Categories: Comunicati Stampa

CUORI NERI – Domani a Roma si ricorda la strage di Acca Larentia

 

 

L’anno scorso, intorno all’anniversario di Acca Larentia, successe di tutto e di più – scrive Ugo Maria Tassinari sul suo “FascinAzione” –  La spaccatura consumata in quei giorni furiosi a proposito del corteo “unitario” ha lasciato ferite profonde.

Forti di quell’esperienza “i camerati” (il nome è generico ma spesso è stato usato da Maurizio Boccacci e la sua comunità nelle fasi di transizione tra un gruppo organizzato e un altro) hanno deciso di mantenere un basso profilo.

Un manifesto dalla grafica estremamente spartana fissa l’appuntamento per il triplo presente per le 18 di lunedì 7 gennaio, ad Acca Larentia”

Ma ricoradre quel pezzo di storia, in un’Italia divisia tra terrorismo rosso e nero, pressioni di Governi troppo deboli ed ancora legati alle leggi di Yalta, prse di coscienze che tardavano a venire, vuol dire, oggi, comprendere, capire, assolvere, condannare, ricordare che è morto per un “ideale”.

Erano dalla parte sbagliata, l’ha cantato De Gregori, l’hanno detto in tanti, ma era gente che ci credeva.

Barbara Zicchieri, sorella di un altro cuore nero come Mario, ricorda così quei ragazzi, parlandone con il cuore in mano.

E’ sabato 5 gennaio, ricevo una telefonata nelle prime ore del pomeriggio  – è il mio amico Gianni Alemanno – che mi dice: “sai Barbara abbiamo pensato che potresti essere tu, con un tuo intervento, a commemorare in chiesa  i ragazzi di Acca Larentia insieme a Mirko Tremaglia se te la senti?”.

Rimango per un attimo interdetta non mi sarei mai aspettata una simile richiesta, tanto che in quel momento mi sono chiesta se avevo capito bene.

Io Barbara, ricordare Franco, Francesco e Stefano? E’ stata una sensazione bellissima e soprattutto un grande onore.

Avevo preparato una piccola scaletta delle cose che avrei voluto dire in questa occasione ma tutto ho fatto tranne che guardare quel foglietto.

Arrivo davanti il leggio le gambe mi tremano, per non parlare delle mani; all’improvviso  un grande applauso il respiro diventa affannato, per un attimo l’emozione prende il sopravvento ma riesco a gestire quelle tante sensazioni che mi assalgono.

Comincio a parlare  e vedo che nessuno si siede, rimangono  in piedi fino alla fine del mio  intervento, tutto questo rispetto non me lo sarei mai aspettato. Questa è stata  una delle emozioni più forti che io abbia mai provato fino ad ora.

Posso solo dire di aver parlato con il cuore, nulla era preparato, certe cose  le senti perché ce le hai dentro e purtroppo perché le hai vissute in prima persona.

Ho semplicemente ricordato tre Angeli, e ieri abbiamo fatto loro il più bel regalo che potessimo offrirgli “tutti uniti per un’ora con gli stessi sentimenti e con le stesse emozioni”, anche se poi  mi rendo perfettamente conto la politica ci porta a scelte diverse.

Spero tanto  che tutti coloro che c’erano in quegli anni e tutti coloro che sono venuti dopo nelle file della destra politica, a prescindere da ogni divisione, da ogni scelta di sigla e di partito, siano fedeli al sacrificio dei ragazzi degli anni “70” non rinunciando mai alla battaglia per cambiare l’Italia, per farne veramente una Nazione carica di valori, di giustizia, di senso religioso e di dignità.

L’Italia che Franco, Francesco e Stefano, come Mario, hanno sognato fino alla fine.


