Il dopoguerra era finito e si spalancavano davanti a loro, come davanti a milioni di italiani, le praterie vergini di un mondo sconosciuto chiamato “benessere”, l’università, il lavoro, gli amori e poi la famiglia e per alcuni il successo.
Ma anche le tragedie della vita, come chi, di quel gruppo, morì nella strage del Vajont, al primo incarico d’insegnamento. Vincenzo Gumina, giovane professore, alla prima nomina, alla ricerca di una cattedra che qui non c’era, nè a Brolo nè nelle altre scuole isolane.
Sono l’immagine di una Brolo diversa, che scopriva il lavoro alla Regione, le raccomandazioni, la voglia di far politica, che aver un grammofono faceva la differenza, e poi il piacere delle feste in famiglia, dei semifreddi del bar “Savoia”.
Era il tempo che le poche tv, in famiglia, mandavano i primi varietà televisivi per adulti o per la tv dei Ragazzi, con personaggi come Scaramaccai, e l’alfabetizzazione di tanti passava attraverso le elezioni di Alberto Manzi. Il primo maestro globale.
Erano anni quando tutto doveva essere inventato o reinventato.
Brolo faceva i conti con i reduci, e con i poveri che come le piantine esili e testarde spuntano nelle crepe dei marciapiedi di strade ancora non asfaltate.
ERa il tempo dlele prime emigrazioni, chi andava in Francia chi in Belgio, poi molti presero la strada di Milano, Gallarate, Vigevano, della Fiat di Torino.
Chi ha vissuto quegli anni, – come scrisse Vittorio Zucconi – e ne ha goduto a volte immeritatamente o casualmente, i benefici trasformati in garanzie, statuti, diritti, assistenza, scatti di anzianità, posti sicuri, sa – o teme – di avere tradito la fatica immensa fatta dalla generazione precedente, nelle fabbriche, nei cantieri, negli uffici, nei laboratori, nelle botteghe, e di presentarsi alla generazione dei propri figli con le mani vuote, piene soltanto di parole, di rimpianti, di pensioni che servono spesso soltanto a mantenere chi da solo non riesce a farlo.
Ancora sento la voce di tante nonne del tempo che ripetevano “Voi non capiti perchè state crescennu cù culo chino”, nel senso di pieno.
Ma la colpa forse più grande è di avere dato per scontato che quanto i nostri padri avevano fatto per noi, noi avremmo potuto fare per i nostri figli, semplicemente consegnano la nazione che avevamo ricevuto come il testimone di una staffetta.
Senza prepararli a un mondo nel quale saranno costretti a correre sempre più in fretta per restare, se va bene, dove sono già.
Stipati su una Millecento troppo piena, in un mondo dove miliardi di passeggeri sgomitano per trovare, come noi trovammo, il loro posto.
E le sigarette di Ugo, quelle nelle cartine, avevano un sapore indimenticabile.