– di Corrado Speziale –
Il fenomeno e l’emergenza Coronavirus sono in piena e costante evoluzione sotto tutti gli aspetti. Ritorniamo ad incontrare il dottor Giuseppe Cannuni, medico infettivologo messinese, da noi intervistato lo scorso 21 febbraio, al fine di fornire i suoi aggiornamenti e manifestare delle nuove considerazioni sull’evoluzione dell’epidemia. (leggi qui l’articolo precedente)
Sull’emergenza Coronavirus, all’insorgenza dei primi focolai in Italia, avevamo intervistato il dottor Giuseppe Cannuni, medico infettivologo messinese, il quale sull’epidemia si era dimostrato piuttosto rassicurante, tenendo conto dei numeri e delle condizioni generali rispetto ad un’ordinaria influenza che, come si sa, conta annualmente il suo importante numero di decessi tra le persone maggiormente fragili.
Allora, scongiurando provvedimenti ed atteggiamenti estremi, il medico aveva ribadito il “mantra” con le ripetute raccomandazioni, per limitare il rischio di infezioni, e sperato che non si incorresse nel “panico dei coprifuoco”. Situazione che, più o meno, nostro malgrado, si è invece verificata.
Questi gli ultimi dati ufficiali che riguardano l’Italia, aggiornati alle ore 18,30 del 17 marzo: nella giornata si sono registrati 2.989 nuovi casi di infezione; 192 sono le persone guarite; 345 i deceduti. In totale, sino a oggi, si registra un totale di 26.062 positivi, 2.941 guariti e 2.503 deceduti.
In Sicilia, secondo gli ultimi dati, si registrano dall’inizio, in totale, 237 persone infette, di cui 114 ricoverate, 8 guarite e 4 decedute. Questa la suddivisione nelle varie province: Agrigento, 22; Caltanissetta, 4; Catania, 108; Enna, 8; Messina, 16; Palermo, 40; Ragusa, 4; Siracusa, 21; Trapani, 14.
Dottor Cannuni, alla prima intervista, poco meno di un mese fa, era abbastanza rassicurante. Alla luce dell’evoluzione della situazione nel nostro Paese, in termini numerici, mantiene ancora questa idea?
Circa un mese fa ragionavamo su numeri lontanissimi dall’1% della popolazione nazionale, e oggi come allora continuiamo ad essere lontanissimi dall’1% della popolazione. Ricordo che in un paese che conta 60 milioni di abitanti, l’1% corrisponde a 600 mila unità.
L’OMS ha detto che questa crisi sanitaria segna la nostra epoca. A questo punto può essere vero?
L’OMS ha dichiarato lo stato di pandemia, in realtà un termine abbastanza largo, che prevede la comparsa di un nuovo patogeno in più nazioni. Dichiarare questo stato è stata un’arma politica, per obbligare paesi come gli Stati Uniti a fare tamponi a chiunque presentasse una sintomatologia sospetta, anche persone non assicurate. È noto, in tal senso, che il sistema sanitario americano mette a disposizione cure e mezzi diagnostici a chi si può permettere di pagare questi servizi.
Con l’affermazione riportata nella domanda l’OMS non ha fatto altro che strigliare i governi e l’attuale sistema sociale ed economico, mettendoli davanti alla loro fragilità in presenza di un patogeno, per quanto nuovo, che ha fatto, ad oggi, circa 180.000 contagi, su una popolazione globale di 7 miliardi e mezzo di persone, dalla fine di dicembre 2019 ad oggi.
Secondo lei, riguardo al trattamento dei malati e dell’infezione, come ha affrontato la crisi il nostro ministero della Salute?
L’ha affrontata? Macroscopicamente credo siano più le falle e le mancanze che non i provvedimenti presi. La situazione della Lombardia è sotto gli occhi di tutti. Mi chiedo, davvero, se non fosse un provvedimento da prendere prima il coordinamento del sistema sanitario, invece di lasciarlo in mano alle regioni, come succede nell’ordinario. Non si sarebbe arrivati a sfiorare il collasso delle strutture se ci fosse stata una regia centralizzata, capace di ridistribuire tra le regioni i malati nelle terapie intensive e nei reparti, invece di stare a guardare passivamente, mettendo a repentaglio la salute di pazienti ed operatori sanitari, a cui va tutta la mia solidarietà, costretti a lavorare in situazioni tutt’altro che sicure per via del sovraffollamento delle strutture.
Quindi gravi problemi organizzativi. Cos’altro c’è che non la convince?
Altro punto controverso riguarda la conta dei decessi, nettamente sovrastimata per due motivi: primo, la mancanza di univocità nel redigere i certificati di morte, cioè se il paziente è morto con il SARS-CoV-2 (virus che può causare il COVID 19, che rende positivi ma non necessariamente ammalati e pertanto morto per altra causa, ndr) o se il paziente è morto per il COVID-19. Secondo, perché il tampone non è eseguito a tutte le persone, ma solo a quelle che hanno sviluppato una sintomatologia tale da essere attenzionate, o provenienti da aree a maggior rischio di contagio.