Il7 Gennaio 2008, Acca Larentia 30 anni dopo Luca Telese da Roma scrive:

Il biglietto, solo pochi secondi prima di uscire dalla sezione lo scrisse Franco Bigonzetti, lasciandolo sul tavolo come si faceva prima che inventassero gli sms:

“Siamo a Prati. Ci vediamo domani. Franco”. Invece Franco, i camerati con si era dato appuntamento non li avrebbe rivisti mai più. E la sera stessa sarebbe finito immortalato in una di quelle terrificanti istantaee da paparazzo per cui oggi i garanti danno il carcere a vita. La foto all’epoca fu pubblicata, invece, su L’Espresso.

E a doppia pagina, con un titolo da far accapponare la pelle “La guerra civile italiana”.

Era apppriato.

Nella foto Franco Bigonzetti è riverso su un lettino d’ospedale, ha un occhio perforato da una pallottola e il viso allagato di sangue, la camicia stropicciata e alzata sulla pancia, con il capezzolo scoperto, e sopra un’altra macchia di sangue, e la cravatta ancora allacciata, perchè la morte quando ti sorprende è strana, non si cura mai dell’incoerenza.

Con Franco morirono altri due ragazzi, in una serata festiva romana. Francesco Ciavatta, che dall’ingresso della sezione fece in tempo a trascinarsi fino alle scalette. E poi, per la ferita di quella sera, morì pochi giorni dopo Stefano Recchioni.

Morirono in tre, e in condizioni folli e incredibili, e furono seguiti da altri tre morti, tutti legati a quella carneficina: dopo scontri con la polizia, guerriglia urbana e candelotti lacrimogeni, P38, barricate in strada, auto incendiate.

Una maledizione che inizia lì, il 7 gennaio 1978, Sezione di Acca Larentia.

O meglio: “strage di Acca Larentia”. Trenta anni fa, il giorno che tenne a battesimo la nascita del terrorismo nero.

Acca Larentia era una delle sezioni di periferia del Msi, nel pieno degli anni di piombo.

Uno degli avamposti sperduti, nel tempo in cui le capitali italiane divennero campi di battaglia, nel tempo in cui rossi e neri si sparavano per le vie e i numeri delle vittime e delle rappresaglie iniziavano a confondersi e a sovrapporsi. Morirono in tre, per i fatti di quella sera, ma in realtà avrebbero dovuto essere in sei.

Li aspettavano all’uscita dalla sezione appostati. Erano un commando, forse di Autonomia. Probabilmente ottenero ad Acca Larentia lì loro battesimo del fuoco, forse il prezzo per arruolarsi nelle Brigate Rosse. Chi ha sparato non è stato mai preso (o meglio: non ancora). La mitraglietta che ha sparato, invece sì.

La ritrovò la polizia molti anni dopo, in un covo ornato da una bandiera rossa con la stella a cinque punte che è entrato nella storia del delitto Moro: via Montenevoso, a Milano. Dopo quel delitto anche l’arma aveva fatto carriera. Nel volantino di rivendicazione si firmarono: “Nuclei armati per il contropotere territoriale”.

Tre morti, vuol dire strage. Ma quello che segnò un punto di non ritorno per una intera generazione, a destra, fu che due delle tre vittime – Franco e Francesco furono uccise dal commando dei terroristi rossi. La terza no. Stefano Recchioni morì per un proiettile sparato da un ufficiale dei carabinieri, Edoardo Sivori (condannato, al termine di un lungo processo, per “eccesso colposo di legittima difesa”). Era accaduto dopo che il tam tam aveva diffuso per tutta la Roma la notizia dela strage. Tutti i militanti della destra romana erano accorsi davanti alla sezione dell’Appio latino. La tensione si tagliava con il coltello, c’erano tutti i futuri dirigenti del partito, compreso un giovanissimo Gianfranco Fini, ancora riconoscibile, in una istantanea dell’epoca con un lungo impermeabile bianco. Fini si sta accendendo una sigaretta insieme ad un ragazzo più basso di lui.

