L’occasione, ieri, martedì 23 novembre, è stato il passaggio di Mariella, la battagliera ed indomita mogliedel grande campione bianconero
La Signora Mariella è in Sicilia ufficialmente per inaugurare un campo di calcio dedicato al marito, e rilanciare i club juventini.
Per la cronaca lo stadio in questione è quello di Santa Lucia del Mela, nel messinese.
A Brolo l’arrivo della signora Scirea è stata festa grande, festa del sport.
A fare gli onori di casa il locale Club Juventus, intitolato a Gandolfo Mascellino e diretto dal figlio Giovanni.
C’era l’amministrazione comunale, guidata da Salvo Messina, gli assessori Carmelo Gentile ed Enzo Di Luca.
C’erano pezzi della dirigenza regionale del sport isolano, insieme a Lillo Rizza, coordinatore regionale del Club Doc bianconeri ed al Responsabile Nazionale del centro di coordinamento dei club Ezio Morina.
C’erano vecchie glorie del calcio locale e nebroideo, i Club “avversari”, qui venuti per onorare un “campione”, ma soprattutto c’era l’essenza dello sport e della sportività.
In quel “lavoriamo per avere meno campioni e più uomini in campo e nella vita”, quasi uno slogan, più volte ribadito nelle parole dei vari sportivi che hanno voluto “testimoniare” all’evento, c’era una lezione di vita e di coerenza, che ricordava l’uomo Scirea, e dava tanta lezione di vita a tanti.
La mattinata si è avviata con un video che ricordava immagini storiche del campione, di Gaetano Scirea, l’inventore del “Fair Play” , e l’emozione è salita a mille.
Poi i saluti, i discorsi, semplici, essenziali, ricchi di contenuti, e le parole di lei, Mariella, presidente onoraria degli Juventus Club Doc italiani, che ha fatto della memoria del marito oltre ad una ragione di vita un impegno sociale e sportivo.
Il Sindaco di Brolo l’ha omaggiata con una targa commemorativa.
Comunicato Stampa
RICORDANDO GAETANO SCIREA
da http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2008/05/gaetano-scirea.html
«Tra i liberi più forti del mondo, assolve il suo ruolo con assoluta naturalezza, in punta di piedi, concedendo poco allo spettacolo e meno ancora alla gloria personale».
«Nessuno è stato grande come Scirea, perché gli altri, compresi i sommi Beckenbauer e Baresi, erano difensori che avanzavano, lui era difensore in difesa, centrocampista vero a centrocampo, attaccante vero in attacco. Era unico».
Potrebbero essere alcuni brevi profili di Gaetano Scirea, nato a Cernusco sul Naviglio il 25 maggio 1953. Scirea comincia la sua strada di calciatore nel ruolo di punta, anzi, di centrattacco. Infatti, è la maglia numero nove che gli viene fatta indossare quando, a 14 anni, dopo aver giocato sempre nel ruolo di attaccante nei ragazzi della squadra del San Pio X, firma il primo cartellino per i colori dell’Atalanta. Approda a Bergamo, dopo una corte serrata fattagli dal Como e dal Varese e viene inserito nella squadra giovanile, per passare agli allievi prima di B e, poi, di A, quindi alla “Primavera”. Ala destra, mezzala, centravanti; segna tanti goals e si destreggia con astuzia ed intelligenza.
Ma, con le concezioni del calcio totale, anche se gli avanti se la cavano bene nel ruolo di mezzali, devono assimilare i movimenti del centrocampista. Nella “Primavera” atalantina, più di una volta gli capita di giocare arretrato, in fase di interdizione e di appoggio. E, parecchie volte, si trova nella necessità di andare a coprire gli spazi fra i terzini, quando qualcuno di questi avanza sulla fascia e lo costringe a prendere in consegna l’attaccante avversario liberato dal movimento del compagno.
Il tecnico è Ilario Castagner che, capite al volo le attitudini del giovane, lo schiera da libero. Diventa titolare e, con Castagner prima e con Rota poi, matura sempre meglio, assimilando esperienza ed applicando agli avversari, in senso contrario, quei concetti che lui ha espletato nel ruolo di attaccante.
Nel 1972 il debutto in prima squadra, al posto dell’infortunato Savoia e Scirea finisce per giocare 20 partite. Come libero, viene schierato solamente 5 volte; le altre un po’ da mezzala ed un po’ da mediano.
