PUNTI DI RIFLESSIONE – “Una donna e il suo bambino”
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PUNTI DI RIFLESSIONE – “Una donna e il suo bambino”

La relazione che diventa punto di riflessione di Melina Ricciardo, universitaria, futura mamma, che è stato filo conduttore dell’incontro, il secondo, che si è svolto a Brolo sul tema di quegli “incontri fuori porta”, parlando della Bibbia, voluti da padre Enzo Caruso e da Michelangelo Gaglio.

L’incontro,  giovedì sera, si è svolto nell’inedito spazio del Bar del Sole, alla Marina,ed era il secondo incontro del ciclo: “Radici… Chi siamo? Ce lo dicono i giovani con la Bibbia”.
Anche questo, come il primo, al Bar Sport, non è stato ma non voleva neanche esserlo, un incontro a sfondo “religioso”, ma, essendo incontri “fuori porta”, fuori dallo spazio del sacro che caratterizza le sale parrocchiali, ha voluto portare un respiro universale.
Densa e ricca la relazione-proposta di Melina Ricciardo che di fatto ha condotto l’incontro, sul tema: “Una donna … e il suo bambino”Un viaggio attraverso le Scritture per scoprire le varie figure d’infanzia e femminili, con uno sguardo alla letteratura contemporanea che rileggono in chiave “umana” la figura di Maria.
Nell’intenzione dei promotori, don Enzo Caruso e il professore Michelangelo Gaglio, in quanto coordinatore degli incontri, l’iniziativa ha un importante significato spirituale, culturale e sociale e rappresenta un inedito spazio di dialogo per i giovani che spesso vivono senza conoscere uno dei testi più importanti della civiltà umana

La relazione.

Su richiesta del Prof. Gaglio, che ringrazio per aver voluto la mia partecipazione a questo incontro e per i suggerimenti che gentilmente mi ha fornito, ho accettato di fare una breve premessa al dibattito che seguirà, dal titolo “Una donna e il suo bambino”, e vorrei iniziare ponendo l’attenzione proprio sulla grande emozione relativa all’attesa e, conseguentemente, alla nascita di una creatura.

Non a caso, l’immagine scelta per questo appuntamento è quella dell’opera “Maternidad”, del 1905, di Pablo Picasso, nella quale l’artista raffigura con estrema intensità una giovane donna intenta ad allattare il suo bambino: il blu e il grigio dello sfondo vengono attenuati dalla dolcezza dei lineamenti della donna, dal capo chino sul figlio e dalla luminosità del rosa dello scialle indossato, che avvolge simbolicamente i due personaggi in un unico abbraccio, rimarcando la perfezione di questo momento prezioso e di totale simbiosi.

Il loro linguaggio è intimo e palese al tempo stesso, l’amore che li unisce esclusivo ma universale.

In questo incontro ci proponiamo di affrontare il tema della Natività, soffermandoci soprattutto sui Vangeli secondo Luca e Matteo, senza tuttavia conferire al dibattito valore di catechesi o di lectio, bensì cercando semplicemente di trarre degli spunti di riflessione dalla Bibbia, il Libro dei Libri, la cui conoscenza ci permette di scrutare e meglio comprendere la nostra società, che affonda le sue radici proprio in questo Testo che, per altro, racchiude diversi generi letterari (racconto, poesia, forma epistolare, ecc.) rappresentando, dunque, come ha sottolineato il Prof. Cacciari, “il grande patrimonio comune di tutta la cultura dell’Occidente”.

Nella Genesi (4,1) si legge: Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì Caino e disse: “ho acquistato un uomo dal Signore”. Questa è chiaramente una esclamazione di gioia per il grande dono che le è stato concesso: la parola “dono” non è casuale. Eva, infatti, riconosce che il bambino non è prima di tutto dei genitori, come fosse proprietà del padre e della madre, ma è prima di tutto di Dio: il bambino è un uomo che deve naturalmente crescere, certamente sotto la guida dei genitori, ma ciò non implica che questi possano padroneggiare sulla sua nascita e sulla sua vita. I genitori iniziano, quindi, una sorta di collaborazione con Dio: “Ecco, dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo”(Salmo 127, 3).

A tal proposito, ricordiamo la vicenda di Abramo e della moglie Sara la quale, pur essendo sterile, riesce nella vecchiaia a dare alla luce Isacco, secondo quanto promesso dal Signore:

Il Signore visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso. Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia, nel tempo che Dio aveva fissato. Abramo chiamò Isacco il figlio che gli era nato, che Sara gli aveva partorito. Abramo circoncise suo figlio Isacco, quando questi ebbe otto giorni, come Dio gli aveva comandato.

Abramo aveva cento anni, quando gli nacque il figlio Isacco.

Allora Sara disse:“Motivo di lieto riso mi ha dato Dio: chiunque lo saprà sorriderà di me!”

