Inuzza e i suoi genitori
Era il 18 maggio 1968.
A mezzogiorno in punto un’esplosione squarciò il silenzio del paese, portandosi via la “casamatta”, il laboratorio-deposito di fuochi d’artificio della famiglia Castorino, conosciuta in tutta la Sicilia per la sua arte pirotecnica. Lo scoppio fu devastante. Tre le vittime: Inuzza, Paola Materia e Natale Castorino.
Andarono via in un lampo rimanendo, per sempre, nel dolore e nella memoria collettiva di Brolo.
Quella era una splendida domenica di maggio, la prima vera d’estate, che sembrava voler bussare in anticipo.
Al bar di Don Tindaro, in via Marina, si parlava di calcio, di Boninsegna e Gigi Riva. Poi, d’improvviso, il boato, udito fino a Gliaca e Testa di Monaco. Non fu una bombola di gas come qualcuno pensò inizialmente, ma il cuore della collina “dei Murtidda” a rivelare la verità: era saltato in aria il laboratorio dei Castorino.
Inuzza non avrebbe dovuto essere lì.
Era andata a portare da mangiare. Di solito restava nella bottega di casalinghi che aveva appena aperto in via Trieste dove una volta c’era il magazzino di farina. Morì all’istante, il suo sorriso lasciato in eredità al cielo. Paola Materia spirò in serata, e Natale Castorino, sebbene ferito e ustionato, tentò disperatamente di raggiungere la strada per cercare aiuto. Morì il giorno seguente.
I primi ad arrivare furono Bruno Vizzari, Turi Campo, Vito Castorino, Nino Materiale e Paolo “Bacina”. La scena era devastante. Chi come l’appuntato Moscato, della caserma di Brolo, giunto per i primi rilievi, disse: “non mangiai carne per mesi, per l’odore acre e di bruciato che si respirava”.
Una tragedia che segnò non solo la grande famiglia dei Castorino, ma. per sempre la comunità brolese.
Ma da quella tragedia nacque anche una nuova forma di resistenza. La famiglia, distrutta nel dolore, trovò la forza di continuare la tradizione pirotecnica, quasi fosse un’eredità genetica. Biagio Materia, marito di Caterina Pisani , l’aveva portata a Brolo già negli anni Quaranta, intrecciandosi con altre storiche famiglie di “jocufucari”.
Quella dei fuochi è una vera arte, una scuola brolese, fatta di tecnica, passione, segreti di polveri e colori. Una tradizione trasmessa di generazione in generazione che ancora dura, dai Materia ai Castorino, fino ai Riturante. Una scuola che ha saputo regalare emozioni, pur nella consapevolezza del rischio.
Nel 1968, il giorno dell’esplosione, da Houston l’Apollo 10 partiva per i test pre-sbarco lunare. Quasi simbolicamente, anche Ina, Paolo e Natale volavano in cielo, come stelle, nel giorno dei “fuochi”.
I fuochi d’artificio a Brolo non erano mai solo spettacolo.
Erano riti, spiritualità, tradizione. Accompagnavano le processioni sacre, scacciavano simbolicamente il male, facevano vibrare l’anima del paese. I “mortaretti”, le “bombe”, la “cassa infernale” segnavano i momenti salienti del culto collettivo, della festa religiosa che univa davvero la comunità.
La spiritualità si toccava con mano: i ceri accesi alle finestre, le fiaccole sprizzanti di lampi, il corredo delle donne da marito, steso per mostralo a tutti ai balconi, le donne vestite da santa per voto, i bambini salvati dalla malattia agghindati come piccoli santi, le poi le “filere” delle lampadine, una comunità tutta raccolta attorno alla preghiera e alla speranza.
Questa dimensione profonda della festa, fatta di fede, emozione e cultura popolare, oggi rischia di essere travolta da modernità senza radici.
Ma va compresa, va rispettata.
Prima di giudicarla “obsoleta”, bisogna ricordare che fu strumento di unione, cura collettiva e identità.
I fuochi che oggi applaudiamo al Ferragosto hanno origini antiche e sacre. Non sono solo luci, sono memoria e rinascita.
Oggi, ricordando quella tragedia di maggio, onoriamo non solo le vittime ma anche la forza di un popolo che ha saputo trasformare il dolore in arte.
Brolo, paese dei fuochi e della memoria.