Tra i tanti osservatori, c’è Romolo Bazzotto; il suggerimento di tenere Scirea sotto osservazione pare sia partito dall’ex bianconero Bonci. Fatto sta che qualcuno lo dice a Gaetano ma lui, timido e semplice, pur guardando alla Juventus con occhio languido, non riesce a crederci. Invece, a fine maggio del 1974, tornando a casa da un allenamento, viene raggiunto da una telefonata:
«Guarda che sei della Juventus».
Lui pensa ad uno scherzo ma, arrivato a casa trova l’intera famiglia in agitazione. Fu una festa, e ci scappò anche il brindisi, confessa lui ancora emozionato al ricordo. Poi le visite, la conferma, l’appuntamento al ritiro del 29 luglio.
«Mi ricordo che non volevo scendere dalla macchina sulla quale mio fratello mi aveva accompagnato».
Ed il fratello dovette quasi tirarlo giù di peso. A Villar Perosa viene messo in camera nientemeno che con Bettega. È troppo per un ragazzo semplice, ma con i piedi per terra come Scirea.
L’ingresso in squadra, dopo la preparazione lo ricorda con sofferenza:
«La prima partita in coppa Uefa, mi faccio male alla caviglia. Così, appena cominciato, sono stato costretto a fermarmi per due partite in campionato».
Ma, pagato quello scotto, Scirea gioca ben 89 partite consecutive, partecipando alle emozioni ed alle gioie degli scudetti più brillanti, quello dei 51 punti ed alla conquista della Coppa Uefa. E, ad ogni partita, l’impegno per essere sempre all’altezza della situazione.
«Giocare libero è un impegno continuo. Devi controllare tutti e nessuno. Devi possedere un intuito eccezionale. Capire quando il terzino parte avanti e prendere subito in consegna l’attaccante che resta incustodito, tenendo ben presente lo spazio dal quale possono venirti le sorprese del contropiede. Poi, quando intervieni, devi cercare non solo di liberare l’area, ma appoggiare il gioco in maniera da far ripartire i tuoi; semplice da dire, ma provate a farlo, quando il gioco è veloce e tutti sono in condizione di metterti in difficoltà».
Ma, per lui, nulla sembra essere eccezionale, dal momento che ha imparato a misurare con il metro del buonsenso ogni fatto della vita, da quella intima di casa, a quella professionale di giocatore di calcio.
«Così riesco a far durare di più il piacere delle cose buone e ben fatte e tengo sempre davanti alla mente che, se rifletto un pochino di più sugli errori, posso evitare di ricadervi».
Quattordici anni di Juventus. Una scelta di vita che lui commenta così:
«Certo che avrei potuto anch’io, con l’arrivo dello svincolo, spuntare contratti faraonici, ma di squadre come questa ce n’è una sola. Ed io preferisco concludere la mia carriera alla Juventus. Senza fretta, però, ho il conforto dell’esempio di Zoff, un uomo che mi ha insegnato a non guardare indietro».
Ha vinto tutto: 7 scudetti, 2 Coppe Italia, Supercoppa, Coppa Intercontinentale, Coppa dei Campioni, Coppa Uefa e Coppa delle Coppe, senza dimenticare il Mundial spagnolo. Ha sempre giurato di divertirsi troppo in campo, ogni partita è un avvenimento che lo affascina, aver tagliato tutti i traguardi possibili non l’ha mai accontentato.
Alla Juventus deve sostituire Salvadore.
«Provavo tanta gioia ma spesso scendevo in campo con le gambe che tremavano», ricorda, «mi ha aiutato la squadra vincendo lo scudetto, il mio inserimento non poteva coincidere con miglior risultato».
Il 1976-77 è forse la stagione più esaltante della Juventus ultimo decennio: quella dello scudetto dei 51 punti e del primo grande successo europeo, la Coppa Uefa.
«Era la Juventus che dava sette od otto giocatori alla Nazionale. Una Juventus splendida, costruita da Boniperti pezzo su pezzo, da grande intenditore».
La Juventus che ha consegnato a Bearzot la nazionale d’Argentina.