Il ragazzo è Stefano Recchioni, e alla loro sinistra c’è la pozza di sangue dove poco prima è stato ferito a morte Franco. Sopra c’è un mazzo di fiori. Cinque minuti dopo quello scatto, i due destini che sono stati uniti da quella sigaretta fumata insieme con inquietudine si dividono per sempre: Stefano cammina verso il fondo della piazza, dove, anche per via della rabbia e della tensione per i due morti, sta esplodendo una rissa per un ragazzo che è stato appena fermato. Fini resta dov’è.

Quando Sivori spara, Stefano viene colpito alla fronte, e la pallottola lo trapassa da parte a parte. Proveranno a dire, gli avvocati del carabiniere, che è un colpo di rimbalzo, che proveniva dalle stesse fila di Stefano. Ma non ci vuole un perito balistico per dimostrare che è una follia.

Quando Stefano cade a terra, in un lago di sangue c’è una ragazza che gli tiene ferma la testa. La ragazza viene da un’altra sezione di periferia, dove tre anni prima hanno ucciso un altro ragazzo, un altro commando di gente che finirà nelle Brigate rosse. Il ragazzo morto si chiamava Mario Zicchieri. Ed era amico anche di Franco Bigonzetti, che lo presentò a D’Audino.

Le vittime e i superstiti, nella destra e nella sinistra militante di quegli anni, camminavano sullo stesso filo, e si potevano chiamare per nome. Pochi giorni prima di morire Franco va a fare una foto per i documenti, un ritratto che lo soddisfò molto. E dice al suo amico D’Audino, come la stessa leggerezza con cui un sedicenne di oggi potrebbe parlare di un videogioco: “Se mi ammazzano, pubblicheranno questa”. Ancora oggi, nel 2008, la foto di Franco che è incollata al muro di Acca Larentia è quella.

La Roma politica di allora era una piccolo paese, una comunità consanguinea e ristretta. Un’altra amica di Mario Zicchieri si chiamava Daniela Di Sotto, e sarebbe diventata poi la moglie di Gianfranco Fini. La sera della strage, Damiera ospitava una sua amica di Milano, Amina, fidanzata con Maurizio Gasparri e sua futura moglie.

E Gasparri si trovò a fare un volantinaggo in Prati, a cui partecipò anche Stefano Recchioni. Il 7 gennaio del 1978 i destini turbinavano e si incrociavano disordinati. Stefano era persino uscito dal Msi, perchè considerava troppo moderata la linea di Almirante. Ma poi, finito il volantinaggio in Prati passò davanti alla sezione di Colle Oppio, la sua, vide una folla di cui non capiva il motivo, scese.

Gli dissero: “Hanno ucciso due dei nostri!”. “Dove?”. Gli risposero: “Acca Larentia”. E allora Stefano decise di andare, con la Cinquecento di uno dei Camerati. Dopo un’ora il suo volto era tra le mani della Mambro. Durante una trasmissione, molti anni più tardi, Giovanni Minoli chiese alla Mambro: “Che colore associa, lei, agli anni di piombo?”. E lei, senza esitare: “L’azzurro”. E Minoli: “Perchè”. E lei: “Perchè è il colore degli occhi di Stefano che si chidono davanti ai miei”.

Anche Valerio Fioravanti fece in tempo ad arrivare su quel piazzale, e raccontò che il suo amico Franco Anselmi, altro fondatore dei Nar (i Nuclei armati rivoluzionari, la più importante formazione della destra eversiva) intinse il suo passamontagna in una delle tre pozze di sangue. Fioravanti, con altrettanta onestà ammise: “Io nella lotta armata già c’ero. Quello che la Strage portò, fu un incredibile ondata di rabbia e una leva di giovani reclute”. La Mambro ha raccontato che mentre stringeva Stefano pensò: “Non mi troveranno mai più disarmata”.

