PENSIERI E PAROLE – “Le cose dell’amore”
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PENSIERI E PAROLE – “Le cose dell’amore”

Il libro

“Quando dico ‘ti amo’ che cosa sto dicendo di preciso?

E soprattutto chi parla?

Il mio desiderio, la mia idealizzazione, la mia dipendenza, il mio eccesso, la mia follia?

E come si trasforma questa parola quando il desiderio si satura, l’idealizzazione delude, la dipendenza si emancipa, l’eccesso si riduce, la follia si estingue?

Non c’è parola più equivoca di ‘amore’ e più intrecciata a tutte quelle altre parole che, per la logica, sono la sua negazione.

Tutti, chi più chi meno, abbiamo fatto esperienza che l’amore si nutre di novità, mistero e pericolo e ha come suoi nemici il tempo, la quotidianità e la familiarità.

Nasce dall’idealizzazione della persona amata di cui ci innamoriamo per un incantesimo della fantasia, ma poi il tempo, che gioca a favore della realtà, produce il disincanto e tramuta l’amore in un affetto privo di passione o nell’amarezza della disillusione.

Qui Freud ci pone una domanda: ‘Quanta felicità barattiamo in cambio della sicurezza?’.” Umberto Galimberti ci consegna un volume (che in parte raccoglie suoi articoli pubblicati dal quotidiano “la Repubblica”) in cui l’acutezza del pensiero penetra i meandri del sentimento e del desiderio e il lettore morale registra i mutamenti intervenuti nella modalità di vivere (e patire) le dinamiche dell’attrazione, il patto con l’amato/a, la trama di autenticità e menzogna del rapporto amoroso, i percorsi del piacere (dall’onanismo alla perversione).

Sullo sfondo si muove, come un fantasma, continuamente evocato e rimosso, quello che propriamente o impropriamente gli uomini non smettono di chiamare amore.

Dal primo capitolo

A differenza dell’animale l’uomo sa di dover morire.

Questa consapevolezza lo obbliga al pensiero dell’ulteriorità che resta tale comunque la si pensi abitata: da Dio o dal nulla. Ciò fa del futuro l’incognita dell’uomo e la traccia nascosta della sua angoscia segreta.

Non ci si angoscia per “questo” o per “quello”, ma per il nulla che ci precede e che ci attende. Ed essendoci il nulla all’ingresso e all’uscita della nostra vita, insopprimibile sorge la domanda che chiede il senso del nostro esistere.

Un esistere per nulla o per Dio?

Ma qui siamo già nel repertorio delle risposte, delle argomentazioni, delle conversioni, delle disperazioni. Io vorrei trovare l’essenza dell’amore che, come vuole Norman Brown, “è toglimento di morte (a-mors)”, prima di queste domande e risposte, vorrei trovarla là dove l’uomo tende il suo urlo, anche sommesso, al di là dell’esistenza e chiede ascolto.

Chiama questo ascolto Dio: ignoto Tu, che supplisce all’indifferenza della terra e delle macchinazioni che si compiono sulla terra.

Sembra, infatti, che il dialogo tra Io e Tu sia insoddisfacente, che gli spazi di silenzio e di incomprensione, al di là della buona volontà e delle buone intenzioni, esigano una comprensione superiore.

Sembra che la solitudine del cuore sia così abissale da non essere raggiunta da nessuna voce umana.

Sembra che l’intensità della passione non trovi corrispondenza nell’amore e nell’ira che gli uomini possono vicendevolmente scambiarsi.

Sembra che la solitudine non possa neppure costituirsi, e tanto meno un dialogo interiore, se l’altra parte non ha un volto sovrumano.

Sembra che la metafora dell’inconscio sia troppo povera per contenere quel patire che solo nei simboli religiosi trova l’altezza della sua iconografia.

Sembra che le vette della mente non sappiano perché si protendano verso il cielo, se il cielo è vuoto. E neppure perché l’esilio, a cui ci avvicina la disperazione, possa essere immaginabile senza un inferno che ce lo prefiguri come corrispondenza immaginifica dell’anima.

Nell’atmosfera creata da queste inquiete domande, tutte le parole che quotidianamente impieghiamo nel mondo rivelano la loro afasia. E allora solo l’amore, con la vibrazione delle sue folgorazioni, può favorire quel cedimento della mente che è necessario, perché la roccaforte della ragione, a differenza del cuore, è incapace di sfiorare la verità senza possederla.

Infatti, come scrive il filosofo greco-ortodosso Christos Yannaras:

”Se ti sei innamorato una volta, sai ormai distinguere la vita da ciò che è supporto biologico e sentimentalismo, sai ormai distinguere la vita dalla sopravvivenza. Sai che la sopravvivenza significa vita senza senso e sensibilità, una morte strisciante: mangi il pane e non ti tieni in piedi, bevi acqua e non ti disseti, tocchi le cose e non le senti al tatto, annusi il fiore e il suo profumo non arriva alla tua anima. Se però l’amato è accanto a te, tutto, improvvisamente, risorge, e la vita ti inonda con tale forza che ritieni il vaso di argilla della tua esistenza incapace a sostenerla. Tale piena della vita è l’eros.

Non parlo di sentimentalismi e di slanci mistici, ma della vita, che solo allora diventa reale e tangibile, come se fossero cadute squame dai tuoi occhi e tutto, attorno a te, si manifestasse per la prima volta, ogni suono venisse udito per la prima volta, e il tatto fremesse di gioia alla prima percezione delle cose. Tale eros non è privilegio né dei virtuosi né dei saggi, è offerto a tutti, con pari possibilità.

Ed è la sola pregustazione del Regno, il solo reale superamento della morte. Perché solo se esci dal tuo Io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi al tuo Dio e perché corri dietro di Lui”.

(Umberto Galimberti, “Le cose dell’amore”, Feltrinelli Editore)

tratto da http://viadelcampo.myblog.it/filosofia/

15 Maggio 2012

Autore:

admin


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