Dalle sale alle librerie….
I Frati di Mazzarino in un romanzo dark
Quando sono accaduti i terribili fatti a Mazzarino, Samanta Giambarresi era ancora lontana dal nascere. La vicenda dei frati estorsori che apparentemente sembrava disciolta nella deriva del tempo ogni tanto affiorava, in un flebile accenno, tra un silenzio e l’ altro del paese, uno dei più “mutigni” dell’ Isola.
Segni appena appena percepibili, bastevoli però ad alimentare schegge di memoria. Sicché Samanta, che oggi ha trent’ anni, ogni tanto restava impigliata in quella storiaccia, vieppiù quando ha cominciato a coltivare velleità di scrittrice.
E allorché la casa editrice “Prova d’ autore” le ha proposto di farne un romanzo, si è messa subito all’ opera. All’ inizio le era sembrata una passeggiata, la trama era lì bella e pronta, i personaggi anche, con tanto di identikit psicofisico, l’ ambientazione la conosceva a occhi chiusi e del processo aveva le carte, ma quando ha issato le sue reti investigative lo choc: niente era rimasto impigliato. In paese bocche cucite, nella biblioteca locale ancora peggio, nel cinquecentesco monastero nessun segno, come se nulla di anomalo vi fosse mai accaduto.
«Ho rintracciato – dice l’ autrice – solo un anziano signore testimone del tempo che mi ha trasmesso le angosce di quegli anni.
Ma non mi bastava. Quando ho capito che molti non ricordavano e altri non volevano ricordare, ho trasferito le mie ricerche nelle biblioteche di Catania». Con pazienza la scrittrice si è messa a sfogliare le collezioni dei giornali. Due anni di lavoro («resi faticosissimi dalla mia allergia alla polvere») e finalmente il quadro completo dopo aver letto migliaia di pagine, dalle prime lettere minatorie, alla sentenza del processo che si concluse con pesanti condanne di laici e religiosi. Tutta la ricerca è stata canalizzata in un romanzo – “Intimo nero con merletti e frati” (174 pagine, 13 euro, edizioni Prova d’ autore) – che mischia la crudezza della cronaca con scenari di fantasia.
E infine ci sono i personaggi inventati, intimo nero e merletti: la torbida incestuosa Lucia, ragazza spregiudicata venuta da fuori e con la testa fuori; il fratello Guido che stordisce la sua depressione cronica e i suoi rimorsi carnali con il violino; lo scemo del villaggio Vincenzo – per la verità ispirato a un giovane coinvolto nel primo attentato, poi risultato innocente – che al riparo della sua follia svela il nascondino delle ipocrisie paesane; chiudono la lista l’ idealista Clara e il suo ragazzo, Carlo, fedifrago, debole e ambiguo.
La vicenda comincia nell’ aprile 1957 quando uno dopo l’ altro vengono consegnati messaggi estorsivi – “pizzini” scritti a macchina, richiesta da 600 mila lire a cinque milioni, un’ enormità per i tempi – a notabili e possidenti, perfino a Costantino, un venerabile padre, preso di mira proprio il giorno del suo compleanno. I frati si offrono di fare gli intermediari, ma in questo ruolo, come poi sarà dimostrato nel corso del processo, ci mettono, zelo, passione e cuore. Nel senso che più che mediare cercano pesantemente di convincere le vittime a pagare. E ci riescono.
Da qui un crescendo “noir”: al farmacista Ernesto Colajanni gli bruciano il massiccio portone di quercia; ad Angelo Cannata, ricco proprietario terriero va anche peggio.
Mentre torna dalle sue proprietà al primo buio, viene affrontato da quattro uomini armati che in presenza della moglie, del figlioletto e dell’ autista, gli sparano alle gambe.
L’ agrario morirà per un’ emorragia. Alla fine della corsa i criminali col saio e senza, vengono arrestati.
Al processo, che si apre a Caltanissetta nel 1962, è una girandola di colpi di scena, registrati dalla stampa internazionale che cala in massa. Innocentisti e colpevolisti menano fendenti. Il cardinale Ernesto Ruffini strilla al complotto contro i religiosi.
Le vestali del diritto, tra cui un insospettabile Giovanni Leone destinato a diventare presidente della Repubblica, insorgono. Alla fine la corte condanna i laici e assolve i frati che «avrebbero agito in stato di necessità», in quanto minacciati dalla mafia.