Nell’aniversario della morte di un altro missino, i Nar uccisero un ragazzo rosso che secondo loro era uno dei responsabili della strage. Lo andarono a pescare in un’altra periferia romana, a don Bosco, lo ferirono alle gambe e lo finirono con un colpo un faccia. Si chiamava Roberto, Roberto Scialabba, e ovviamente non c’entrava nulla.

La sua unica colpa era di portare a spasso il cane, di avere un look da autonomo, e una copia del Manifesto in una tasca. Quelli dei Nar avevano avuto una soffiata: Sono stati quelli del centro sociale vicino alla piazza.

Ma il centro sociale era chiuso, e loro avevano fretta di vendicarsi. Troppa fretta. Un altro cuore rosso morì durante dell’inchiesta. Si chiamava Mario Scrocca, era stato arrestato, perchè considerato vicino ai Nuclei. Entra a regina Coeli il 30 aprile del 1987 dicendo: “Non c’entro nulla, sono uno che ha un bimbo di due anni e un mutuo da pagare”. Ne uscì la sera del primo maggio, suicida.

Il fatto è che il procuratore Franco Ionta, dopo trent’anni alla verità giudiziaria era molto vicino. Ma la maledizione di Acca Larentia continuava a mietere vittime, e quel morto, allora, fu una pietra tombale per l’indagine.

Ma oggi, dopo un terzo di secolo, c’è ancora qualcuno che indaga, che vuole andare fino in fondo. E’ che la Strage di Acca Larentia fu molte cose insieme. Il punto di non ritorno per l’antifascismo militante armato, che diventava Brigatismo. Fu l’atto di nascita ufficiale del Nar, dopo tre giorni di guerriglia per le strade. E fu anche la fine della collateralità fra la destra e le forze dell’ordine: “Celerini assassini!”. La Mambro era figlia di un poliziotto, e questa è un’ennesima prova che la storia è complessa.

Uno dei padri dei tre ragazzi morì suicida. Un altro di dolore. Il padre di Bigonzetti era iscritto alla Cgil, di sinistra. La madre di Recchioni di sinistra, il fratello di Stefano di Lotta Continua. Massimo e Stefano avevano litigato, e si erano rappacificati. Massimo disse all’Espresso: “Mi si è fermato il cuore, non sono più lo stesso”.

Sembrava un’Italia divisa da un odio “etnico”, era un’Italia complessa, allora come oggi. Ci abbiamo messo trent’anni per chiudere la guerra, e capire come estinguere le radici della rabbia.

Franz Bruni  commentando i vari post sulla commemorazione di domani scrive” …quel giorno cambiò le vite di molti di noi, nulla fu più come prima e mai lo sarà, da allora figli di nessuno, quanta tristezza quanta rabbia e vi confesso anche un pò di invidia x questi ultimi nostri eroi…noi spireremo in un letto d’ospedale. E’ CARO AGLI DEI CHI MUORE GIOVANE”.

E Francesco Mancinelli “Avevo 15 anni quella mattina dell’8 di gennaio e volantinavo per via del corso a Viterbo cercando di comunicare ” con la pubblica opinione ” sui maledetti fatti della sera prima a Roma. Ricordo gli sguardi dei passanti;davamo solo fastidio…eravamo degli illusi, degli idioti, dei potenziali assassini, dei disadattati, dei frustrati …. Era Domenica, perchè dovevamo avvelenargli la festa ?

