Io nella lotta armata già c’ero. Quello che la Strage portò, fu un incredibile ondata di rabbia e una leva di giovani reclute”. La Mambro ha raccontato che mentre stringeva Stefano pensò: “Non mi troveranno mai più disarmata”.
Nell’aniversario della morte di un altro missino, i Nar uccisero un ragazzo rosso che secondo loro era uno dei responsabili della strage. Lo andarono a pescare in un’altra periferia romana, a don Bosco, lo ferirono alle gambe e lo finirono con un colpo un faccia. Si chiamava Roberto, Roberto Scialabba, e ovviamente non c’entrava nulla.
La sua unica colpa era di portare a spasso il cane, di avere un look da autonomo, e una copia del Manifesto in una tasca. Quelli dei Nar avevano avuto una soffiata: Sono stati quelli del centro sociale vicino alla piazza.
Il fatto è che il procuratore Franco Ionta, dopo trent’anni alla verità giudiziaria era molto vicino. Ma la maledizione di Acca Larentia continuava a mietere vittime, e quel morto, allora, fu una pietra tombale per l’indagine.
Ma oggi, dopo un terzo di secolo, c’è ancora qualcuno che indaga, che vuole andare fino in fondo. E’ che la Strage di Acca Larentia fu molte cose insieme. Il punto di non ritorno per l’antifascismo militante armato, che diventava Brigatismo. Fu l’atto di nascita ufficiale del Nar, dopo tre giorni di guerriglia per le strade. E fu anche la fine della collateralità fra la destra e le forze dell’ordine: “Celerini assassini!”. La Mambro era figlia di un poliziotto, e questa è un’ennesima prova che la storia è complessa.
Uno dei padri dei tre ragazzi morì suicida. Un altro di dolore. Il padre di Bigonzetti era iscritto alla Cgil, di sinistra. La madre di Recchioni di sinistra, il fratello di Stefano di Lotta Continua. Massimo e Stefano avevano litigato, e si erano rappacificati. Massimo disse all’Espresso: “Mi si è fermato il cuore, non sono più lo stesso”.
Sembrava un’Italia divisa da un odio “etnico”, era un’Italia complessa, allora come oggi. Ci abbiamo messo trent’anni per chiudere la guerra, e capire come estinguere le radici della rabbia.
Franz Bruni commentando i vari post sulla commemorazione di domani scrive” …quel giorno cambiò le vite di molti di noi, nulla fu più come prima e mai lo sarà, da allora figli di nessuno, quanta tristezza quanta rabbia e vi confesso anche un pò di invidia x questi ultimi nostri eroi…noi spireremo in un letto d’ospedale. E’ CARO AGLI DEI CHI MUORE GIOVANE”.
Già da allora, alla cosidetta Comunità Nazionale, del sangue di quei ragazzi non fregava niente … figuriamoci oggi che si sono tutti “accomodati” … Magari accomodati tra cumuli di mondezza e perdita totale di dignità pubblica e personale , ma pur sempre “accomodati” …
C’era una scritta su un muro laterale tra Via Acca Larenzia e Via delle Aave a gennaio del 1978; recitava così:” .. Non moriamo per il fascismo, ma perchè non abbiamo rinunciato ad avere dignità in un mondo che crolla sulle piccole cose di ogni giorno ” … Il senso di quel Sacrificio, dopo 30 anni, rimane ancora questo …
E a d Acca Larenzia domani si ricorderanno anche tutti quelli che sono caduti, ed erano di destra, in quegli anni:
ABATE ORESTE CILIVERGHE (BS) 01/10/1950 – ADOBATI PIETRO TRIESTE 05/11/1953 – ALFANO BEPPE BARCELLONA POZZO DI GOTTO (ME) 08/01/1993
…
Interessante questa nota di Maurizio Piccirilli
ACCA LARENTIA, STRAGE SENZA COLPEVOLI
Al Tuscolano scoppia la gueriglia. Auto date alle fiamme, lacrimogeni che saturano l’aria. Tossendo e correndo, seguo con altri colleghi il divenire della rivolta. Una rabbia contro tutti. Ancora non si conosce il bilancio delle sparatorie ma per tutti coloro che sono scesi in piazza c’è un solo fine: la vendetta. Vendicarsi dei «rossi» assassini. Dei poliziotti che non difendono la gente di destra. «Un nucleo armato, dopo un’accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larenzia, ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l’ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga». Poche parole incise su un nastro lasciato vicino a un distributore e fatto ritrovare in serata a un giornale di sinistra firmano la strage a nome dei «Nuclei Armati di contropotere territoriale». Una sigla che mieterà altre vittime. Una sigla che non avrà mai volti e nomi.
La rabbia esplosa ad Acca Larentia sembra esaurirsi. I «camerati» si trasferiscono al San Giovanni, dove Stefano Recchioni, iscritto alla sezione Colle Oppio, lotta tra la vita e la morte. La madre è con lui. La sua agonia durerà due giorni ma il proiettile esploso dal capitano dei carabinieri Edoardo Sivori lo aveva praticamente ucciso subito. Nello stesso nosocomio sono ricoverati altri giovani feriti in maniera meno grave dai terroristi. C’è anche Vincenzo Segneri, che si è salvato perchè Bigonzetti lo ha spinto dentro la sezione qunado i killer hanno aperto il fuoco. La notte però non chiuse quell’ennesimo capitolo della tragedia tutta italiana di una guerra civile mai dichiarata e mai terminata. Il giorno dopo, domenica mattina, via Acca Larentia è piena di gente.
Il percorso è segnato dal fuoco e dalla distruzione. Sono in tanti. Mentre scatto le foto dei gruppi che formano le barricate per impedire alla polizia di avanzare vengo circondato: vogliono i rullini. Riesco a evitare il peggio per il sopraggiungere di un contingente della Celere che spara lacrimogeni uno dietro l’altro. I miei assalitori fuggono. La guerriglia continua su via Tuscolana: autobus messi di traverso e dati alle fiamme. I fedeli all’uscita della messa dalla chiesa di S. Maria Ausiliatrice vengono avvolti nel fumo dei lacrimogeni. Due ore a ferro e fuoco, poi tutti di nuovo davanti alla sezione e ritorna il sereno. Andrà peggio la sera dopo. Sarà un lunedì di fuoco. Questa volta i giovani di destra «sparano» contro la polizia e contro giornalisti e fotografi. Anni più tardi Giusva Fioravanti dirà che quel giorno a premere il grilletto furono i Nar. Per vendetta.
Ma oggi quei tre ragazzi, Bigonzetti, Ciavatta e Recchioni, non hanno avuto neppure giustizia. Nessuna inchiesta infatti è riuscita a trovare i colpevoli. Quei colpi fecero anche un’altra vittima: il padre di Ciavatta che tempo dopo si tolse la vita per il dolore.
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