Secondo l’ISS quest’ultimo picco di contagi a Bergamo e Brescia non è un dato anomalo, perché risentirebbe della situazione di 15 giorni fa. Le sembra un’ipotesi attendibile?
Quello che sta succedendo tra Brescia e Bergamo non sono convintissimo possa risentire della situazione precedente. Sicuramente sta succedendo qualcosa di anomalo che non si è verificato nel resto d’Italia, ma ci sono troppe variabili in gioco. Dire con certezza che dipenda dalla situazione di 15 giorni fa mi sembra forzato. Il fatto che l’incubazione vada dai 2 ai 14 giorni, non vuol dire che già non possa comparire in quarta o quinta giornata. Quindi, pensare che tutti abbiano avuto un’incubazione di 14 giorni sarebbe soltanto un unicum statistico.
Ma la differenza nella propagazione del virus tra nord e sud Italia fino a oggi è molto significativa, questo sembra un dato inconfutabile…
Parlare di discrepanza nella propagazione del virus sarebbe un errore. Sicuramente c’è una discrepanza nella diffusione di malattia (COVID-19), mentre sulla propagazione del virus (SARS-CoV-2) non possiamo essere certi ci sia questa discrepanza. Nulla impedisce che il virus a Roma ci sia già stato, abbia contagiato dando manifestazioni meno eclatanti, o addirittura in modo asintomatico, e abbia immunizzato parte della popolazione.
Alla luce di ciò, senza azzardare previsioni, è possibile che dall’insorgenza dei primi focolai tra la Cina e il nord Italia, al sud si siano formati gli anticorpi? Consideriamo che il problema dei trasferimenti tra nord e sud Italia e viceversa si sta affrontando solo adesso, quando invece contatti ne avvenivano già in maniera assidua in concomitanza dei primi focolai, ossia oltre un mese fa.
Ovviamente è solo una teoria che non ha basi comprovate. Nella pratica quotidiana, e confrontandomi con parecchi colleghi, in tempi non sospetti, tra metà gennaio e metà febbraio abbiamo assistito, anche su pazienti che avevano fatto il vaccino anti-influenzale, a quadri febbrili di durata più lunga del normale e quadri di polmoniti abbastanza inconsueti. Col senno di poi il dubbio ci può stare. Poi sarà il passare dei giorni a dare valore o meno a tale ipotesi.
C’è la gente barricata in casa. Per un infettivologo questa è una nuova sfida, una semplice presa d’atto, una sconfitta o più semplicemente una giusta precauzione?
Premesso che per gli infettivologi gli isolamenti, avere a che fare con pazienti contagiosi, non è nulla di nuovo. Così come sapere come e quando usare i DPI, fa parte della nostra formazione. Piuttosto fa sorridere, ma è comprensibile vista la specificità dell’argomento, vedere persone completamente chiuse nelle auto indossare guanti e mascherine. Sulla gente barricata in casa…Beh, c’è un decreto…non credo di potermi esprimere oltre per ovvii motivi!
I dati di stasera in Sicilia parlano di oltre 200 casi con patologia, di cui 16 in provincia di Messina, otto guariti e quattro deceduti. Siamo sopra o sotto le previsioni?
Sono numeri che saliranno, ma ciò non vuol dire che saranno casi gravi. Per quanto riguarda Messina e provincia, registriamo 16 casi su oltre 600.000 abitanti. Un mese fa parlammo di casi più o meno sporadici, per cui siamo lì.
Quando ci libereremo di queste paure? Ciò dipenderà solo dai futuri vaccini che si sperimenteranno o c’è qualche altra speranza, un rimedio, magari più a breve termine?
Senza voler sminuire la situazione nelle zone più colpite d’Italia, in cui il margine tra emergenza sanitaria ed emergenza strutturale è sottilissimo, in questo momento ci troviamo di fronte a due patologie: una è il COVID-19, l’altra è l’isteria di massa. Forse è un po’ colpa anche di tv, social e qualche virologo rockstar cui piace predicare la fine del mondo negli studi televisivi e su internet.
Di questo virus si è ampiamente parlato del salto di specie (passaggio, ad esempio, da una specie animale ad un’altra, ndr) e del fatto che nessuno avesse anticorpi specifici, come fosse qualcosa di straordinario. Niente di più lontano dalla realtà. I salti di specie, in particolare per i virus, sono molto frequenti, solo che non tutti sono patogeni per l’uomo, mentre altri lo sono in maniera paucisintomatica, quindi passano inosservati.
Quale potrebbe essere allora la soluzione più opportuna?
Fatta questa breve premessa, considerando quanto detto su una corretta distribuzione dei pazienti su tutto il territorio, al fine di limitare i rischi quanto più possibile anche per i soggetti più deboli, la soluzione più verosimile, nel breve tempo, potrebbe essere l’immunizzazione. A tal proposito, a parte l’uscita infelice del premier inglese Johnson nell’esporre il concetto, non trovo tanto peregrino l’approccio di non imporre chiusure o misure restrittive alla popolazione. Certamente con le dovute precauzioni atte a preservare i soggetti più fragili. Il virus il proprio decorso lo deve pur fare. Noi per certi versi non possiamo avere l’illusione dell’intero controllo assoluto sugli eventi naturali.