Abitando a Messina, è cosa inevitabile che si volga lo sguardo alla Calabria. Lo Stretto è una striscia sottile di mare inadatta a far percepire le distanze. Oltre la costa spesso ammantata dalla foschia che di notte si trasforma in un’opera impressionista per il “puntineggiare” di luci, c’è una striscia di terra, che potrebbe essere terra come tante altre. In Calabria, invece, essa ha un ruolo fondamentale: Gioia Tauro, con la sua piana ed il suo porto, è la metafora della storia dell’intera regione, è la metafora della storia della ‘ndrangheta.
E’ terra d’intrecci indissolubili. E’ la terra del doppio. Nel momento in cui venne posta la prima pietra del porto, oggi crocevia di traffici criminali di natura internazionale, il doppio era presente sotto forma, da un lato, di potere locale concentrato nelle mani dei boss mafiosi e, dall’altro lato, di potere nazionale concentrato in volti e nomi ben noti. La prima pietra segna il sodalizio tra frammenti malati della società, in tutte le sue articolazioni, fotografia di un conflitto mai sedato.
Dalla cronaca, è noto cosa sia stato nella sua storia, il porto di Gioia Tauro. Esso è principalmente il ponte con l’America Latina, con i Paesi produttori di droga, con il sangue versato in quei luoghi ad opera dei Narcos e con l’enorme potere economico dei cartelli. Ma la cocaina è solo uno degli affari criminali che si concludono, tra le contrattazioni, in quel porto; basti pensare ai container che, quotidianamente, sbarcano in Calabria ingenti quantità di merce contraffatta.
Questo racconta, quasi come in un romanzo (meglio dire un noir), Francesco Forgione nel suo ultimo libro, intitolato, per l’appunto, “Porto Franco”. Un libro in cui il gioco del doppio è palese laddove si parla di “zone grigie” , aree buie di difficile definizione. Ma la parola chiave, è forse “complicità”: il microcosmo del porto di Gioia Tauro non è “abitato” solo da boss ‘ndranghetisti, ma anche da pezzi d’istituzioni che per anni, tacendo se non addirittura contribuendo fattivamente, hanno permesso che si smistassero agevolmente enormi carichi di droga o si concludessero accordi.
Quest’ultimo termine è di fondamentale importanza. L’accordo è l’arma più utilizzata dalle associazioni mafiose, insieme al silenzio. L’accordo ha permesso che le cosche con i loro usi e consumi si trasferissero oltre i confini calabri: dai successi di alcune operazioni realizzate dalle Procure di Milano e Reggio Calabria e conclusesi con arresti che di certo hanno inflitto duri colpi all’organizzazione criminale, è stato finalmente dimostrato in modo concreto ed inopponibile come la mafia non rispetta confini, ma sa trapiantarsi con successo in territori diversi. La sua forza è l’accordo: non a caso le citate operazioni hanno coinvolto anche esponenti politici di schieramenti differenti. Non si tratta, tuttavia, dell’accordo inteso nella sua comune accezione, bensì dell’accordo corruttivo, quello che sigla gli intrecci.
Gioia Tauro è, però, anche fotografia di un risveglio. Al di là della repressione del fenomeno mafioso, è fondamentale la presa di coscienza. Come la mafia, anche la coscienza e lo sforzo del cambiamento non conoscono confini.
Alla vigilia dell’anniversario della strage di Via D’Amelio, dopo vent’anni in cui le zone grigie ed i doppi giochi hanno taciuto la verità e scansato ogni responsabilità, è giusto chiedersi e chiedere. E’ dovere di ciascuno fare del proprio per dipanare le nebbie che ci tengono distanti dalla verità.
Dopo tutto questo tempo, e nel tempo in cui vacilla ancor di più la fiducia in delle istituzioni che appaiono sempre più complici della criminalità organizzata, è la voglia del “risveglio” che ci avvicina al vero.