Ogni album una svolta: i Mumford&Sons non smettono di stupire.
Qualcuno, tempo fa, aveva gridato al miracolo, quando uscì il loro secondo album, Babel, contemporaneo, solitario evergreen dai richiami folk delle canzoni che lo componevano, una perla di rara bellezza gettata così, alle mercè di tutti, mentre si menzionava di diritto Bob Dylan, come unico riferimento di tale bellezza compositiva.
Ma tre anni dopo, questo Wilder Mind suona completamente diverso, anacronistico, un ibrido per gli ascoltatori del gruppo, proiettati ancora una volta alle loro influenze musicali, stavolta scavalcando la struttura folk e indie di quel disco, per concentrarsi su un lavoro basato su un suono rock, e incalzante nell’uso della batteria. The wolf e un esempio evolutivo della loro musica, un pezzo quasi alla Foo Fighters.
Il pop rock pervade le dodici tracce del disco, come la stessa titletrack. Il sound amplificato della band a conduzione familiare, tratteggia il nuovo corso, senza mai eccedere, Believe, Just smoke, ma anche momenti quasi riflessivi, meno corposi, come Monster, Snake eyes. Intimità solo voce e chitarra con Hot gates e Cold arms.
Un album ben composto, che guarda avanti, senza adagiarsi sugli allori di Babel, trionfatore dei Grammy Awards come miglior disco dell’anno.
Salvatore Piconese
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