In tanti – tra il 1915 ed il 1918 – salirono sulle “tradotte”, con le vesti che sapevano di sale, di mare e di limoni…. e diamo onore anche a Antonino Speziale di Basilio. Il suo nome non è riportato sulla lapide del monumento ai Caduti di Brolo. Lui morì a Lanciano il 2 dicembre del 1918 ed è sepolto nel Sacrario di RediPuglie. Chissà perché quando fu fatta la lapide il nome è stato omesso e chissà se ne mancano degli altri… Mandateci la segnalazione.Alle 15 un minuto di silenzio,in tutta Italia, per ricordare quel macello.
Venivano da questo borgo marinaro per morire, combatte, andare all’assalto, sui campi e nelle trincee del trentino e del veneto. In 21 non fecero più ritorno, altri – chi era tornato a casa magari senza una gamba – si vedevano, sino ai primi anni ottanta, anche nelle bettole, a raccontare della guerra con i loro nastrini attaccati al bavero, le croci di Vittorio Veneto, sempre lustrate. Erano “i nonni” della guerra.
Un vitalizio, una cicatrice da mostrare, il cappello piumato impolverato sull’armadio, la divisa logora da indossare in giornate come oggi. Per ricordare chi non è tornato ora c’è una lapide, sul monumento del “militare assorto”.
Una lapide e dei nomi.
Ecco i brolesi Caduti della Grande Guerra sono Vincenzo Agostino Gasparo, Antonino Busacca, Gennaro Caruso, Basilio Castrovinci, Natale Catania, Antonio De Luca Cardillo, Carmelo De Luca Cardillo, Antonino Aliberto, Antonio Gentile, Giuspepe Gentile, Paolo Giuliano, Vincenzo Magistro, Basilio Mancuso, Costantino Merenda, Gaetano Onofaro, Carmelo Ricciardello, Cono Speziale, Basilio Starvaggi, Calogero Terranova, Carmelo Tripi, ed anche Antonino Speziale di Basilio, sepolto a Re Di Puglie il cui nome non figura sulla lapide del monumento ai Caduti di Brolo.
Tanti cognomi noti, identificabili con le famiglie di chi ancora vive a Brolo, altri che non esistono più nell’anagrafe del paese.
Anche questa è storia.
Loro dovevano avanzare sotto il fuoco nemico, per conquistare città in cui nessuno era mai stato, e montagne che nessuno aveva mai sentito nominare.
C’era da difendere una “terra italiana”, palmo a palmo, per impedire che gli austriaci se la riprendessero tutta. Difendere quella che era difficile definire “la loro” terra.
Oggi quei fanti – ovviamente – non ci sono più.
La memoria diretta della Grande Guerra si è spenta per sempre.
Restano le date,i giorni,come oggi,come il 4 novembre, o altre ricorrenze,per ricordarli, non dimenticarli, senza parlare di vittorie, resistenze, sconfitte, di Caporetto o del Piave, ma per cercare di comprendere come il paese elaborò quel lutto collettivo.Ricordare uomini che abbiamo amato – anche attraverso i racconti di madre e fratelli – e che ci hanno raccontato, senza enfasi, le pagine più tristi della storia del nostro paese.
Come dicevamo prima non solo quella della Vittoria ma quelle altre mille di “Uomini contro”, protagonisti dello scontro armato fra italiani e austriaci.
Le asprezze della guerra in territori aridi e freddi battuti dagli uomini appesantiti dalle uniformi e l’equipaggiamento, in marcia su terreni accidentati avvolti dalla nebbia sotto l’occhio vigile e feroce di generali spesso disumani,impreparati, cinici e spietati.
Una guerra fatta di eroi, reclute, e gente fucilata perché non andava all’assalto, perchè si spaventava dei gas, perchè era provata dalla “spagnola”, dai pidocchi, dalla fame e voleva tornare a casa, dalla moglie incinta,dai campi da arare, alla vita normale.
Ma è bene che oggi si ricordi anche altro.
Come gli altri caduti brolesi, i reduci di sempre. Gli altri morti in divisa.
Come Carmelo Giuffrè, un nome tra i tanti Caduti, “ucciso dalla mitraglia”.
Lui, non morì sui monti di Trento, come cantava De Andrè, ma sulle spianate di Monte Rosso Almo, nel luglio del 43.
