LICEO DI PATTI – Le considerazioni di un ex allievo
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LICEO DI PATTI – Le considerazioni di un ex allievo

A farle è un ex allievo, uscito solo qualche anno fa da quella “maturità”, raccontano di tutte le assenze sociali che negli anni si sono ripresentate, risuonano oggi in una dimensione linguistica, politica e più che mai culturale. Da leggere. La storia di quel liceo può essere traslata in quella di tanti luoghi “mancanti” e che mancano sepolti tra sogni e scartoffie. Ci si ritrova in tanti nelle parole di Roberto Gammeri

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Il discorso intorno al Liceo Scientifico di Patti ci ha insegnato a mettere tra parentesi delle conclusioni che, spesso, tendono a divenire astratte.

La sua storia, se ci pensiamo un attimo, ci piace raccontarcela al bar.

Ci piace leggerla sul giornale e tenerla un po’ distante.

Distratti – come siamo – dalle belle giornate di sole, abbiamo imparato, negli anni, a non interessarcene.

Perché non ci riguarda, perché non esiste spiegazione, o perché una spiegazione da qualche parte esiste ma non la si vuole comprendere.

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La sua Storia, da piccolo, la sentii raccontare a tavola dai miei genitori. Mi sembrava quasi una leggenda: distante e confusa. Qualche anno dopo, esattamente dieci anni fa, misi piede per la prima volta in contrada Rasola.

Eccolo lì, il Liceo Scientifico: una grande massa di cemento con tante scritte sui muri che mi faceva sentire piccolo.

Ricordo ancora la prima assemblea, la confusione nei corridoi e la raccolta firme per l’occupazione. Riunione dopo riunione, imparai a pormi le domande giuste. Perché questo disagio per così tanti anni?

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Erano quaranta, allora.

E perché questo eterno ritorno degli eventi?

Finanziamenti scomparsi, bandi andati a vuoto, il continuo rimbalzo delle responsabilità politiche. Quando hai sedici anni, hai bisogno di trovare una rotta verso la quale puntare il dito.

Perché ti viene facile. Perché ti hanno insegnato che esistono delle dinamiche politico-burocratiche alle quali è possibile attribuire dei nessi di causalità.

Nasce così il giustificazionismo che si è ripresentato, di anno in anno, a fianco alla questione. Come se non ci si volesse guardare in faccia e dirci, una volta per tutte, che non ci interessava.

È una questione politica e le questioni politiche, in un piccolo paesino di provincia siciliana, tante volte non hanno né nomi né volti. La sensazione rimaneva sempre la stessa: lanciare frecce al vento. Sembrava che ci fosse qualcosa di molto più grande che stesse, in realtà, tenendo i fili per noi.

Forti di un’incoscienza adolescenziale, ci sentivamo eroi e andammo avanti con le riunioni dopo scuola, nell’indifferenza di un’Istituzione educativa che lasciava ai margini la questione.

I programmi erano lunghi, il tempo era poco, bisognava andare avanti.

Documenti, protocolli, collegamenti cronologici: cercavamo qualcosa che potesse far quadrare i conti. Iniziammo a tirare fuori alcuni nomi, molti dei quali non sembrarono subito importanti.

Dai proprietari dei locali ad alcune cariche istituzionali coinvolte. Le assemblee diventarono un cimitero di incontri politici mancati. Più volte, ad esempio, protocollammo l’invito al presidente della provincia Giovanni Ricevuto, detto “Nanni”. Gli impegni politici potevamo ben comprenderli, sia chiaro.

Quelle richieste, però, non ebbero mai una risposta e questo, a dei ragazzi liceali, lo devi spiegare se vuoi che lo comprendano. Non sputiamoci addosso, altrimenti, quando lamentiamo distanze enormi tra una generazione che fatica a crescere e un mondo politico che rinasce, ogni giorno, nei fantasmi del suo passato.

La gestione della cosa pubblica è, e rimane, un affare privato.

Altri nomi, chiaramente, saltarono fuori: Giuseppe Buzzanca, detto “Peppino”, expresidente della Provincia. Giuseppe Venuto, detto “Pippo”, ex-sindaco di Patti.

O ancora, il rispettabilissimo ingegnere Vincenzo Carditello, promotore del progetto ex-novo per il Liceo di Patti.

A distanza di anni, ricordo quasi con un sorriso il giorno in cui venne a presentarci con insistenza la bozza del nuovo progetto edilizio. Era tutto bellissimo, tranne un piccolo particolare: le aule sarebbero state 15 e le classi da allocarvi erano 18.

