Un De Gregori nel pieno delle sue forze, ricco di energia e di inventiva, torna sul palcoscenico con quello che sembra essere uno dei suoi migliori album degli ultimi tempi.
È stato d’obbligo quindi dare un assaggio di questa sua ultima fatica al pubblico, al quale ha proposto subito tre canzoni-novità direttamente dal suo ventesimo disco, a cui la stessa canzone dà il nome, pubblicato il 20 novembre 2012.
Tocca dunque a “Passo d’uomo” e a “Belle époque”.
I presenti indubbiamente apprezzano il “nuovo”, ma anche in questo De Gregori dà prova di conoscere il pubblico e di essere avvezzo ai suoi gusti: non si fanno dunque attendere le sue canzoni più amate, le attesissime di ogni concerto, ed è un susseguirsi di applausi ed entusiasmo sempre crescente quello che si percepisce dalle poltrone del Palazzo della Cultura, mentre l’artista si cimenta nei successi di una vita.
Quindi è il momento di “Titanic”, della sempre apprezzata “Viva l’Italia” e poi subito a seguire “Tempo reale”, che suona quasi come un rimprovero in relazione alla precedente: ci ricorda che il nostro paese non è solo l’Italia liberata, che non ha paura, ma anche “paese di pecore e pescecani”, in cui dentro le stanze del Potere si squaglia il ritratto della Verità, “paese di uomini tutti d’un pezzo, che tutti hanno un prezzo, e niente c’ha valore”.
E ancora si susseguono “Generale” e “Il panorama di Betlemme”, entrambe con perno sul tema della guerra, quest’ultima impreziosita da uno struggente violino elettrico, strumento perfetto per far vibrare le corde più profonde dell’animo dello spettatore, in questa ed altre canzoni, e “Atlantide”, “Compagni di viaggio”, “Bellamore” e “Battere e levare” .
Abbiamo avuto tempo sufficiente per imparare. / E poi lo sai che non vuol dire niente dimenticare. / E tu lo sai che io lo so, e quello che non so lo so cantare.
E’ finalmente il momento dell’amatissima “La storia siamo noi”, quella stessa storia in cui si ha tutto da vincere e tutto da perdere, che dà i brividi perché nessuno la può fermare, ma anche di “Santa Lucia”, “Un guanto” e “Bambini venite Parvulos!”, “Finestre rotte” e “Vai in Africa, Celestino”, con i suoi pezzi di stella e costellazioni, di amore eterno, di stagioni, ceramica e vetro, di occhi che si guardano indietro.
Ancora un assaggio di nuovo con “Showtime” e subito un ulteriore ritorno al “classico che non muore mai” de “La donna cannone”, in cui è d’obbligo la partecipazione entusiasta con l’accompagnamento del cantante dal posto: serpeggia il brivido d’emozione legato all’intramontabile d’oro e d’argento.
Dopo “Buonanotte fiorellino”, De Gregori incontra ancora una volta l’approvazione del pubblico anche con una magistrale interpretazione di “Can’t help falling in love with you”, pezzo musicale scritto da George Weiss, Hugo Peretti e Luigi Creatore, originariamente cantato da Elvis Presley, ma già celebre cover di artisti del calibro di Bob Dylan, Bruce Springsteen, Andrea Bocelli, degli U2 e dei The Who.
Splendido modo per accompagnarci verso la fine di un grande evento, chiuso definitivamente dall’ormai celeberrima e attesissima “Rimmel”, che racchiude la cifra del grande artista.
Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo / e la mia faccia sovrapporla a quella di chissà chi altro. / I tuoi quattro assi, bada bene, di un colore solo / li puoi nascondere o giocare come vuoi 7 o farli rimanere buoni amici come noi.
Santa voglia di vivere e dolce Venere di Rimmel.
Di poche parole, come sempre, De Gregori: un saluto all’inizio e uno alla fine, poche parole con cui presenta gli artisti e brevissimi gli interventi.
Ma se ci si ferma a riflettere, si scorge la peculiarità di questo grande cantautore italiano, motivo per cui, dopo tanti anni, sembra ancora lontano dal tramonto artistico e può vantare una ricca schiera di ammiratori, appartenenti alle generazioni più disparate.
Le canzoni di De Gregori, le sue “storie”, spesso apparentemente criptiche, sono più insiemi di dettagli, quasi più delle visioni che degli episodi concreti, inquadrati e presentati al pubblico.
Questa evanescenza, quasi onirica, in cui l’ascoltatore può immaginare e proiettare tutto un suo insieme di elementi non descritti dal cantante, ma non per questo esclusi, rende le più celebri canzoni dell’artista assimilabili a degli scenari perfettamente realizzati, ricchi di luci, di aromi e situazioni, ma allo stesso tempo libere, sconfinate, pronte a non limitarsi al testo, a ciò che è stato cantato, ma generose nel poter ospitare altrettante situazioni, assegnate da chiunque si trovi a contatto con questi “sogni in note”.
E con le mani amore, / per le mani ti prenderò / e senza dire parole nel mio cuore ti porterò / e non avrò paura se non sarò bella come vuoi tu, / ma voleremo in cielo in carne ed ossa, / non torneremo più.
Luca Scaffidi Militone