«Per due volte ha capito che nel calcio non si finisce mai di imparare. È stato quando, dopo aver vinto lo scudetto con Parola, l’anno successivo, a sette giornate dalla fine, con cinque punti di vantaggio rispetto al Torino la squadra perse tre partite di seguito e consegnò il titolo ai cugini granata. E, più grande di tutte, la delusione di Atene, la Juventus più bella, quella che era giunta in finale dominando squadroni come Widzew Lodz, Aston Villa e Standard Liegi».
La Juventus gli ha dato molto, gli ha spalancato le porte della Nazionale.
«Ma è facile arrivare a certi livelli, il difficile è restarci», raccomanda sempre Scirea. E non dimenticherà mai che insieme a lui, in Nazionale, cominciò Rocca:
«Ecco, lui è il caso sfortunato, quello che dimostra come sia tutto così aleatorio. In quel momento era una pedina inamovibile, un esempio per me e tanti altri che si affacciavano alla maglia azzurra».
Gaetano Scirea è anche un buon marito, un buon padre, ama il cinema e pratica il tennis, sport preferito dell’estate. La famiglia è la sua «oasi di pace, il rifugio di chi vive nel frastuono del mondo dello spettacolo».
Ogni partita ha una sua fisionomia per cui, al termine di ogni incontro, Scirea si sente in dovere di analizzare, per conto suo, ogni azione giocata.
«E mi critico e mia moglie mi critica ancora di più. Ma, devo dire, che i suoi interventi mi sono di aiuto, perché parla con serenità e la serenità ritrovata in casa, è il miglior sistema per distendersi. Ho sposato una juventina che mi ha portato una famiglia deliziosa.
Ho imparato tante belle cose del Vecchio Piemonte, compreso il culto del vino buono, che ho imparato a fare da mio suocero nel Monferrato. Quando posso aiuto in cantina. Ma mi hanno detto che sono più bravo a fare il calciatore».
«Mio marito», racconta Mariella, «ha una qualità/difetto grossa come una casa, la modestia. Lui dice che, a volte, parlo come un direttore sportivo ma, secondo me, dovrebbe farsi valere di più. È testardo, poi crede di essere preciso, mentre non lo è per niente.
Quante volte Gai, dopo l’allenamento, mi piombava a casa all’ora di pranzo con quattro sconosciuti. Diceva: “Mariella, questi signori hanno fatto centinaia di chilometri per venire a vedere la Juve e ho pensato che dovevano pur mangiare qualcosa”.
Ecco, questo era Gaetano Scirea fuori dal campo».
Ma Scirea rimane soprattutto un calciatore onesto e felice:
«Perché ho amato questo sport fin da piccolo e sono riuscito a fare questo mestiere».
Il destino ce lo ha portato via il 3 settembre 1989, in una strada polacca; nulla è più atroce che morire giovani. Per Mariella e Riccardo, una scatola piena di ricordi e l’esempio di un uomo e di un padre che non potrà mai essere dimenticato.
Il ricordo di Angelo Caroli:
«Addio, campione !!! Gaetano Scirea ci lascia in un mare di stupefatto dolore. Non è tornato dal suo ultimo viaggio di lavoro, una fuggitiva comparsa in Polonia per osservare i prossimi avversari della sua Juventus in Uefa. Un attimo sconvolgente e tragico, un’auto che prende fuoco dopo l’urto con un furgoncino e Gaetano si accomiata per sempre dalla moglie Mariella e dal figlio Riccardo abbandonandoli nell’incredula costernazione. Ed attorno ai parenti si stringono commossi ed affranti il mondo delle sport e la Juventus, la seconda famiglia a cui si era unito, dal 1974, con una dedizione totale.
Nel momento di piangere e celebrare il campione e l’uomo non è possibile trattenere le lacrime. Non c’entra soltanto la professione, il dovere in questo frangente ci spinge a ricordare innanzitutto l’amico. Era il ragazzo della porta accanto, al quale ci si sente istintivamente legati ed al quale si da immediata fiducia, un uomo buono ed accomodante, dolce e docile, onesto ed umile fino al paradosso, nonostante la professione gli avesse costruito attorno una celebrità sconfinata. Non esiste un personaggio amato come lui, al punto che perfino i più accesi rivali municipali oggi lo ricordano con affettuoso rispetto.