Ricordo poi il 2011. A seguito di alcune cortei e occupazioni, venne promessa la pubblicazione di un nuovo bando di gara entro la fine del mese di luglio che, ovviamente, non venne mai pubblicato.

Il primo settembre 2011, quando le belle giornate estive non erano ancora terminate, occupammo il cortile del plesso di Contrada Rasola con tende e sacchi a pelo. Ogni tanto qualche genitore veniva a portarci del cibo o dell’acqua.

Qualche altro veniva a minacciarci di dover garantire il diritto allo studio al proprio figlio. Dopo 12 giorni, arrivò l’inizio della scuola e dichiarammo sospesa l’occupazione. Era strana quella concezione di “diritto allo studio” che ti tappa il naso dalla puzza del marcio che hai sotto i piedi e dal quale continui a distogliere lo sguardo. Stavamo crescendo, però, e quel diritto allo studio volevamo garantirlo davvero. Tornammo sui banchi e da li, ricominciammo. Nuova dirigente, nuovo sindaco.

Cosa aspettarci? Nulla.

Non dovevamo aspettarci nulla.

Le domande giuste da porsi erano cambiate. Cosa farcene del discorso politico? Cercare di comprenderlo o destrutturarlo? Ingenuamente iniziammo a citare nomi e cognomi, responsabilità politiche, sociali e le rispettive mancanze, cercando di rimettere in luce i collegamenti tra le istituzioni pattesi a quelle provinciali.

Il silenzio imbarazzante, per settimane intere, dell’ente provinciale ebbe una conseguenza. Partimmo in gruppo dalla stazione di Patti alla volta del Palazzo dei Leoni, a Messina.

Lo occupammo per qualche ora. Li ci trovammo Nanni Ricevuto, il quale doveva invece trovarsi a Roma per alcuni “impegni politici improrogabili”. La nostra richiesta era semplice: esporre le ragioni del fermo burocratico di fronte a tutti gli studenti presenti per capire e comprendere, ancora una volta.

La situazione fu gentilmente gestista ed organizzata dalla Digos: quattro rappresentanti degli studenti chiusi in una stanza con una quindicina di politici e agenti.

Ricordo che uno di noi, Ciccio, provò ad esprimere il malcontento che ci stavamo portando dietro. La situazione era tesa: venne interrotto più volte, il manganello era la minaccia diretta e la frase che ricordo con più chiarezza fu “Stai zitto!”.

 

Eravamo bagnati fradici perché quel giorno aveva piovuto.

Loro avevano dei bellissimi vestiti e uno, in particolare, un notevole anello d’oro al dito. Noi eravamo seduti, loro in piedi attorno a noi.

Noi avevamo torto, loro avevano ragione.

La banalità di questa dicotomia, alla quale rimaniamo incatenati dalla nascita, si è riversata sull’innocenza dei nostri orizzonti che, per dio, chissà dove sono andati a finire quel giorno. Un fiume in piena che, di colpo, ha perso la sua acqua.

Quando hai 18 anni ti alimenti con la forza di una speranza giovane che non illude, ma fortifica. Troncarla significa mettere in atto una violenza autoritaria che, in un modo o nell’altro, andrà ad annidarsi nella profondità di chi l’ha perduta. Quando hai 18 anni hai bisogno di credere nei rapporti umani, nel loro beneficio e nella loro naturalezza.

A distanza di cinque anni, all’alba della notizia della consegna del nuovo plesso per il Liceo Scientifico, le domande giuste sono cambiate ancora.

Che natura hanno le idee sulle quali poggiano i nostri discorsi?

La causalità sociale e storica non può, e non deve, essere oscurata dalla causalità politica. In questo preciso momento storico, un intervallo temporale – durato 50 anni – necessita di essere riconosciuto e compreso.

Tutte le assenze sociali che negli anni si sono ripresentate, risuonano oggi in una dimensione linguistica, politica e più che mai culturale.

Domandiamoci, ad esempio, quanto di tutta questa storia ci sia in ognuno di noi e nel nostro modo di valutare gli eventi. Domandiamoci quanto la notizia di questo Liceo nuovo ci abbia lasciato indifferenti.

Non sono, quindi, proprio le nostre stesse considerazioni le radici dalle quali germogliano le nostre idee?

Forse bisognerebbe reinventarci nella casualità della storia. Avere la capacità di prendere posizione in un secondo momento.

Avere, magari, il coraggio di non prenderla affatto.

Stupirci, infine, della complessità di cui gode il susseguirsi degli eventi.

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Roberto Gammeri

5 Giugno 2018

Autore:

redazione


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