Poi disse: “Chi avrebbe mai detto ad Abramo: Sara deve allattare figli! Eppure gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia!”(Genesi, 21).

Ancora una volta, il figlio arriva come dono di Dio per la fedeltà di Abramo che, tuttavia, sarà nuovamente messa alla prova quando il Signore gli chiederà di sacrificare l’unico amato figlio, offrendolo in olocausto.

La prova è drammatica ma Abramo obbedisce, probabilmente non comprendendo il perché di tale richiesta ma certamente comprendendo che non solo il figlio è dono di Dio, ma è anche “figlio di Dio”: tutti i bambini, insomma, appartengono innanzitutto a Dio e il loro destino e la loro vocazione vanno oltre il volere dei genitori, e devono essere rispettati.

La fede di Abramo gli permette quindi di superare l’ostacolo dell’assurdità della vicenda e Dio lo ricompenserà: Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Mal’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo!”.

Rispose: “Eccomi!”. L’angelo disse: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio”.

Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio.

Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Abramo chiamò quel luogo: “Il Signore provvede”, perciò oggi si dice: “Sul monte il Signore provvede”.

Poi l’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore:perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce”(Genesi, 22).

È solo alla fine, quindi, che Dio rivela il suo disegno. Il sacrificio da compiere non è del figlio ma di tutti i dubbi che scuotono la fede, di tutte le garanzie che gli uomini vogliono avere nei confronti del Signore per abbandonarsi alla Sua volontà che è sempre un progetto di bene.

L’attesa, nel Vecchio Testamento, intesa anche come attesa della realizzazione della promessa di Dio, viene espressa da Isaia, 7: “Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”.

Questa attesa del messia si è compiuta in Gesù Cristo (Mt 1,22 s), in lui “Dio è (definitivamente) con noi” (Mt 28,20; Gv 1,14).

Qui è il passaggio al Nuovo Testamento.

Ricordiamo quindi, dal Vangelo secondo Luca 2, 1-17: In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra.Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio.

Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta.

Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto.

Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo.

C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l’angelo disse loro: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo:oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore.

Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce,che giace in una mangiatoia”. E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva:“Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”.Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano fra loro:

“Andiamo fino a Betlemme,vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”.

Andarono dunque senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia.E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.

Segue, dunque, l’adorazione dei Magi (Matteo 2, 1-12).

Gesù cresce… (Episodio del tempio).

Luca (2, 51-52) ci parla del ritorno a Nazaret di Gesù: “Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso.

Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. 

E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” .

Ecco quindi che viene rimarcato l’aspetto “umano” della vicenda: Gesù nasce, vive e cresce come qualsiasi altro bambino, pur essendo il figlio di Dio, sotto la guida dei genitori, i quali, nell’educare, compiono un grande atto di coraggio, esponendosi all’angoscia dell’incertezza di agire correttamente e al dolore di perdere qualcuno tanto amato. E la bellezza delle parole appena citate (“Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore”), conferisce anche a Maria la connotazione di madre “terrena” che, come tutte le madri, cela nella sua intimità ansie, preoccupazioni e tormento per le sorti del proprio figlio.

Intanto, Gesù cresce, e a sua volta incontra i bambini, assumendo nei loro confronti sempre un atteggiamento di dolcezza e, anzi, partendo proprio dai bambini per insegnare qualcosa agli adulti. Così, in Matteo 18, 1-10, leggiamo: In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: “Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?”.

Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.

Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli.E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me.

Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare.

Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!”

E ancora (Marco 9, 36-37):

E, preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro:“Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”.

Marco 10, 13-16: Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano.

Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio.

In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso”.

E prendendoli fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro li benediceva.

Luca 9, 46-48: Frattanto sorse una discussione tra loro, chi di essi fosse il più grande.

Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un fanciullo, se lo mise vicino e disse: “Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato.

Poiché chi è il più piccolo tra tutti voi, questi è grande”.

Gesù ci invita, quindi, a guardare e a trattare i bambini come fa Lui, con amore e fiducia, sentimenti necessari per entrare in relazione con il Padre.

Egli li accoglie senza discriminazioni, attraverso l’abbraccio: anch’essi sono chiamati a far parte del popolo di Dio allo stesso titolo degli adulti e, anzi, vengono presi come modello: essere come un bambino è la condizione per entrare nel Regno dei Cieli.

L’accoglienza dei piccoli è la strada attraverso la quale Dio sarà “tutto in tutti”.

Ma il tema della “madre e del suo bambino” s’inserisce pienamente nel tempo liturgico che stiamo vivendo, che precede e prepara il Natale: l’Avvento.

La teologia dell’Avvento, infatti, ruota intorno a due prospettive principali: da una parte con il termine “adventus” (ossia “venuta”, “arrivo”) si indica l’anniversario della prima venuta del Signore; d’altra parte, designa la seconda venuta alla fine dei tempi.