Già da allora, alla cosidetta Comunità Nazionale, del sangue di quei ragazzi non fregava niente … figuriamoci oggi che si sono tutti “accomodati” … Magari accomodati tra cumuli di mondezza e perdita totale di dignità pubblica e personale , ma pur sempre “accomodati” …

C’era una scritta su un muro laterale tra Via Acca Larenzia e Via delle Aave a gennaio del 1978; recitava così:” .. Non moriamo per il fascismo, ma perchè non abbiamo rinunciato ad avere dignità in un mondo che crolla sulle piccole cose di ogni giorno ” … Il senso di quel Sacrificio, dopo 30 anni, rimane ancora questo …

E a d Acca Larenzia domani si ricorderanno anche tutti quelli che sono caduti, ed erano di destra, in quegli anni:

ABATE ORESTE CILIVERGHE (BS) 01/10/1950 – ADOBATI PIETRO TRIESTE 05/11/1953 – ALFANO BEPPE BARCELLONA POZZO DI GOTTO (ME) 08/01/1993

ALIBRANDI ALESSANDRO ROMA 05/12/1981 – ALIOTTI ANTONINO ROMA 20/02/1967 – ALVAREZ ALESSANDRO MILANO 03/03/2000 – ANSELMI FRANCESCO ROMA 06/05/1978 – ANTONELLI GIULIO NAPOLI 03/04/1991 – ASSIRELLI ORLANDO SESTO S.GIOVANNI (MI) 27/01/1946 – BASSA ERMINIO TRIESTE 06/11/1953 – BIGONZETTI FRANCO ROMA 07/01/1978 – BILLI ACHILLE ROMA 05/04/1949 – BOCCACCIO IVAN RONCHI DEI LEGIONARI (GO) 06/10/1972 – CALIGIANI ORIO MILANO 26/01/1946 – CALZOLARI ARMANDO ROMA 25/12/1969 – CAMPANELLA ANGELO REGGIO CALABRIA 17/09/1970 – CECCHETTI STEFANO ROMA 11/01/1979 – CECCHIN FRANCESCO ROMA 16/06/1979 – CIAVATTA FRANCESCO ROMA 07/01/1978 – CRESCENZI RODOLFO – CRESCENZO ROBERTO TORINO 01/11/1977 – CROVACE “MAMMAROSA” RODOLFO MILANO 03/07/1984 – DE AGAZIO FRANCO MILANO 14/11/1947 – DE ANGELIS NANNI ROMA 05/10/1980 – DE NORA PAOLO SAN GIOVANNI IN MONTE (BO) – DI NELLA PAOLO ROMA 02/02/1983 – DISCALA ELIO ROMA 23/06/1994 – DOMINICI BENVENUTO REGGIO CALABRIA – ESPOSTI GIANCARLO PIAN DEL RASCINO (RI) 30/05/1974 – FALDUTO ANDREA – FALVELLA CARLO SALERNO 07/07/1972 – FERRARI SILVIO BRESCIA 18/05/1974 – FERRERO ENRICO TORINO 24/05/1985 – FERRORELLI GIOVANNI – GATTI FERRUCCIO MILANO 04/11/1947 – GHISALBERTI FELICE MILANO 27/01/1949 – GIAQUINTO ALBERTO ROMA 10/01/1979 – GIRALUCCI GRAZIANO PADOVA 17/06/1974 – GIUDICI BRUNO – GRILZ ALMERIGO MOZZAMBICO 19/05/1897 – JACONIS CARMINE REGGIO CALABRIA 17/09/1971 – LABBATE BRUNO REGGIO CALABRIA 15/07/1970 – LOCATELLI “MICHELIN” FRANCO – LUPARA SERGIO MILANO 26/01/1946 – MACCIACCHINI EVA MILANO 17/01/1947 – MACCIO’ DIEGO TORINO 24/05/1985 – MAGENES GIORGIO MEDIGLIA (MI) 09/11/1947 – MAINO ANTONIO – MANCIA ANGELO ROMA 12/04/1980 – MANFREDI RICCARDO LODI (MI) 03/06/1976 – MANGIAMELI FRANCESCO TORRE DE’ CENCI (PA) 09/09/1980 – MANTAKAS MIKIS ROMA 28/02/1975 – MANZI LEONARDO TRIESTRE 06/11/1953 – MASSAIA LEONARDO MILANO 1949 – MATTEI STEFANO ROMA 16/04/1973 – MATTEI VIRGILIO ROMA 16/04/1973 – MAZZOLA GIUSEPPE PADOVA 17/06/1974 – MEGGIORIN CLAUDIO BESANO (VA) 13/06/2005 – MENEGHINI ENRICO MONZA 06/02/1946 – MINETTI RICCARDO ROMA 20/04/1978 – MONTANO SAVERIO TRIESTE 06/11/1953 – MORTARI I GINO CINISELLO BALSAMO (MI) 28/11/1947 – NARDI GIANNI PALMA DI MAIORCA 16/09/1976 – NIGRO FRANCESCO MELISSA 29/10/1949 – PAGLIA FRANCESCO TRIESTE 06/11/1953 – PAGLIAI PIERLUIGI BOLIVIA 10/10/1982 – PALLADINO CARMELO NOVARA 12/08/1982 – PEDENOVI ENRICO MILANO 26/04/1976 – PETRUCCELLI MICHELE MILANO 14/11/1947 – PISTOLESI ANGELO ROMA 28/12/1977 – PONTECORVO ADRIANA TORINO 01/04/1987 – PRINCIPI PIETRO – RAMELLI SERGIO MILANO 25/03/1975 – RECCHIONI STEFAN0 ROMA 07/01/1978 – SANTOSTEFANO GIUSEPPE REGGIO CALABRIA 31/07/1973 – SCARCELLA PINO – SCARPETTI ALDO – SPEDICATO WALTER PARIGI 02/05/1992 – TANZI BRUNILDE MILANO 17/01/1947 – TRAVERSA MARTINO BARI 13/03/1980 – VALE GIORGIO ROMA 05/05/1982 – VENTURINI UGO GENOVA 18/04/1970 – VIVIRITO SALVATORE MILANO 19/05/1977 – ZAVADIL ANTONIO TRIESTE 06/11/1953 – ZAZZI EURO MILANO 03/08/1946 – ZICCHIERI MARIO ROMA 29/10/1975 – ZILLI EMANUELE PAVIA 05/11/1973 – ZUCCHIERI MARZIO