Conosciamo Gaetano Scirea nella primavera del 1974. Militava nell’Atalanta. Era stato un incontro del dopopartita, uno scambio di poche parole, si leggeva una misura lucida in ogni sua frase. E Gaetano era come trafitto da indefinibile mestizia, poiché anche davanti all’elogio iperbolico sorrideva appena, con un garbo che aveva il sapore irrecuperabile di uno stile d’altri tempi. Gli dicemmo che aveva disputato un match stupendo.
Abbassò gli occhi, fissando un punta imprecisato del pavimento ed arrossì, come fanno i bambini che vivono negli incantesimi.
Come e facile cadere nella retorica quando si parla di Scirea !!! Ma la verità è che con lui se ne è andato realmente il migliore, nel senso di sintesi di uomo/atleta, Aveva appeso le scarpe al famoso chiodo da un anno ed era rimasto nel cuore dei tifosi, dei critici, degli avversari. La sua sembrava un’eterna sfida al codice di comportamento.
Ed era un esempio per i giovani, i campioni del futuro, i quali non soltanto ne imitavano le delizie stilistiche, ma ne ammiravano ogni tipo di approccio con la professione. Ed è anche per tale motivo che Gaetano riusciva ad incutere rispetto ed ammirazione in tutti.
Un episodio ci è caro ricordare e riguarda i Mondiali svoltisi in Argentina, nel 1978. Mar del Plata, la sede dei primi due turni eliminatori dell’Italia, era fustigata da raffiche di vento gelide, nonostante l’inverno australe non fosse particolarmente rigido, L’Italia aveva appena battuto la Francia e l’Ungheria, in rapida successione.
Gli argentini, che in quanto al calcio hanno palato fino, gli avevano riconosciuto ampi meriti tecnici. Eravamo insieme con Gaetano, seduti al bar dell’hotel che ospitava la comitiva azzurra, nell’ora dell’aperitivo. Gli dicemmo che era un “un libero che giocava con la marsina” e gli chiedemmo se era d’accordo sui fatto che fosse il più forte del mondo nel ruolo. Abbassò gli occhi. come quella volta a
Bergamo, ed ammise:
“È vero, hai ragione”.
Restammo stupefatti, ci saremmo aspettati un atteggiamento diverso, uno schermirsi discreto, come la sua natura gli aveva sempre consigliato. Poi capimmo che Gaetano, serio ed onesto fino all’esasperazione, non poteva mentire a sé stesso. Si era limitato a prendere atto della verità.
Una volta sola lo vedemmo irritato, nella stagione 1986-87.
zoff, dino, La Juventus giocava a Pisa ed alla fine del primo tempo pareggiava dopo aver fallito due clamorose opportunità. Gaetano, seduto in tribuna a due passi da noi, si lasciò scappare, sollevando le braccia al cielo, questa frase:
“Non si possono sbagliare goals così facili”.
Fu questione di un attimo, poi riacquistò lo stile del gentleman ed aggiunse:
“Comunque, vinceremo”.
La sua previsione, dettata da logica e da amore, si rivelò indovinata.
I successi, tutto ciò che calcisticamente era possibile conquistare, lo incoronano atleta inimitabile.
Il comportamento, sui campo e nella vita privata, lo eleggono ad uomo esemplare. Ed oggi, in silenzio, non ci resta che piangerlo con l’animo gonfio di un dolore senza limite».
Franco Causio:
«Arrivò a Torino che era ancora giovanissimo, mentre io ero lì già da anni. Si può dire che l’ho visto crescere: ragazzo, fidanzato, marito, padre modello. Era timido e buono, forse persino troppo. Spesso gli dicevo di reagire, di essere un po’ più cattivo con gli avversari: quella sua serenità mi faceva incavolare. E lui sa che cosa mi rispondeva sempre ???
“Non ci riesco”.
Lo diceva con il sorriso sulle labbra, ed era disarmante. Non l’ho visto una sola volta arrabbiarsi, diceva che non ne valeva la pena ed, a posteriori, devo ammettere che aveva ragione lui. Abbiamo passato insieme i migliori anni della nostra vita, vinto tanto, condiviso gioie bellissime. Quando sono andato via dalla Juve siamo comunque rimasti molto legati. Era impossibile non volergli bene, era impossibile parlare male di lui. Gli volevo molto bene».
