Quando le considerazioni prese dal web diventano vere, attuali, condivisibili
In un bellissimo editoriale pubblicato sul Corriere qualche giorno fa, Barbara Stefanelli auspica comprensione, condivisione, empatia che possano arginare e sconfiggere la paura e la vergogna del contagio. Perché appunto la vergogna di essere inconsapevolmente la causa di un danno provocato non solo a se stessi ma a una intera comunità accentua il disagio e induce alla invisibilità.
Stiamo forse un po’ provando, in un contesto di diffidenze (persino per un innocuo, solitario starnuto) e di reali impedimenti, la condizione in cui vivono un’intera esistenza le persone con disabilità. Compresi i pregiudizi e l’emarginazione che ci tocca subire dall’estero in quanto additati come causa del contagio europeo. Lettere e testimonianze dal mondo della disabilità (tra singoli e associazioni) colgono questa inaspettata comunanza di destini.
Ma è solo un assaggio, una parvenza. Al di là del disagio sociale, il virus marca ancora le differenze. Come ha puntualmente raccontato Renato La Cara in un servizio sul fattoquotidiano.it, l’emergenza ha creato nelle zone rosse grossi problemi all’assistenza delle persone con gravi disabilità. La chiusura improvvisa di alcuni paesi ha messo in secondo piano le precauzioni necessarie verso le persone fragili. E in rilievo la mancanza di un protocollo di pronta assistenza uniforme a livello nazionale. Così come i terremoti, le quarantene non sono uguali per tutti.
Anche perché molte persone con disabilità, come tutti i soggetti fragili, rischiano la vita più degli altri. In quel dolente e freddo bollettino diramato ogni pomeriggio alle 18 dalla Protezione Civile, la conta dei morti giornalieri, accanto ai nuovi contagiati e ai guariti, ci provoca uno sgomento poi mitigato dal fatto che si tratta quasi sempre di persone con patologie pregresse. Ma in questa categoria oltre agli anziani rientrano le persone sottoposte a cure oncologiche e le persone con disabilità.
Un pensiero per queste vittime a cui togliamo l’attenzione di un’identità, dimenticate nella massa dei numeri del contagio e nell’ansia dei proclami sanitari e politici. In attesa di notizie sanitarie che diventino finalmente confortanti, non ci resta che adottare un senso di responsabilità. Sociale, civile, solidale.
E allora riflettiamo. Magari con una canzone in sottofondo… Questa potrebbe calzare a pennello:
Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po’
e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò.
Da quando sei partito c’è una grossa novità,
l’anno vecchio è finito ormai
ma qualcosa ancora qui non va.
Si esce poco la sera compreso quando è festa
e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra,
e si sta senza parlare per intere settimane,
e a quelli che hanno niente da dire
del tempo ne rimane.
In conclusone, un paio di precisazioni: per il coronavirus i sacchi di sabbia alla finestra non servono. E di tempo ne rimane anche a noi. Usiamolo bene. Non moriremo tutti di coronavirus. Ma questa storia può lasciare morti, feriti e dispersi sul campo. E non per difficoltà respiratorie. Ci vorrà tempo per rialzarsi e anche qualche idea. Cominciamo a pensarci. Con lucidità, senza fasciarci la testa.