E TUTTI GLI ALTRI CHE CONTINUANO A VIVERE IN QUEI CUORI CHE RENDONO LE LORO VITE SPEZZATE PER SEMPRE IMMORTALI.

Interessante questa nota di Maurizio Piccirilli

ACCA LARENTIA, STRAGE SENZA COLPEVOLI

Un pomeriggio come tanti. La stanca monotonia di un sabato dopo le feste di fine anno, viene improvvisamente interrotta dal gracchiare impazzito di «Doppia Vela 21», la radio della polizia.

«Colpi di arma da fuoco in via Cave, angolo Acca Larentia» quasi urla l’operatore della questura lanciando il messaggio alle volanti. Erano le 18,23 del 7 genaio 1978 come ricorderanno con cinica precisione i «Nuclei armati per il contropotere territoriale» nella loro rivendicazione. Una pioggia di colpi di mitraglietta e pistola contro un gruppetto di ragazzi colpevoli di frequentare una sezione missina. «Fascisti», come li consideravano molti in quegli anni di piombo e sprangate. Ucciderli non era reato, come recitavano le scritte sui muri e gli slogan nei cortei. Presi la borsa con le macchine fotografiche e via verso l’ospedale San Giovanni, quello più vicino al luogo dell’attentato. Al pronto soccorso c’era il caos. Le ambulanze arrivavano una dietro Le macchie di sangue arrossano il pavimento e le scale. Dentro la sezione, tavoli rivoltati e anche qui sangue ovunque. La polizia non riesce a circoscrivere la zona. Arriva Giorgio Almirante. Arriva Gianfranco Fini, giovane segretario del Fronte della Gioventù. La situazione è tesa. La gente piange ma è piena di rabbia. Basta una scintilla. E il caos scoppia quando un cineoperatore o un giornalista Rai lasciano cadere, con gesto innocente e naturale, la cicca della sigaretta sul sangue di uno dei ragazzi uccisi. Spinte, urla