Aveva 31 anni, era un soldato del regio esercito, aveva lasciato la famiglia, quattro fratelli, ora restano nipoti e pronipoti a portare il suo nome in ricordo di uno zio mai conosciuto.
Brolese come tanti, morti combattendo, decorati, eroi senza fanfare, popolani – sopratutto quelli della prima guerra mondiale che celebriamo oggi – mandati a morire come i bifolchi, carne da macello, nelle trincee del Carso o come – anni dopo – Giuseppe Micalizzi – classe 1909 – deceduto nel 1944 e rimasto ad Amburgo, sepolto nel cimitero militare italiano d’onore (riquadro 5 fila n. tomba 15).
Ma è un ricordo collettivo che si allarga e che vale anche, se non soprattutto, per chi restava a morite sotto i bombardamenti, per i bambini schiacciati dalle jeep americane, come il piccolo Santo Campo, e delle donne.
Quelle che restavano e che vedevano partire padri, fratelli, mariti. Le donne rimaste a casa che dimostrarono di saper fare i lavori «da uomo».
Forse una prima fase dell’emancipazione degli anni che poi verranno. Le donne brolesi, quelle che portarono il lutto per sempre.
E come tutte le guerre anche quelle combattute dai “brolesi” ha i suoi piccoli eroi
Ma sono uguali a tutte quelle raccontante, da chi le ha viste e vissute.
Una discesa agli inferi.
I diari, le lettere, le cartoline conservate ancora restituiscono una sofferenza che oggi non riusciamo neanche a immaginare che parlano di assalti inutili, delle decimazioni impartiti da generali idioti, di miserie umane, di paura.
Ma oggi deve essere anche il ricordo di chi tornò.
Come quelle che la divisa la portarono sul fronte Greco Albanese nell’anno di guerra del 43. Una lapide li ricorda nella Chieda Madre.
Vollero una statua a Santa Rita alla quale si “rivolsero cercando protezione”. Fecero poi una sezione di “Combattenti e Reduci”, sulla Nazionale, ed anche una lista “Elmetto” – senza fortuna nelle amministrative del dopoguerra – per dare spazio a idee, proposte e concretizzare aspettative. Brolo non diede loro credito.
Tornarono dai Balcani: Rosario Scaffidi Militone, il sottotenente poi insignito di una croce di guerra e della medaglia al valor militare per quanto fatto al fronte, in Africa orientale. Onorificenza spettata anche a Giuseppe Baudo, altro decorato di guerra – una medaglia d’argento ed una via per ricordarlo – come avvenne per un altro sottotenente, Giuseppe Mirenda, morto da eroe sul fronte Russo (anche se molti dicono che sia morto in un campo di concentramento russo, dove, ferito, venne deportato) al quale venne dedicata l’attuale che porta il suo nome, una volta piazza Nasi; al “sergente” Raffaele Addamo che perse anche una gamba.
Tra quei reduci, sulla lapide, spiccano i nomi di Antonino Scaffidi Militone, del brigadiere Carmelo Marino, dei graduati, tra caporali, artiglieri, e soldati di Antonino Ricciardello, Antonino Sapienza, Francesco Scaffidi, Antonino Buttà, Nunzio Lavena, Natale Cipriano, Antonino Catania, Antonino Vizzari, Antonino Maniaci, Salvatore Gentile, Vincenzo Calderaro, Giovanni Scaffidi Mangialardo, Antonino Ricciardello, Francesco Calderaro, Michele Dimunnu, Salvatore Toscano, Salvatore Cardaci, Basilio Caruso, Vittorio Fabbiano, Cono Merenda, Carmelo Giuffrè, Gaetano Mancuso, Rosario Ricciardello, Salvatore Gasparo, Cono Bonina, Francesco Rifici, Teodoro Lo Biondo, Pietro Insana, Pietro Laccoto e Basilio Agnello,
Ma l’elenco di nomi che si allunga.
Brolo ha dato il suo consistente contributo alla “Patria” di sangue e dolore anche nella seconda guerra mondiale. In quell’elenco annoveriamo, sicuri comunque di dimenticarne qualcuno. chi ha avuto onori e medaglie – consegnate alla memoria a figli e nipoti – quando venne inaugurato il monumento ai “Cadute del mare”, voluto dall’amministrazione comunale del tempo, guidata da Basilio Germanà. In quell’elenco c’erano i nomi di Giovanni Giuffrè, Calogera Salvatore Barà, Giuseppe Lacchese, Giuseppe Bruno, Pietro Ceraolo, Francesco Rizzo Ricciardi, Antonino Natoli Timpirino, Nicolò Bongiorno, Carmelo Perdicucci, Francesco Scaffidi Militone, Giuseppe Micalizzi, Salvatore Mendolia e Giovanni Scaffidi Mancialardo.