Marco Tardelli:
«Era uno dei giocatori più forti del mondo, ma era troppo umile per dirlo od anche solo per pensarlo. Il suo essere silenzioso e riservato forse gli toglieva qualcosa in termini di visibilità, ma certamente gli faceva guadagnare la stima, il rispetto e l’amicizia di tutti, juventini e non.
Questo non significa che fosse un debole o che non avesse niente da dire: al contrario, era dotato di una grande forza interiore e sapeva parlare anche con i suoi silenzi.
Io e lui avevamo caratteri completamente opposti, ma stavamo bene insieme. Una volta venne a trovarmi al mare e giocammo insieme a nascondino. Una cosa strana per dei professionisti di serie A, invece faceva parte del nostro modo di stare insieme e di divertirci in maniera semplice.
Nel calcio d’aggi credo che si sarebbe trovato un po’ spaesato, ma solo a livello personale. Calcisticamente era uno molto competente ed avrebbe saputo rendersi anche autorevole. Diciamo che personaggi con il suo carattere, al giorno d’oggi, nel mondo del calcio non ce ne sono più».
Da “La Stampa”, del 2 settembre 2009:
«Era stata una domenica di fine estate al mare, di quelle che sfrutti al massimo perché sono le ultime e poi arriva la scuola. I bagni, la pizzetta, il gelato, il pallone. Soprattutto il pallone. Ero contento. Quando alla sera mi sedetti con i miei nonni sul divano per vedere alla “Domenica Sportiva” come aveva giocato la Juve, non immaginavo che la mia infanzia era già finita da qualche ora».
Riccardo Scirea è un uomo di trentadue anni. Ne aveva dodici quando conobbe nella maniera più crudele la notizia che gli cambiava la vita: aspetti di guardare i goals del campionato e ti dicono che è morto tuo padre, senza la possibilità che una persona cara ti prepari al colpo.
«Gaetano Scirea è morto in un incidente d’auto in Polonia. L’ho saputo così, dalla televisione. Poi si sforzarono tutti di distrarmi perché non pensassi al dramma ma oramai avevo realizzato che non avrei più visto mio padre e già mi mancava».
Riccardo, l’unico figlio di Gaetano, è rimasto sempre nell’ombra di quella tragedia. Mariella, sua madre, reagì mettendosi sulla scena. La politica, il Parlamento europeo, un po’ di televisione, quel cognome, Scirea, che restava presente nella vita degli italiani che intanto gli dedicavano premi, tornei, impianti sportivi e, a Torino, una curva dello stadio e persino una via nel quartiere di Mirafiori. Lui, Riccardo, continuò discretamente a giocare a pallone nelle giovanili bianconere («un terzino/mediano che non aveva tra le qualità quella di sfondare a tutti i costi»), si laureò, da qualche anno è nello staff tecnico della Juventus: è l’uomo che analizza statisticamente il match, inquadra con i numeri quanti passaggi, tiri, errori, palloni recuperati o persi si sono visti nella partita e ne traccia il bilancio.
«Me lo chiese Ranieri, adesso lo faccio per Ferrara. Ma quest’anno c’è anche la novità che alleno una squadra di “Pulcini” e mi piace moltissimo».
I bambinetti non lo guardano come il figlio del grande Scirea, di cui non sanno nulla.
Però lo sanno genitori ed è come riprendere il filo interrotto venti anni prima quando, all’uscita dall’istituto San Giuseppe, i compagni di scuola e i loro parenti ne approfittavano se Gaetano si presentava all’uscita per accompagnare il figlio a casa.
«Sentivo che mio padre era speciale e ne ero orgoglioso. Solo una volta provai gelosia e fastidio per la sua popolarità. Fu al ritorno dai Mondiali in Spagna.
Andammo al mare in Liguria, a Ceriale, e da tutta la spiaggia venivano ai nostri bagni per un autografo o una fotografia: lui era gentile, non diceva mai di no e non aveva più il tempo per giocare con me che l’avevo aspettato tanto. Passò quattro giorni seduto nella cabina perché non voleva che i vicini di ombrellone fossero disturbati da quell’andirivieni, poi decise che era abbastanza: lasciammo il mare e andammo in campagna».
Il ritratto che ne fa Riccardo è di un padre famoso e tenero.