Botte. E poi al grido di «Boia chi molla» i missini ma accanto a loro anche semplici simpatizzanti, iniziano a dar vita a un corteo. Ma faranno pochi metri, in via Evandro si fronteggiano con un gruppetto di carabinieri. l’altra. Il sangue era ovunque. Ecco Francesco Ciavatta, 19 anni, viene letteralmente scaricato sulla barella, preso per i piedi, le braccia. I vestiti sono impregnati del suo sangue. È già morto ma i sanitari tentano il tutto per tutto. Ancora. Altro ululare di sirena ed ecco una seconda ambulanza. Dentro un altro ragazzino, ma questa volta c’è poco da fare: il proiettile alla testa lo ha ucciso. Lo hanno trasportato in ospedale per un gesto di pietà. La sala d’attesa si riempie di giovani e di poliziotti. Giornalisti e fotografi cercano i volti dei parenti. Arriva il padre di Bigonzetti. Poi la mamma di Ciavatta, sorretta da due militanti. Ma già giunge la notizia che in via Acca Larentia, luogo dell’attentato, si sta radudando una folla di militanti del Msi. Vengono dalle sezioni e dai quartieri più lontani. Da Prati, Colle Oppio, Monteverde. E io, con la Nikon al collo, a correre a perdifiato lungo l’Appia, fino a quella strada dal nome altisonante, fatta a saliscendi con quelle scale che la legano a via Cave e, dall’altro lato, dove si affaccia la sezione del Movimento sociale, si allarga su via Evandro verso via Tuscolana. Luogo ideale per un agguato. E così è stato. La confusione è totale. Non si sa come e cosa fotografare. I lampi del flash provocano la rabbiosa reazione della folla. Un botto. Poi un altro. Un solo istante di silenzio, poi urla strazianti lacerano l’aria. Un altro ragazzo è a terra sanguinante. È Stefano Recchioni, anche lui ha 19 anni e fa parte del gruppo che avanzava verso i carabinieri.

A questo punto la strada esplode. Neanche Almirante riesce a tenere i suoi camerati impazziti. Intanto il giovane ferito viene trasportato al San Giovanni divenuto ormai l’ospedale dietro la «linea del fuoco».

Al Tuscolano scoppia la gueriglia. Auto date alle fiamme, lacrimogeni che saturano l’aria. Tossendo e correndo, seguo con altri colleghi il divenire della rivolta. Una rabbia contro tutti. Ancora non si conosce il bilancio delle sparatorie ma per tutti coloro che sono scesi in piazza c’è un solo fine: la vendetta. Vendicarsi dei «rossi» assassini. Dei poliziotti che non difendono la gente di destra. «Un nucleo armato, dopo un’accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larenzia, ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l’ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga». Poche parole incise su un nastro lasciato vicino a un distributore e fatto ritrovare in serata a un giornale di sinistra firmano la strage a nome dei «Nuclei Armati di contropotere territoriale». Una sigla che mieterà altre vittime. Una sigla che non avrà mai volti e nomi.

La rabbia esplosa ad Acca Larentia sembra esaurirsi. I «camerati» si trasferiscono al San Giovanni, dove Stefano Recchioni, iscritto alla sezione Colle Oppio, lotta tra la vita e la morte. La madre è con lui. La sua agonia durerà due giorni ma il proiettile esploso dal capitano dei carabinieri Edoardo Sivori lo aveva praticamente ucciso subito. Nello stesso nosocomio sono ricoverati altri giovani feriti in maniera meno grave dai terroristi. C’è anche Vincenzo Segneri, che si è salvato perchè Bigonzetti lo ha spinto dentro la sezione qunado i killer hanno aperto il fuoco. La notte però non chiuse quell’ennesimo capitolo della tragedia tutta italiana di una guerra civile mai dichiarata e mai terminata. Il giorno dopo, domenica mattina, via Acca Larentia è piena di gente.