Età media 23 anni. Tutti eroi senza fanfare.
E ripubblichiamo un estratto dell’articolo dedicato al Sottotenente Giuseppe Mirenda morto sul fronte russo.
Lui era stato anche designato per aver assegnata la medaglia d’oro, per la sua morte eroica, ma poi il provvedimento venne declassato e ricevette, alle memoria, la medaglia d’argento (a Brolo altre onorificenze militari spettarono a tanti come a Giuseppe Baudo, medaglia d’argento ed Saro Scaffidi Militone medaglia di bronzo).
Mirenda faceva parte del XIV battaglione ed era il comandante del plotone dei guastatori posto a difesa di un importante e stategica posizione sul fronte russo.
Benché attaccato “da soverchianti forze nemiche – si legge nell’atto di consegna dell’onorificenza – riusciva a tenerle in scacco per molte ore.
Accerchiato continuava a battersi con estremo vigore quindi contr’assaltava audacemente l’avversario riuscendo a aprirsi un varco.
Caduto presso di lui il fiammere impugnava agli stesso il lanciafiamme e alla testa dei suoi valorosi infliggeva gravi perdite al nemico finchè colpito mortalmente cadeva sul campo della strenua lotta.
Caposaldo n.4 fronte russo 15 dicembre 1942”.
– Decreto 7 agosto 1948 registrato alla Corte dei Conti il 27 agosto 1948 Esercito registro 18 foglio 330 Ricompense al Valor Militare – Conferimento Medaglia d’argento al Valor Militare alla memoria al sottotenente Mirenda Giuseppe da Brolo (Messina) –
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Reperire fonti e foto per ricostruire pezzi di storia di Brolo non è sempre facile.
Così se si vuole collaborare ad integrare quest’articolo con nomi mancanti o dire altro sulla storia di Brolo, la redazione accoglierà ogni proposta, suggerimento e commento.
redazione@scomunicando.it
Per la storia.
RICORDARE I 65.000 SOLDATI SICILIANI MORTI NEL CORSO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE. E CHIEDERE PER LORO VERITA’ E GIUSTIZIA.
Il Governo italiano, guidato da Vittorio Emanuele Orlando, potè – alla fine dei combattimenti – partecipare alla Conferenza di Pace dei Paesi vincitori proprio grazie all’impressionante numero dei Caduti delle Forze Armate del Regno d’Italia: 600.000. Ma non fu evidenziato un altro “fatto” altrettanto “impressionante”.
E cioè che i Siciliani Caduti furono ben 65.000. La Sicilia, cioè, fu fra le Regioni italiane, quella che ebbe, in assoluto ed in proporzione, il maggior numero di morti in guerra.
Nonostante fosse la “Regione” più lontana dal “FRONTE” e dalla pur vasta area nella quale erano avvenute le maggiori operazioni belliche.
E ciò vale anche per le battaglie navali. La Sicilia non ne era stata affatto coinvolta.
In poche parole: la Sicilia, in quella circostanza, non fu, come territorio, investita dagli eventi bellici veri e propri, se non per le conseguenze negative dei disagi e dei costi della Guerra. Ma fu condannata a dare un altissimo contributo in termini di sangue e di soldati caduti, perché mandati spesso incontro a sicura morte.
Si usava, allora, un’espressione orribile: come CARNE DI CANNONE.
Come numero di morti, i Siciliani erano seguiti dai Sardi e dai Meridionali.
Non aggiungiamo altri dettagli perché i numeri parlano da soli.
Le “COLONIE INTERNE” del Regno d’Italia – che dalle conseguenze negative della Guerra sarebbero state ulteriormente danneggiate, – avevano subìto le più grosse perdite di vite umane.
Le Regioni del Nord, invece, pur avendo avuto i loro disagi, uscivano dalle vicende belliche ulteriormente avvantaggiate.
Ed anche ulteriormente arricchite ….. in tutti i sensi. Soprattutto in termini di industrie, di produttività e delle forniture di guerra effettuate.