«Conservo le cartoline che mi spediva dalle trasferte più lunghe. Ne ho una da Barcellona, del 1982, una dalla tournèe a New York, l’orologio che mi portò da Tokyo quando vinse l’Intercontinentale e me lo invidiavano tutti perché, allora, chi lo aveva in Italia un orologio con tutte quelle funzioni ??? Ho la maglia di Vialli alla Sampdoria, l’unica che gli abbia mai chiesto, più quelle che portava a casa scambiandole con gli avversari. Ma il ricordo più vivo è l’immagine di quando mi portava all’allenamento e alla fine rimanevamo noi due a giocare per un quarto d’ora al “Combi”».
Visto con gli occhi del bambino, Gaetano era un gigante.
«Ho sentito parlare molto delle qualità umane di mio padre e sicuramente era un personaggio lontano dallo stereotipo del calciatore. Ma quando lo vedo nei filmati riscopro che era davvero un campione e un leader. Il senso della posizione e il tempismo erano le sue armi per chiudere i corridoi in difesa ma le sfruttava anche per segnare due o tre goals a campionato. Un anno ne fece cinque e non erano i goals del difensore che va a saltare sui calci piazzati, lui li costruiva con la manovra.
Oggi mio padre farebbe il centrocampista e non il libero, probabilmente sarebbe il regista arretrato in copertura, come Felipe Melo in questa Juve. Cosa non gli piacerebbe del calcio attuale ??? Si sarebbe adattato a tutto con il buon senso: lo avrebbero infastidito solo le troppe chiacchiere, le mille interviste, magari l’ingerenza dei procuratori e dei manager.
Ma sono convinto che, da tecnico, avrebbe creato qualcosa di nuovo perché aveva le idee. Non ebbe il tempo di esporle. L’estate prima che morisse avrebbe potuto allenare la Reggina, preferì restare alla Juve perché c’era Zoff. La cosa strana è che quando aveva smesso di giocare, un anno prima, ero stato contento perché pensavo che finalmente lo avrei avuto per me anche nei weekend che non avevamo mai fatto insieme. Invece scoprii che da vice allenatore vaggiava più di prima e lo vedevo ancora meno. Certo non pensavo che, per quel lavoro, non l’avrei più rivisto».
Da “Repubblica”, del 1° settembre 2009:
– Zoff, sono già venti anni.
«Tornavamo da Verona in pullman, la Juve aveva vinto 4 a 1, il casellante disse che era successo qualcosa a Scirea, io risposi è impossibile, a quest’ora sarà già a casa che dorme».
– Invece era morto su una strada polacca.
«Allenavo la Juve, Gaetano era il mio vice. Era andato a vedere i nostri avversari di Coppa, lui non era convinto che fosse necessario, nemmeno io lo ero, ma Boniperti aveva insistito ed era giusto così. Il destino è invisibile».
– Chi era Gaetano Scirea ??? Cos’era ???
«Un uomo. Era il suo stile. Non la forma, lo stile. Era serenità, chiarezza e pulizia. Era convincente anche quando si arrabbiava così di rado, non perdeva mai il controllo. Una persona sempre misurata e tranquilla. Diceva solo cose autentiche, ponderate».
– Ricorda quando lo conobbe ???
«Arrivava dall’Atalanta, un ragazzone taciturno, buonissimo. All’inizio mi sembrava troppo perfetto per essere vero: a volte i timidi appaiono meglio di quello che sono, vale anche per me. Invece era così sincero e puro, senza sovrastrutture. Aveva il pudore delle parole, così raro sempre e di più adesso, in mezzo a questo boato».
– In campo, inarrivabile.
«Perché era sempre lui, era la sua continuazione. Dicono che in partita ti trasformi: fesserie, in partita sei tu e basta. E conta l’istinto, lì non esiste il freno dell’intelligenza, viene fuori il profondo. E il profondo di Scirea era Scirea».
– Mai un’espulsione, eppure giocava in difesa.
«Gli bastavano la classe e la pulizia del gioco. Mai visto uno così elegante, con la testa così alta. E la purezza del tocco era purezza morale. Questi sono uomini importanti, che magari non segnano un’epoca perché non gridano. Ma quanta ricchezza».
– Eravate sempre insieme: chissà che silenzi.
«Invece parlavamo tanto, anche se per capirci non c’era bisogno di dire cose. Ci assomigliavamo, però lui era incomparabilmente migliore di me: io non sono così buono, né accomodante. Dividevamo la stanza d’albergo nella Juve e in Nazionale, leggevamo, giocavamo a carte, robe semplici. Tra noi c’era una goliardia da ragazzini. Gaetano non era un musone, amava gli scherzi, ci stava, anche se era così delicato».