Fiori, cartelli e lumini riempono i muri della sezione del Msi. È ancora presto, appena le nove del mattino quando come se fosse stato tutto preparato durante quella lunga notte, i giovani militanti si incamminanno a gruppetti lungo via Cave. Gli slogan non lasciano dubbi: sarà un altro giorno lunghissimo, come lo è stata la sera prima. Le prime auto vengono capovolte e date alle fiamme all’incrocio con via Appia. Davanti a me i colleghi de «Il Tempo» Gianni Sarrocco e Antonio Monteforte vengono affrontati da alcuni manifestanti. Il corteo si dirige verso l’Alberone: l’obiettivo è la sezione del Pci.

Il percorso è segnato dal fuoco e dalla distruzione. Sono in tanti. Mentre scatto le foto dei gruppi che formano le barricate per impedire alla polizia di avanzare vengo circondato: vogliono i rullini. Riesco a evitare il peggio per il sopraggiungere di un contingente della Celere che spara lacrimogeni uno dietro l’altro. I miei assalitori fuggono. La guerriglia continua su via Tuscolana: autobus messi di traverso e dati alle fiamme. I fedeli all’uscita della messa dalla chiesa di S. Maria Ausiliatrice vengono avvolti nel fumo dei lacrimogeni. Due ore a ferro e fuoco, poi tutti di nuovo davanti alla sezione e ritorna il sereno. Andrà peggio la sera dopo. Sarà un lunedì di fuoco. Questa volta i giovani di destra «sparano» contro la polizia e contro giornalisti e fotografi. Anni più tardi Giusva Fioravanti dirà che quel giorno a premere il grilletto furono i Nar. Per vendetta.

Ma oggi quei tre ragazzi, Bigonzetti, Ciavatta e Recchioni, non hanno avuto neppure giustizia. Nessuna inchiesta infatti è riuscita a trovare i colpevoli. Quei colpi fecero anche un’altra vittima: il padre di Ciavatta che tempo dopo si tolse la vita per il dolore.

Nel 1988 si scoprì che la mitraglietta Skorpion usata nella strage di Acca Larentia era la stessa servita per altri tre omicidi firmati dalle Brigate Rosse: quelli dell’economista Ezio Tarantelli, dell’ex sindaco di Firenze Lando Conti e del senatore Roberto Ruffilli. Nessun brigatista è finito in carcere per quella strage. Ma in tanti, troppi, vengono chiamati a parlare nelle università.

admin

Recent Posts

OLIVERI – Nino Vitale nominato Commissario della Dc

Nino Vitale nominato Commissario della Sezione della Democrazia Cristiana. La nota del Segretario provinciale del…

3 ore ago

GIORGIO ARMANI – Il ricordo, nella grafica di Antonio Morello

 il genio silenzioso che ha ridefinito l’eleganza (altro…)

3 ore ago

PATTI – Il Movimento “Patto per Patti” affonda il colpo: “Quattro anni persi, città senza guida né visione”

Patti non cresce, non si rilancia, non sogna più. A dirlo senza mezzi termini è…

4 ore ago

LUCI E OMBRE SUL PNRR – A Capo d’Orlando il bilancio a un anno dal termine

Dal convegno promosso da Quater Srl la certezza: nessuna proroga, i progetti vanno chiusi entro…

4 ore ago

IL FURTO AD ANTENNA DEL MEDITERRANEO – Arresti domiciliari per un 24enne

E’ stato ristretto agli arresti domiciliari l’autore del furto perpetrato ai danni della nostra emittente…

10 ore ago

TRA CLOUD E MOBILE BANKING – L’importanza di scegliere siti sicuri

TRA CLOUD E MOBILE BANKING - L’importanza di scegliere siti sicuri

10 ore ago