di Salvatore Arcidiacono –
Le notizie biografiche su santa Rosalia sono frammentarie; si sa solo che visse nel secolo XII, restando lungamente in una grotta sul Monte Pellegrino, alla periferia di Palermo. Sembra che prima di recludersi fosse monaca basiliana e che sia passata a miglior vita il 4 settembre (giorno del “Festino” palermitano) del 1196. La venerazione popolare verso la Santa, fino al secolo XVII, fu alquanto tiepida. Il suo culto veniva praticato moderatamente nel capoluogo siciliano e in alcuni centri della Sicilia occidentale; fra i quali c’era Santo Stefano Quisquina. Ma l’adorazione della Santa esplose repentinamente durante la pestilenza del 1642; quando le vennero attribuite centinaia di miracolose guarigioni. Nella occasione venne eletta patrona di Palermo, destituendo il precedente San Filippo Neri. In quella contingenza ebbe inizio una intricata vicenda agiografia. In una grotta del citato borgo Santo Stefano (che dista da Palermo una ottantina di chilometri) venne fortunosamente scoperto un graffito che attestava in modo inequivocabile come Santa Rosalia fosse vissuta romita nell’anfratto. La iscrizione, in un discutibile latino, diceva: “Io Rosalia Sinibaldi, figlia del signore della Quisquina e delle Rose, per amore del mio Signore Gesù Cristo, in questo antro ho deciso di abitare”. La scoperta creò indicibile subbuglio nelle alte sfere della Chiesa, in quanto toglieva a Palermo il monopolio della novella patrona. La Curia sentenziò immantinentemente che si trattasse di un plateale falso; mentre la Compagnia di Gesù si adoperò in tutti i modi per attestarne la sua autenticità. Venne intentato un processo in cui furono sentiti i testimoni del ritrovamento, furono interpellati grafologi e glottologi, ma non si venne a capo di nulla; le due parti rivali erano alla pari. L’autorità dell’una era bilanciata dalla astuzia dell’altra. Di questa pia controversia scrive Giancarlo Santi nel suo recente volume “Ego Rosalia La Vergine palermitana tra santità ed impostura”, pubblicato dalla Editrice La Zisa di Palermo (443 pp., euro 25,90). Il libro, a rigor di logica, avrebbe dovuto essere un saggio agiografico; ma in effetti l’Autore ne ha fatto un romanzo, costruito sulla falsariga di un thrilling poliziesco, di alta levatura. Per l’occasione ha raccolto dati noti e inediti da fonti storielle, bibliografiche e da antiche testimonianze manoscritte. Il tutto condito con sagacia e intelligenza, non che con una prosa fluida e accattivante. Sta di fatto che il lettore che iniziasse a leggere il libro non se ne può staccare fino all’ultima pagina (che è la 443 esima! ). Apprendiamo in esso che la disputa fra i due fronti religiosi si è protratta per questi ultimi quattrocento anni, fra vittorie e sconfitte da una parte e dall’altra; cioè fin quando (1977) monsignor Paolo Collura, un alto prelato palermitano, basandosi su rigorose ricerche compiute da specialisti, ha posto fine alla querelle emanando editti verbali e scritti, che bollano come pia impostura l’iscrizione, attribuendola alla furberia dei gesuiti del tempo.
(La Sicilia, 6 dicembre 2010)

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