Le truppe siciliane vennero falcidiate soprattutto nel 1916 (1.402 caduti)
Quelli che tra il 1915 e il 1918 erano compresi nelle fasce d’età dai venti ai ventinove anni, e cioè i nati tra il 1886 e il 1898, rappresentarono oltre il 70% dei caduti (più di 30.000).
A pagare con la vita tra i “ragazzi del ‘99” furono 1.492 e 548 tra i nati nei primi mesi del 1900 che fecero in tempo ad essere arruolati.
Il 93,6% (41.714) dei caduti erano soldati semplici, il 2,1% (959) sottouffciali e il 4% (1.824) uffciali.
L’alto numero di ufficiali caduti (una percentuale apparentemente bassa ma in realtà consistente rispetto al numero totale degli uffciali) si spiega ricordando che essi, soprattutto capitani e tenenti, erano in prima lineaa negli assalti e quindi tra i primi a essere falciati dalle mitragliatrici nemiche. Durante la prima guerra mondiale il territorio siciliano era suddiviso in sette province (non erano state ancora istituite quelle di Enna e Ragusa). Le macroaree in cui erano divisi i caduti presenti nell’Albo d’Oro erano tre: Caltanissetta, Girgenti (Agrigento) e Siracusa; Catania e Messina; Palermo e Trapani. Non tutti i caduti erano nati in Sicilia. Alcuni erano siciliani emigrati negli Stati Uniti oppure nelle colonie italiane come la Libia, iscritti ai distretti militari dell’isola e quindi chiamati alle armi allo scoppio della guerra. Altri erano arruolati addirittura nell’esercito americano.
Analizzando il numero dei caduti siciliani per provincia spiccano quelle di Palermo (8.847), Siracusa (8.830) e Catania (7.565). Le stesse proporzioni emergono se analizziamo il numero dei caduti rispetto alla popolazione delle singole province in base al censimento del 1911.
Agli ultimi posti si collocavano Girgenti (4.201) e Caltanissetta (3.878). In queste due province si ebbe, infatti, un maggior numero di esenzioni legate alla pre-senza di numerose miniere di zolfo che davano lavoro a migliaia di lavoratori ritenuti indispensabili per lo sforzo bellico. Per Palermo, Catania e Siracusa l’anno più sanguinoso fu il 1917 (2.826, 2.168 e 2.527 caduti), per Trapani e per Messina il 1918 (1.391 e 1.971 caduti). Tra i caduti siciliani, i decorati al valore militare furono in tutto 1.478: 19 con medaglia d’oro, 895 con medaglia d’argento e 562 con quella di bronzo. Il maggior numero di decorati si con-centrava nella provincia di Palermo con 8 medaglie d’oro, 239 d’argento e 136 di bronzo. Seguivano la provincia di Siracusa con una medaglia d’oro, 173 d’argento e 108 di bronzo; Catania con una medaglia d’oro, 135 d’argento e 78 di bronzo
Il primo dato che colpisce nella analisi dei lunghi elenchi dei caduti è appunto la frequenza con la quale compare la preposizione “di” al posto del “fu” nella indicazione della paternità.
L’altissimo numero di morti per ciascuna comunità, grande e piccola, comportava la necessità di una elaborazione collettiva del lutto. In ogni più piccolo centro urbano e rurale c’erano state decine di caduti. Nelle città più grandi erano state centinaia o migliaia. Quasi ogni famiglia era stata pesantemente segnata dal conflitto attraverso la morte, la mutilazione, il ferimento (psico o psicologico) di un padre, un marito, un figlio, un fratello, un fidanzato, un compagno di studi o di lavoro, un congiunto vicino o lontano. Anche chi ebbe la fortuna di ritornare sano e salvo portava con sé le terribili esperienze della morte dei compagni, dello strazio e della carneficina del fronte, delle terribili condizioni di vita nelle trincee, delle decimazioni e delle esecuzioni sommarie dei disertori, della follia.Non si trattava più di un lutto privato ma di un lutto pubblico e condiviso che come tale doveva essere gestito. Fu così che in ogni comune cominciarono a fiorire iniziative, progetti, sottoscrizioni per la realizzazione di lapidi, cippi, parchi, soprattutto, monumenti commemorativi.
Cosa fu la Grande Guerra per la Sicilia?
