IL MURO – Lettera aperta al futuro governatore della Sicilia.
Che ne pensi di

IL MURO – Lettera aperta al futuro governatore della Sicilia.



Questa lettera l’ha scritta Miriam Miceli, siciliana, che ha deciso di rimanere in Sicilia.

Ha poco più di 30 anni, un bambino bellissimo di 3 ed è un ingegnere preparatissimo che, dopo aver vissuto al Nord e lavorato per una grossissima multinazionale, ha deciso di ritornare nella sua Palermo.

E ora rivendica il diritto di rimanerci e di vivere come vivrebbe un ingegnere con 8 anni di esperienza alle spalle in un Paese civile.

Ci piacerebbe che questa lettera potesse essere letta da uno dei futuri governatori e diventare il manifesto di una generazione che non vuole perdere la speranza.

Per gli altri, ci piacerebbe che poteste condividerla sulle  bacheche virtuali di facebook, condividerla e taggarla con amici in lista e non,  e farla girare.

La Redazione

Il presidente che pretendo: un uomo, un garante

La scelta è, per definizione, il risultato di una selezione tra due o più possibilità. Da cittadina “attiva” mi si chiede di esprimermi e valutare la possibilità che i miei desideri coincidano o, almeno, si armonizzino con quelli di chi mi chiede un voto. Alto a pie’ pari inutili preamboli e vengo ai miei “desiderata”.

Lo dico con franchezza. Un uomo politico, un futuro presidente della Regione Sicilia deve essere in grado di GARANTIRMI una occupazione: sì, sembra suonare come una sfacciata provocazione, ma – a ben vedere – è una sacrosanta pretesa, perché viene da una cittadina capace, qualificata, titolata, referenziata, che vanta un curriculum di tutto rispetto e che non chiede da parassita o da zavorra una raccomandazione per ricoprire un ruolo che non le compete. E ricoprire un ruolo – che sia di prestigio o meno – deve avere come pre-condizione il MERITO.

Io voglio, devo, desidero, merito di rimanere a svolgere la mia professione qui, a casa mia, senza essere costretta a emigrare chissà dove, far crescere mio figlio lontano dai cari, centellinare gli incontri con chi ami a due settimane agostane che volano in un batter d’occhio. Questa è la SICILIA che pretendo da un potenziale eletto.

La Regione – da quanto mi è stato riferito – ha proceduto recentemente a “chiamate per direttissima” e, udite udite, all’ARS: posto ambito, sognato, descritto come una panacèa, luogo privilegiato avvolto quasi da un alone di mistero. Ma chi avrebbero “selezionato”? Sempre e comunque i soliti amici degli amici? Ma se questo stato di cose permane e perdura, a cosa mai varranno i manifesti di cui la città è satura?

I vostri sorrisi ostentati, le vostre facce di brave persone hanno un senso e si giustificano solo se riescono a costituire una GARANZIA. Non posso correre il rischio di votare per una cricca di malviventi. Ovvero – senza scomodare come spesso si fa, le associazioni a delinquere di uno stampo più o meno mafioso – votare e scegliere come rappresentante un interlocutore fittizio che mai sarà in grado, né tantomeno avrà a cuore di realizzare le mie sacrosante richieste.

Nessuno pretende che questi si trasformi in un ufficiale di collocamento: tuttavia siamo in molti ad avere e vantare percorsi professionali e di formazione di altissimo livello, senza che questo si sia tradotto, nel tempo, in una naturale “immissione in ruolo” lì dove avremmo potuto rendere un servigio alla nostra regione, contribuendo a migliorarne la facies, la qualità di vita, il prestigio, il decoro, la credibilità agli occhi dell’Italia e del mondo.