– Come visse il tumultuoso Mundial 1982 ???
«La nostra camera la chiamavano “la Svizzera”, era stato Tardelli a inventare il nome perché cercava rifugio da noi nelle sue notti insonni».
– Gaetano voleva fare l’allenatore: ci sarebbe riuscito ???
«Sì, perché era intelligente e convincente. In campo, un leader senza bisogno di urlare e sapeva farsi seguire. Aveva carattere, si era diplomato alle magistrali giocando e studiando anche di notte. Al calcio italiano è molto mancato uno come lui: forse, per carattere non avrebbe avuto troppe prime pagine ma non sarebbe cambiato, non l’avrebbero mai cambiato. Neppure in questo ambiente, dove fa notizia solo il rumore».
– Cosa accadde, dopo la vittoria di Madrid ???
«Ero rimasto allo stadio più degli altri per le interviste e tornai in albergo non con le guardie del corpo, come succede oggi, ma sul furgoncino del magazziniere. Gaetano mi aspettava. Mangiammo un boccone, bevemmo un bicchiere, ci sembrava sciocco festeggiare in modo clamoroso: mica si poteva andare a ballare, sarebbe stato come sporcare il momento. Tornammo in camera e ci sdraiammo sul letto, sfiniti da troppa felicità. Però la degustammo fino all’ultima goccia, niente come lo sport sa dare gioie pazzesche che durano un attimo, e bisogna farlo durare nel cuore. Eravamo estasiati da quella gioia, inebetiti».
– Cosa ricorda della sera in cui morì ???
«Rientrando da Verona, eravamo andati a cena dalle parti di Ponte sull’Oglio. I cellulari non esistevano. Arrivati a Torino, il casellante ci disse quella cosa, non volevo crederci. Il pullman raggiunse lo stadio, dove avevamo lasciato le auto. Era pieno di giornalisti. Diedi un calcio fortissimo alla fiancata».
– Dino Zoff, lei pensa spesso al suo amico ???
«Gaetano torna sempre. Lo penso a ogni esagerazione di qualcuno, a ogni urlo senza senso. L’esasperazione dei toni mi fa sentire ancora più profondamente il vuoto della perdita. Gaetano mi manca nel caos delle parole inutili, dei valori assurdi, delle menate, in questo frastuono di cose vecchie col vestito nuovo, come canta Guccini. Mi manca tanto il suo silenzio».
Così lo racconta Caminiti:
«Fu nei giorni del Mundial argentino che mi impratichii dello stile di Gaetano Scirea, giocatore ed uomo. Lo rivedo nella penombra di una saletta dello “Hindu Club”, per la prima intervista ufficiale. È seduto in un seggiolone, spicca il suo naso ciranesco tra quegli occhi scuri e confidenti, la bocca piccola, compita. Timido, chi lo può negare ???
Ha venticinque anni e, nonostante abbia già vinto tre scudetti, è contestato dai giornalisti milanesi (taluni gli preferivano Bini !!!) come privo di vera autorevolezza difensiva. Gli si imputa latitanza sulle parabole aree, eppure arriva da un campionato che la Juventus ha vinto all’altezza di un gioco di squadra molto sagace, del quale è lui l’ago della bussola, il giocatore che ha creato il ruolo di libero nella disciplina tattica più conseguente al gioco anche senza palla, ad una tecnica ambidestra da manuale nelle finalizzazioni.
Ogni uscita di Scirea dalla nicchia dell’area di rigore, protetta dall’incontrismo spietato di Furino e Morini, è un capolavoro di tempismo. Mai un fronzolo, un’asciuttezza di stile che va al sodo, la geometria dell’azione avviata da dietro si inarca lucidamente nel cuore profondo della difesa avversaria, disinnescandone tutte le mine tattiche, facendo esplodere il goal fragoroso.
Gran campione del gesto anche stilistico, si completa con i compagni, da al ruolo di libero un’interpretazione mai individualistica, rigorosamente collettivistica, che si illumina nelle sferzate in goal, col tiro a chiudere nell’angolo di porta dove nessun portiere potrà mai arrivare».