Cosa furono quegli anni terribili per un isola sempre baciata dal sole, sempre accesa di colori, intrisa del rosso e giallo della bandiera aragonese?
Una terra così distante, solo per fare un esempio, dal pallore desolante del Carso, bianco di neve e bianco di pietre.
Una morfologia sepolcrale, assai lontana dal brulicante mondo contadino, anzi bracciantile, che rispose alla chiamata nazionale alle armi, nei mesi che precedettero il maggio 1915.
E’ diffusa la convinzione che gran parte dei siciliani, esclusi gli studenti universitari e coloro vicini ai circoli intellettuali e politici cittadini, andarono incontro alla morte senza una piena coscienza della causa nazionale. L’analfabetismo, con una percentuale vicina al 70% della popolazione, ha spesso suffragato la tesi della non consapevolezza dell’estremo dovere che andavano a compiere. Persino l’accesa spiritualità meridionale è stata citata come spiegazione alla cristiana rassegnazione con cui i siciliani, ed i meridionali in generale, patirono il supplizio della guerra, dandosi come unica spiegazione per quel tormento, una spiegazione di tipo mistico. Una sorta di castigo divino di cui non si comprendevano bene le cause ma che andava sopportato. Tuttavia oggi appare un paradosso affermare che la regione che ha fatto registrare in assoluto il contributo più alto in termini di vite sia quella in cui fossero meno chiare le motivazioni stesse del sacrificio. Poteva non esistere una chiara nozione geografica del Trentino o del Friuli ma le testimonianze, le lettere ed i resoconti storici testimoniano che giovani e meno giovani siciliani mandati al fronte, maturarono ben presto l’idea che si combatteva insieme ad altri fratelli di ogni parte d’Italia per completare quel processo risorgimentale di cui andava parlando il primo ministro Antonio Salandra. Non occorre dire che molti dei nostri uomini si trovarono costretti a combattere solo perché la diserzione e l’imboscamento erano puniti con pene severissime ed i plotoni di esecuzione erano operanti a pieno regime. Ma il fatto che la guerra fosse dai più affrontata con pieno senso del dovere è un dato acquisito e va ribadito a giusta memoria di coloro che non tornarono più alle loro case. In questa maturazione si rivelò essenziale l’istituzione di Case del soldato miranti all’educazione e all’istruzione dei più umili e meno istruiti nonché di Teatri al fronte con commedie e drammi a fini didattici e ovviamente propagandistici. Da segnalare anche la creazione di Scuole reggimentali per analfabeti.
Sgomberato il campo da dubbi sulla percezione che i fanti siciliani ebbero della guerra, occorre adesso affrontare il punto dolente del trattamento loro riservato nel conflitto e quanto il problema della provenienza e il fatto di sentirsi italiani fu sollevato dalle gerarchie militari, piuttosto che dai siciliani stessi. E’ ampiamente documentato il trattamento bestiale riservato ai fanticontadini, stipati in vagoni merci, sorvegliati a vista dai carabinieri e trasportati in queste condizioni per centinaia di chilometri, fino alla zona del fronte.
Come s’è detto, la Sicilia diede il più alto contributo di vite con circa 44.000 dei suoi ragazzi ammazzati e chissà quanti morti dopo il ’18 per TBC contratta in zona di guerra. Ebbene sì, più di piemontesi, veneti o lombardi. Morti che dimostrano come gli stati maggiori attinsero senza troppi scrupoli al serbatoio di vite isolano e anzi se c’è un popolo a cui può essere attribuito quella triste definizione di “carne da cannone”, questo è quello siciliano. Enorme poi il numero di siciliani mobilitati. Qualcosa come 750.000 uomini, moltissimi da riformare per costituzione e stato di salute ma ritenuti dalle commissioni sanitarie comunque abili alla guerra.
La Sicilia può dunque vantare molti crediti dal primo conflitto mondiale e lentamente la storiografia sta riportando alla luce tutto quello che non è stato riconosciuto e pagato. Tuttavia, non cadiamo nell’errore di credere che se un sacrificio così enorme vi fu, le sue proporzioni dipesero dal fatto che un combattente siciliano (e con esso quello calabro), fosse meno valido o disprezzabile rispetto ad un soldato di altra provenienza e per questo idoneo ad essere macellato per primo. Cioè le cifre siciliane da un lato denunciano senz’altro le decisioni scellerate dei comandi, causa del primato di morti, ma dall’altro indicano come venne profondamente assorbita fino in fondo l’idea di dovere e di autorità. Fin troppo forse e anche di fronte a palesi ingiustizie .
