I funerali lunedì a Roma. Aveva 93 anni, è stato al Quirinale dal 1992 al 1999 e parlamentare per l’intera storia repubblicana
La notizia del decesso è stata diffusa inizialmente via Twitter.
L’IPOCRISIA MISOGINA AL QUIRINALE
di Tito Arnaudi
Il Presidente ‘galantuomo’ del ‘Non ci sto!’. Da arbitro in terra del bene e del male (ruolo che ricoprì con puntiglioso zelo nelle aule di un tribunale novarese), ai benefit incassati e targati SISDE.
Tradizione vuole che al popolo italiano qualche entità misteriosa e potente abbia sempre voluto fare credere che il Presidente della Repubblica fosse un incarico sì nobile, ma di mera rappresentanza e sostanzialmente notarile.
Insomma, di non poco conto.
Quando fu redatta la Costituzione per la Repubblica, nata sulle rovine di una guerra tragicamente persa, l’analfabetismo ‘politico’ di massa era ancora troppo diffuso; ragion per cui i ‘padri costituenti’decisero che fosse più prudente non fidarsi troppo del voto dei cittadini, ai quali fu appunto concessa una sovranità limitata. Questa soluzione garantì ai soli membri del Parlamento l’onere e l’onore di eleggere il Capo dello Stato (si dovettero attendere 20 anni per concedere tale privilegio anche ai rappresentanti delle Regioni).
Detto questo, fino a quando i partiti mantennero compattezza e forza, il ruolo di Presidente venne ricoperto – come Costituzione vuole – con una certa discrezione, o meglio, con un necessario ed apparentemente sobrio distacco dalla bagarre politica.
Tale frangente durò fino agli anni Ottanta, quando con l’ascesa del socialista populista Sandro Pertini qualcosa iniziò a cambiare, e in peggio.
La costante intromissione nelle questioni politiche esercitata dal Presidente ‘partigiano’ (come ci rammenta in una sua canzonetta nazional-populista-buonista il cantautore Toto Cotugno) e il suo presenzialismo teatrale e demagogico del Presidente (ricordiamo lo show di ‘nonno’ Pertini in occasione della tragedia cunicolare di Vermicino del giugno 1981), iniziarono a fare meditare i più accorti.
Alcune forze politiche (dal MSI di Giorgio Almirante al PSI di Bettino Craxi) avvertirono la necessità di un cambiamento, e nei loro programmi si iniziò a parlare dell’opportunità di un’elezione diretta del Capo dello Stato.
Successivamente, la presidenza di Francesco Cossiga si incanalò, almeno in un primo tempo, lungo il solco tradizionale, salvo poi esplodere, nell’ultimo periodo, nelle famose ‘esternazioni’, tanto da indurre l’estrema sinistra a richiedere addirittura l’impeachment e comunque a costringere il Presidente sardo a dare le dimissioni a sei mesi dalla scadenza del suo mandato.
Una decisione che, buona o cattiva che fosse, mise il Parlamento e il Paese in seria difficoltà.
Poi, la ‘bomba’ che a Palermo fece a pezzi il Procuratore antimafia Giovanni Falcone fece il resto, dando uno scrollone al Parlamento e aprendo la strada del Quirinale ad Oscar Luigi Scalfaro, leguleio democristiano dal passato, come vedremo, piuttosto imbarazzante.
Sulle prime, si disse che Scalfaro era di certo un galantuomo, anzi, un ‘quasi santo’.
Stravagante giudizio visti i suoi trascorsi più che discutibili (in un’afosa serata degli anni Cinquanta, in un ristorante romano, il pensoso ed integerrimo Oscar pensò bene di schiaffeggiare una signora che si era concessa una modesta scollatura d’abito. La biografia di Oscar Luigi Scalfaro meriterebbe un libro. Essa ebbe inizio non con reprimende nei confronti di scollature femminili bensì con ben otto condanne a morte comminate dal Nostro allorquando, nel 1945, vestiva la toga da magistrato in quel di Novara.
Era il tempo della ‘liberazione’, ma anche quello delle supreme vendette, ed il ‘galantuomo’ Oscar non si sottrasse nel dispensare, sempre con elevato spirito cattolico, ovviamente, ‘giuste condanne ai biechi fascisti d’Italia’. Sette delle sue condanne furono eseguite e, soltanto per caso, non venne portata a compimento l’ottava.
Giunto a Roma, sull’onda delle condanne di morte ottenute e, senza mai togliersi la toga e rinunciare alle relative prebende, il giovane Saint Just novarese – prima in veste di deputato della Costituente e poi del Parlamento fece rapida carriera, fino a garantirsi l’elezione alle più alte cariche, come quella di ministro degli Interni, con il governo Craxi, quella di Presidente della Camera ed infine di Presidente della Repubblica.
Il suo settennato rappresentò – per disgrazia del nostro Paese – il consolidamento del potere presidenziale, non, ovviamente, su mandato popolare, ma su quello di pochi.
Scalfaro fu astuto e determinante nel ‘fare politica’ all’ombra del Quirinale, e non si sarebbe potuto comportare diversamente dati i suoi trascorsi di magistrato e la sua ormai lunga esperienza politica e parlamentare maturata nel partito di maggioranza, seppur relativa, del Paese.
La sua dirittura morale non gli consentì forse amicizie sincere e riconoscenze particolari, ma il suo credo politico gli permise di compiere nefandezze e giravolte da brivido.
Dimenticati i molti favori ricevuti da Craxi (rammentiamo quei 100 milioni mensili del SISDE di cui beneficiò quando era stato agli Interni, e di cui non volle mai rendere conto agli italiani con la famosa frase “non ci sto!”), prese a dare mazzate all’ormai compromesso e agonizzante Partito Socialista e, soprattutto, ad opporsi con forza al volere del popolo.
Allorquando, con il referendum Giannini Segni, gli italiani si espressero a larghissima maggioranza per il maggioritario secco, Oscar permise l’introduzione del 25 % di proporzionale per salvaguardare la ‘casta’ politica alla quale apparteneva, ed ingabbiò l’informazione elettorale suggerendo la famosa par condicio : trappola tesa all’odiatissimo Silvio Berlusconi, gettatosi nell’arena politica, e alle sue emittenti.
La successiva vittoria elettorale di Berlusconi (che fece a pezzi la ‘gioiosa macchina da guerra’ del povero Achille Occhetto) fece cadere in depressione l’Oscar nazionale che, tuttavia, restò bene aggrappato alla sua poltrona. Si sa: si deve sempre tenere duro se si nutrono sacri principi, come quello di ordire trame sotterranee ai danni del lecito vincitore delle elezioni.
Nel 1999, terminato il suo settennato, l’ormai inossidabile, ma mai domo Oscar Luigi Scalfaro non smise tuttavia di brigare nelle ombrose sale del Senato, fino a riuscire a fare affossare il referendum sulla sacrosanta e necessaria proposta di riforma costituzionale, che prevedeva, tra le altre cose, la riduzione di deputati e senatori.
Poi, soddisfatto dei disastri compiuti, iniziò ad appisolarsi sui suoi ricordi, rimpiangendo i fasti della prima Repubblica, e soprattutto i benefici che quest’ultima gli elargì con tanta generosità.