Lo stereotipo che ci hanno affibbiato non è una tragica fatalità, ma una nostra stessa responsabilità. Se vuoi che ti voti (e sappi che il mio è un voto onesto, di valore, e non di scambio, tanto per fare numero cumulativo ed “ottenere i seggi in parlamento”), devi avere il coraggio di guardarmi negli occhi e riconoscere il mio talento. Io sono una risorsa. Io rappresento a buon diritto un potenziale umano e professionale di spessore.

Mi sgomenta sentire in giro le favole su commessi regionali pagati 3 mila euro al mese (se non di più, a fine carriera) per indossare un tailleur e starsene in piedi in silenzio vagando per una sala gremita di uomini in giacca e cravatta. Ma, vedi, i soldi possono impressionarmi fino a un certo punto: quel che più mi avvilisce è la percezione della distanza che c’è tra il cittadino e la Regione stessa. Non la sento come una presenza vicina, amica, compagna: su di essa si favoleggia. O in positivo, o in negativo. Ma di mezzo resta sempre un fossato. Se avessi bisogno di qualcosa non mi sognerei mai di rivolgermi a un membro del parlamento regionale o a un assessore. Sono delle chimere. Sagome lontane, estranee, vaghe. La pòlis greca – dove tuttavia valevano meccanismi democratici diretti – era luogo di incontro, l’agorà il punto fisico e simbolico della vera democrazia: là il cittadino esprimeva al massimo la sua dimensione pubblica, si confrontava col politico che in fin dei conti era un suo pari.

Se dunque mi sorridi e ti rivolgi con familiarità a me e ai miei concittadini devi poi coerentemente mantenere lo stesso atteggiamento amichevole. Altrimenti perdi di credibilità e mi disaffeziono. Potrai accumulare fortune e tesori, ma resterai a mani vuote perché, come gli altri, avrai sulla coscienza una triste eredità sulla quale le generazioni future si esprimeranno senza remissione di colpa e senza pietà alcuna.

E passata la fase degli inchini, degli ammiccamenti, degli “stai tranquillo, fammi arrivare dove devo arrivare che poi a quella cosa ci penso io”, delle promesse da marinaio, arriverà quella delle spallucce (“ma sai, per il momento è tutto fermo, non si muove niente; non ti resta che pazientare e aspettare”), delle lunghe anticamere, del telefono che non squilla, degli “scusi, non mi ricordo, è passato troppo tempo da quando ci siamo incontrati l’ultima volta”, “ah, questo tuo figlio è? Peccato, potevi dirmelo prima che gli facevamo fare quella selezione, ma – vedi – ormai non è più in tempo, sono scaduti i termini per la presentazione della domanda”……. E tutto, implacabilmente, tornerà come prima.

La tempesta avrà agitato le foglie, riempito gli invasi, divelto le staccionate, infiacchito i muri di contenimento, sollevato le tegole di qualche pagliaio, abbattuto lo spaventapasseri dell’orto, ma la quiete ritornerà come scure, attanagliando il paesaggio col suo silenzio sordo e fosco, mentre il sottosuolo brulicherà di faccendieri chini sulle sporte cariche di sterco, come talpe miopi e mefitiche, in un andirivieni frenetico, asfittico, mellifluo; urteranno l’uno contro l’altro, bisbiglieranno e si diranno cose che i più non dovranno conoscere; scaveranno camminamenti formando trame insospettabili, sviscereranno la terra e ne mangeranno i vermi; si adatteranno coriacei alle intemperie e scaveranno buche ancor più profonde per seppellirvi i cadaveri dei giusti, intenti a riprodurre, lì dove il sole non arriverà mai, le forme del palazzo, delle sale del potere, per riproporne – deformandole – le trame, e un giorno, insozzato di terra, farne emergere le squallide architetture ed eleggerlo a luogo della giustizia, del bene comune.

Violazione e crimine, senza che si possa sollevare la testa per denunciarne l’ignomìnia.

Miriam Miceli, Ingegnere e mamma

13 Ottobre 2012

Autore:

admin


Ti preghiamo di disattivare AdBlock o aggiungere il sito in whitelist