Ma qualche anno dopo al processo di appello di Perugia, sentenza poi passata al vaglio della Cassazione, due frati (Agrippino e Venanzio) vengono condannati a 13 anni di carcere.
Un terzo, Carmelo muore prima della sentenza e solo fra’ Vittorio risulta assolto. «Questa è la verità processuale – dice la Giambarresi – lavorando sulle carte mi sono convinta che i monaci sapevano molto di più di quello che hanno raccontato ai giudici.
Ma la verità è rimasta seppellita con i loro corpi».
Il romanzo, ben condotto nella complessa tramatura, difetta nella lingua, spesso convenzionale. Ma l’ autrice è giovane e sicuramente saprà migliorarsi. La stoffa c’ è, va solo tagliata e cucita.
Un’ ultima annotazione, nelle pagine echeggia il sapore di quei mitici anni Sessanta. La valanga di Oscar al kolossal “Ben Hur”, i divi del tempo, l’ ondata emotiva per la misteriosa morte di Marilyn Monroe, gli echi di un paese che comincia ad addentare il boom. «La lettura dei giornali mi è servita anche per lo sfondo.
Mi è sembrato di attraversare un paese fantastico, seppure in bianco e nero.
Un po’ Fellini e un po’ Rossellini. Un’ altra emozione in più»
fonte http://ricerca.repubblica.it
I FATTI VISTI DA SALVATORE FALZONE:
Quattro cappuccini a capo della gang che terrorizzava Mazzarino
Corte d’ Assise di Messina, 12 marzo 1962. Tra gli spintoni dei paparazzi sfilano davanti ai giudici quattro frati cappuccini: Vittorio, Venanzio, Agrippino e Carmelo. Al secolo, rispettivamente, Ugo Bonvissuto, 41 anni, Liborio Marotta, 46, Antonio Jaluna, 39, Luigi Galizia, 83. Sono «i monaci di Mazzarino», barbe incolte e aria stralunata. Si sono già fatti due anni di carcere e portano il peso di accuse gravissime: associazione per delinquere, concorso in omicidio ed estorsione continuata. Mazzarino, 5 novembre 1956. Il convento, a strapiombo su una vallata d’ ulivi, separato da una fila di cipressi dall’ antico cimitero, è silenzioso come ogni sera. C’ è vento. E nebbia. I monaci se ne stanno chiusi nelle loro celle. Improvvisamente un urlo rimbomba nel corridoio. E dopo un istante due colpi: vengono dalla stanza di Agrippino che, atterrito, fissa come un ebete i pallettoni conficcati nel muro. I carabinieri aprono le indagini, i frati vengono interrogati e sette mesi dopo il caso è già archiviato. Ma non per sempre: tre anni più tardi verrà riaperto, dopo che sul paese si è abbattuta una raffica di incendi intimidatori, estorsioni, ricatti e omicidi. Allora tutto sembrerà chiaro. Chi accusa i frati è convinto che sotto il saio si nascondano dei briganti che hanno messo in scena un finto attentato (dalle colonne de «L’ Ora» Mauro de Mauro li chiama «monaci-banditi, i don Abbondio della estorsione»). Chi li difende, invece, dirà che le canne mozze d’ una doppietta sono entrate per davvero nella cella di Agrippino, per costringere lui e gli altri tre confratelli a coprire misfatti compiuti da altri. Certo è che per trenta mesi Mazzarino vive nel terrore: da quella sera maledetta d’ autunno parte un’ angosciante catena di delitti. Un rosario di estorsioni sgranato a forza di minacce di morte. Alcune somme vengono spillate a due Padri Provinciali degli stessi Cappuccini, altre al dottor Ernesto Colajanni, la cui farmacia subisce un principio d’ incendio di natura intimidatoria. Il barone Alù e due agricoltori della zona – tali Pollara e Bonanno – si ritrovano un bel mattino senza bestiame. E lo stesso Bonanno, di Riesi, viene bombardato di lettere minatorie. Così pure altri proprietari terrieri di Mazzarino. è un incubo. Che finisce in tragedia. Perché al tramonto del 25 maggio 1958, la 600 su cui viaggia il cavaliere Angelo Cannada insieme alla moglie Eleonora Sapio e al figlio, viene bloccata in contrada Prato. Quattro uomini mascherati trascinano dietro un cespuglio il facoltoso possidente e lo fanno fuori in due minuti. Prima le intimidazioni, poi le estorsioni, ora anche l’ assassinio. A Mazzarino nessuno fiata, dopo le cinque comincia il coprifuoco. Si procede «a carico d’ ignoti» fino al 5 maggio dell’ anno successivo, quando due fucilate