I magazzini dove si lavoravano i limoni, le grandi “stufe”, l’inconfondibile odore dell’acetilene, poi la fabbrica del sapone ed ancora le barche tirate d’inverno a secco per le mareggiate e d’estate i “pesci porci”, l’escursione a ferragosto alla “spiaggia africana” tutti sul barcone “a nafta”, lo sciabaco e le testugini che si arenavano sulla ghiaia confuse dalla secche.
Sono i momenti di vita vissuta, sino agli anni sessanta – o qualche cosa di più – a Brolo.
Così si reggeva l’economia locale, povera per tanti, ricca per agrari e nuovi proprietari.
Pezzi di storia che prima il “treno del sole” ha portato via, poi ci ha pensato la speculazione edilizia che ha abbattuto le finestre ogivali del saponificio con la sua facciata ocra, la vecchia chiesa dell’Annunziata che ospitò, nella sua sacrestia, con tanto di campana, sino agli anni settanta, una antica forgia, e poi ancora ma la storia è recente, la fine – ingloriosa -degli ultimi grandi magazzini di limoni, quasi archeologia industriale, dai tetti i canne, e dai lungi nastri trasportatori con le cassette ancora rigorosamente di legno per far posto in ultimi a nuovi residence sul lungomare, questi ancora da costruirsi.
Un paese che ha perso la sua memoria, i suoi luoghi, che si è accecato per non vedere, è mozzo; è orfano.
In questo contesto un libro fotografico, vecchi scatti in bianco e nero , diventa un cimelio, un’occasione ghiotta per rivedersi.
E Pidonti, fotografo da generazioni, con il suo archivio storico sopperisce allo scempio fatto di un mondo politico decultururizzato che ha permesso la distruzione di tanto.
Pidonti conserva e ricorda
A Brolo, la mancanza dell’estetica, della cura del bello ha creato la mancanza dell’etica del ricordo, e senza Pidonti tutto sarebbe andato perso.
Ed allora anche una la mostra, veloce, allestita con diciotto scatti, ed un vecchio gozzo, da Maria Favazzi, Antonella Fazio, Federico Monitto e Elisa Spanò, sul lungomare, durante la festa del mare, diventa un momento d’incontro, un amarcaord per tanti che fa piangere i vecchi pescatori, che si ritrovano lì, fissati da uno scatto, come trent’anni addietro, in un luogo dove forse solo il paesaggio all’orizzonte è rimasto uguale.
Una mostra, voluta da Antonio Traviglia, vissuta due giorni, che vuol dire tanto.. che fa riflettere, che aiuta a capire e che può essere l’avvio di un’azione di recupero collettivo della memoria che ben si lega alla “brolotimeline” il progetto della SakBe che vuole creare in video ed in audio un lungo e unico documento storico su Brolo com’era, e come l’hanno vissuta i protagonisti del tempo.
Peccato che tanti di questi sono già andati via.
Una mostra quella vista sul lungomare che univa le foto alla testimonianza del “gozzo”, alle reti, alla vecchia lampara, alle strumentazioni di pesca.
Nelle foto scorrono i vecchi “legni” in uso negli anni sessanta e settanta, “posteggiati” lì , tra i resti della vecchia colonia e l’area di Don Maraino, con lo schermo bianco perfilato di blu, dove si mangiava il lupino di Don Santo in una bettola che sapeve di odori di salmoriglio e sarde arrostite. Tante foto e tante barche, fino all’ultima, quella di Jachino, l’ultimo vero marinaio di Brolo.
Rude e barbuto come un dio greco dal cuore grande, buono ed onesto… un’eredità lasciata per intero a Melo, il figlio, che ama il mare come lui capace di emozionarsi quando il figlio si imbarco sulla Vespucci.
Molti barche di una tosta marineria brolese, fatta anche di uomini tatuati che masticavano toscani dalle dite tozza e callose, buoni di coltello; barche che provenivano dai cantieri di Trappitu (alla periferia di Palermo) e di Favarotta (Terrasini), altre dai buoni maestri d’ascia di Gioiosa Marea, Sant’Agata e Capo d’Orlando.
Artigiani che sino a dieci anni fa ancora lavoravano e realizzavano in legno preziose e perfette imbarcazioni dai remi levigati lungo le strade delle marine.
Barche che trovavano la loro progettualità nel periodo medievale con il sistema costruttivo a “frame fírst” che si realizzava iniziando dall’ossatura (o ordinate) e non dal guscio esterno (o fasciame), come spesso avveniva nell’antichità.
Barche e tradizioni che legavano concetti di famiglia, lavoro e religiosità.
Durante la funzione religiosa della benedizione e del “varo”, infatti l’imbarcazione prendeva quasi sempre il nome di un Santo o di una Santa protettrice, ed è questo un elemento apotropaico per esorcizzare il pericolo, ed invocare la protezione divina.