Alcuni numeri vengono forniti da Arrigo Serpieri in La guerra e le classi rurali italiane. Sappiamo così che sui circa 163.000 esonerati nel settore dell’agricoltura solo 29.875 provenivano da meridione ed isole, proprio quelle terre la cui economia era sostenuta essenzialmente dal lavoro nei campi. Non possiedo numeri precisi sugli esonerati esclusivamente siciliani, ma già il numero complessivo di esoneri, riferito a più regioni della bassa penisola, risulta irrisorio se rapportato agli uomini mobilitati nella sola Sicilia. Se assai moderata fu l’attribuzione di esoneri agricoli, addirittura misera la concessione di licenze. Queste potevano essere richieste per svariati motivi: la malattia o la morte di un parente, la nascita di un figlio, la raccolta nei campi (le cosiddette licenze agricole non sono da confondere con gli esoneri agrari). Anche in questi casi l’atteggiamento delle autorità militari fu insensibile. Il timore era che data la distanza dal fronte, dopo il periodo di licenza a casa, dopo aver riabbracciato i propri affetti , molti soldati semplicemente dimenticassero l’obbligo di tornare ad imbracciare il fucile. In alcuni casi fu poi del tutto negata ai soldati siciliani la possibilità di licenza e questo ci porta ad un episodio assai infelice : la decimazione della Brigata Catanzaro. Brevemente dirò che questa brigata vide la fucilazione di 16 dei suoi uomini per una rivolta scoppiata la notte del 15 luglio 1917. All’origine dei fatti, l’ordine di tornare in prima linea, sul Carso, dopo neppure un mese di riposo. La Brigata era composta da molti soldati siciliani (6 i siciliani fucilati a seguito della citata rivolta), i quali si videro sospese le licenze perché secondo le statistiche ed i dati del Comando Supremo era proprio la Sicilia ad avere il maggior numero di renitenti e disertori. Osservazione che al solito non teneva proporzionalmente conto di quante baionette aveva fornito l’isola del sole, né che la prolungata assenza di uomini a capo di famiglie numerose, complicata dalla mancata concessione di licenze agricole, impediva di mettere un piatto a tavola e garantire i più elementari bisogni di sussistenza di coloro che ne aspettavano il ritorno.
La guerra si manifestò ai siciliani non solo attraverso la fame, bestia nera di donne,bambini ed anziani, ma anche attraverso scenari non diversi da quelli delle zone di scontro diretto. Si tratta di situazioni poco note, cuì farò rapido accenno per evitare di dilungarmi troppo, riservandomi la possibilità di approfondire i casi più notevoli.
Il primo riguarda i profughi friulani che dopo Caporetto trovarono accoglienza in migliaia in Sicilia. Circa trecento furono ospitati a Giarre (CT) e presso il comune una targa ricorda l’evento e sancisce il gemellaggio tra il comune etneo e Cismon del Grappa (VI), da dove provenivano gli sfollati.
Poco o nulla noto è poi la presenza di prigionieri austroungarici, detenuti in appositi campi di lavoro sparsi per l’isola. Il più grande fu quello di Vittoria (RG) in grado di contenere fino a 5.000 prigionieri e per il quale pare ne siano passati oltre 18.000. Per i 118 ungheresi che vi morirono, a guerra conclusa fu eretto un monumento ossario, ad oggi perfettamente conservato.
Ultimo aspetto del conflitto da menzionare, riguarda la presenza di fortificazioni nei punti strategicamente sensibili della costa siciliana ed in pericolo di cannoneggiamenti dal mare. Lo stretto di Messina fu considerato zona di guerra e per tale ragione fu rafforzato il personale militare a presidio delle fortificazioni che su di esso si affacciavano. Curiosità: qui prestò servizio durante la guerra, come goniometrista artigliere il socialista Giacomo Matteotti.
Dall’altro lato della Sicilia invece va ricordata una vera e propria azione di guerra. Il 31 gennaio del 1918 un sommergibile tedesco, dopo aver attraversato le acque mediterranee, prese a colpi di cannone la fabbrica chimica Arenella di Palermo, dove si producevano disinfettanti e forse anche gas letali, largamente impiegati al fronte. Il bilancio finale fu di dieci morti tra gli operai.
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