raggiungono il vigile urbano Giovanni Stuppia e nel giro di una notte finiscono in caserma Giuseppe Salemi, 40 anni, Girolamo Azzolina, 27 anni, e Filippo Nicoletti, 16 anni. è il trio dei cosiddetti “laici”, più tardi imputati assieme ai religiosi al processo di Messina. Dilettanti e ladri di polli, sempre in cerca di qualche soldo per pagarsi una notte d’ amore a Catania. I tre vengono interrogati e i carabinieri risalgono al mandante: Carmelo Lo Bartolo, di anni 43, giardiniere del convento, rude e temuto, analfabeta dai baffetti sempre in ordine, che verrà arrestato a Genova, dove nel frattempo è fuggito, e che poi, condannato a 30 anni, si toglierà la vita impiccandosi in una cella del carcere di Caltanissetta. Da Lo Bartolo gli inquirenti arrivano nei meandri del convento. E il 16 febbraio 1960 i frati finiscono in manette. Vittime o complici? Il processo si apre a Caltanissetta. I difensori dei monaci partono subito all’ attacco. Sperano che il giudice assolva i loro assistiti giustificandone l’ operato con lo «stato di necessità», o che almeno ne distingua le responsabilità dai laici, accollando a questi l’ intera responsabilità dei delitti più gravi, primo fra tutti l’ omicidio, sia pure preterintenzionale, del cavaliere Cannada. Ma quando ormai è certo che i monaci dovranno essere processati davanti a una Corte d’ Assise, il regista della difesa, il cattolicissimo Giuseppe Alessi, primo presidente della Regione, ottiene il trasferimento del processo per legittima suspicione: sui banchi dell’ accusa sederebbero «avvocati leader politici dell’ anticlericalismo e dei partiti di sinistra» (il socialista Nino Sorgi e il liberale Girolamo Bellavista, patroni dei Cannada) e su quelli della difesa «avvocati leader del movimento cattolico». Viene scelta Messina. A difesa dei frati scende in campo anche il grande Francesco Carnelutti, insieme a Francesco Siciliano. Interrogati, i religiosi raccontano di avere agito a fin di bene e di non avere mai intascato una lira delle somme riscosse, consegnate ogni volta al Lo Bartolo. In aula non mancano colpi di scena e di teatro, lacrime e applausi. Perché, si chiede l’ accusa, i frati non hanno denunciato i fatti ai carabinieri? Perché non si sono confidati con i loro superiori? Perché non hanno chiesto trasferimento? Del resto sono stati solerti nel sollecitare il pagamento delle somme imposte, si mostravano preoccupati delle indagini e ogni volta si assicuravano che le vittime non annotassero i numeri delle banconote. Addirittura ironizzavano sulla irrisorietà delle somme che chiedevano ai ricattati di consegnare. Dunque la loro partecipazione psicologica ai delitti è stata «piena». E se si considera l’ ascendente di cui godono i religiosi in genere e il grado di cultura rispetto ai complici, non c’ è dubbio: sono loro «i capi dell’ associazione a delinquere». Durissima la requisitoria del pm Di Giacomo. Secondo il battagliero collegio di difesa, invece, la mente sarebbe stata il Lo Bartolo, vero capo della banda che coi frati recitava la parte del protettore. I monaci sarebbero stati testimoni, non coimputati. Carnelutti dice a gran voce che i «santi religiosi» vanno assolti non per «stato di necessità» ma per aver adempiuto a una «missione». La sentenza di primo grado di Messina assolve i frati per avere agito in «stato di necessità». E i frati vengono scarcerati, benedicendo Dio e l’ articolo 54 del codice penale. Ma si chiude un processo e se ne apre un altro: quello alla sentenza, depositata in 193 pagine. Scoppia il finimondo (rovente, tra le altre, la polemica fra Carnelutti e il presidente della Camera, il penalista Giovanni Leone). Dopo un anno il verdetto viene riformato dalla Corte d’ Assise di Messina, che condanna i frati a 13 anni. Due anni dopo, la sentenza viene annullata per difetto di motivazione. E un nuovo processo d’ appello si apre a Perugia. Ma la corte riduce la pena da 13 a 8 anni e riafferma la correità dei religiosi. Per i monaci non c’ è niente da fare: a due passi da Assisi, san Francesco non fa miracoli.
fonte http://ricerca.repubblica.it