La barca diventava il fulcro di attività lavorative, di rapporti sociali, ma anche familiari, essa rappresentava l’elemento della cultura materiale che ci guida alla cultura del mare individuando relazioni interpersonali e simboliche che caratterizzano l’antica comunità marinara dei pescatori anche di Brolo e di tutte le comunità marinare della Sicilia.
A Brolo la barca era tutto per il pescatore.
Qui non è mai esistita una confraternita, una società di mutuo soccorso tra i pescatori.
Individualismo esasperato, ma con grande solidarietà al bisogno.
Le pitture a sfondo religioso sulle fiancate delle barche, erano diffusissimi prima degli anni 60, quando le condizioni sociali e di vita dei pescatori erano piuttosto dure e portavano alla ricerca di un sicuro riferimento che la sola religione dava secondo il principio del “do ut des”.
Poi si passò alle strisce colorate, dominava il blu, il verde, ed il rosso, sui fondi bianchi o azzurri carichi.
Ma le immagini sacre dipinte avevano comunque la funzione di respingere i pericoli e le insidie provenienti dal mare, ponendo al riparo il pescatore e la sua barca dai rischi connessi all’attività marinara ed anche, prosaicamente, dal sequestro delle reti, dello stesso natante, dagli scoppi accidentali delle “bombe” usate per la pesca di frodo, sotto le lampare, fatte con le vecchie bottiglie di gassosa, quelle con le palline, ideali per diventare ordigni in grado di spezzare le vesciche natatorie o rendere sordi per sempre.
Una tecnica pericolosa e rudimentale.
La bomba si confezionava infilando nella bottiglia di “gazzusa” del carburo in pezzetti (quello delle lampade ad acetilene) e poi si gettava la bottiglia in mare.
L’acqua salata entrava nella bottiglia, il carburo diventava gas e si espandeva e la bottiglia scoppiava.
Restava solo da raccogliere tutti i pesci a pancia all’aria che venivano a galla e non farsi trovare dai carabinieri.
Ma tornando alle barche.
L’immagine sacra oltre a rispondere ad una esigenza di protezione, aveva lo scopo di favorire e vigilare sul buon esito della pesca o delle attività pescherecce in generale.
Il rapporto che intercorre tra il Santo raffigurato da cui prende nome la barca ed il pescatore o proprietario viene socializzato: una barca più fortunata darà maggior risalto al Santo raffigurato rendendolo più popolare agli occhi di tutti.
L’uso di dipingere lo scafo aveva la duplice funzione di preservarlo dagli agenti atmosferici ed abbellirlo con immagini sacre dipinte, ed inoltre serviva per procurarsi la protezione divina dedicandola a un Santo tutelare. Con questi lavori di manutenzione si garantiva quindi la funzionalità del bene. Il compito di dipingere il santo nell’opera morta di prua o di poppa veniva affidato spesso a un Pinci Santi, mentre le altre decorazioni erano eseguite da un pescatore anziano ed esperto, veniva spesso chiamato il pescatore
Nell’opera morta di poppa si dipingevano solitamente: San Pietro, la Madonna del Lume, la Madonna del Tindari o l’Annunziata, San Michele Arcangelo, San Calogero.
Nell’opera morta di prua si dipingevano elementi ancestralmente pagani o magici, generalmente la Sirena, il Delfino, il pugno, il cuore trafitto, l’occhio, la stella, il nodo, il ferro di cavallo.
Ogni elemento raffigurato aveva un suo significato simbolico: ad esempio l’occhio sta a simboleggiare l’esigenza di stare all’erta per sfuggire i pericoli poiché indica potere e controllo sia da parte di chi questo potere esercita, sia su chi ne é destinatario.
L’occhio cattivo degli altri il malocchio riflette una sorta di debolezza sociale, precarietà economica e cattiva salute. L’occhio sta al di sopra di noi e garantisce le regole del controllo sociale.
I Santi rappresentati hanno il potere di intervenire con la loro azione tempestiva in salvataggi impossibili.
Oggi è indispensabile avere di questa cultura marinara una visione diacronica per comprendere la valenza antropologica delle tecniche tradizionali all’interno di una cultura locale nella quale sono rilevanti i canti, le leggende, le credenze, i modelli comportamentali e tutti gli atteggiamenti emotivi e cognitivi che costituiscono il vero oggetto dell’antropologia.
Per fortuna è abbastanza viva negli anziani la memoria delle nostre tradizioni e delle tradizionali tecnologie manifatturiere connesse con il mondo della marineria e tutto ciò che la circonda.
Oggi bisognerebbe avere la capacità di coniugare metodologie e tecniche del moderno restauro scientifico con il recupero degli antichi mestieri che purtroppo sono in via di estinzione.
Per le foto tratte dall’Archivio Pidonti di Brolo la riproduzione è vietata
fonti storiche tratta da Tradizioni Marinare by Trappetoweb