A tal proposito, nella Lettera ai Filippesi di Paolo (4, 4-5) leggiamo: “Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino”.

Si tratta, quindi, di un momento da vivere e celebrare con gioia e speranza, attraverso un cammino di conversione, nell’attesa della Sua venuta: “In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia; Egli eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra” (Geremia 33, 14-15).

La nascita di Gesù Bambino è, ovviamente e indissolubilmente, legata alla madre. Maria, tuttavia, parla pochissime volte nel Vangelo.

  • All’Angelo Gabriele. Luca 1, 24-38: Dopo quei giorni Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: “Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna tra gli uomini”. Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. A queste parole ella rimase turbata e si domanda che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Allora Maria disse all’Angelo: “Com’è possibile? Non conosco uomo”. Le rispose l’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio”. Allora Maria disse: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”. E l’angelo partì da lei.
  • A Elisabetta. Luca 1, 46-55: “Allora Maria disse: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.
  • A Gesù dodicenne. Luca 2, 48: Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”.
  • A Gesù e ai servitori, alle nozze di Cana. Giovanni 2, 3-5: “E venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: Non han più vino. E Gesù le disse: Che v’è fra me e te, o donna? L’ora mia non è ancora venuta. Sua madre disse ai servitori: Fate tutto quel che vi dirà”.

Solo sei volte. Eppure, Lei avrà riempito con le sue parole la vita di suo figlio, degli amici e dei discepoli, come tutte le mamme; Lei che è madre terrena e divina al tempo stesso. Non a caso, nel Paradiso, Canto XXXIII della Divina Commedia, in cui San Bernardo fa un’orazione proprio alla Vergine Maria, Dante la descrive riprendendo termini dei Vangeli (alta, umile, ecc.) e utilizza l’efficacissimo ossimoro “figlia del tuo figlio”, essendo Maria non solo la figlia di Dio ma anche la madre, avendo ella, come tutte le altre donne, generato e partorito il bambino (“Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi fattura. Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore”).

Nel romanzo di Mariapia Veladiano, dal titolo “Lei”, l’autrice dà voce a Maria, utilizzando, a mio avviso, delle frasi di grande effetto:

“Sono una donna corale.

Un’opera collettiva senza il nome degli autori segnato in fondo.

Sono stata scritta da uomini e donne di ogni tempo.

Mi hanno vista bambina, signora, gran dama, regina, spaventata, incantata, sgomenta, solenne, vestita di perle e di sacco.

Sono stata di tutti come l’aria che si respira, l’acqua che dà vita, l’abbraccio di cui si ha bisogno.Sarò di tutti ancora e per sempre, sono madre e non c’è fine al desiderio di essere figli.

Mi hanno raccontata in poesia, in pittura, in musica, nel vetro, nel ghiaccio immacolato, a punto croce, sulle volte delle cattedrali e sui selciati delle piazze, a chiacchierino e col tombolo.

Nell’arte ho pianto, contemplato, sorriso. Gli occhi rovesciati al cielo o rivolti al bene della terra. Mi hanno fissata mentre fuggivo, consolata dagli angeli, col Bambino ancora dentro al grembo.

Col suo corpo trafitto fra le braccia. Ho le stelle sul capo, il manto celeste, bianco o d’oro, che ricorda un’onda e sotto i piedi la terra e anche la luna, a volte la luna, e il serpente, la coda di un satana anche lui corale, nero, le zampe artigliate, a scaglie spinose e lubriche, venuto da tutte le paure della terra.

   

Di me non si sa da dove vengo, sono nata con mio figlio,resa madre dal suo apparire. In questo sono sorella di tutte le madri. Non ci sono i miei genitori nei Vangeli. Come se prima del Bambino io non fossi esistita.

Dopo, anche il dopo il sacro testo non lo racconta.

Non c’è luogo per il mio corpo. Non mi hanno frantumata in mille reliquie.Il mio corpo è stato vaso. Così si è scritto. Ricettacolo fermo di tutte le grazie.

Arca della nuova alleanza. Vuota, cava e pronta a ricevere.

Tutti sicuri nel descrivermi con parole di chi non vuol credere davvero che l’ho tessuto per nove mesi di sangue e di carne ed eravamo intrecciati, il mio corpo giovane che raccoglieva il suo, arrivato già carico di eternità.

Lo tessevo ogni giorno ed era Dio. Un segreto divino mi abitava, come un solletico prima, e poi sempre più chiaro, un piedino, i ditini allineati di un piedino premevano la pelle e la mia veste si alzava un poco e con la mano lo carezzavo e gli dicevo ci sono, io ci sono.Il corpo di mio figlio io quello l’ho avuto. È stato a lungo bambino, il giusto tempo. L’ho stretto a me più di quel che avrei dovuto. Ma eravamo tutti e due così soli.Con il nostro Dio.Un Dio nascosto,secondo le Scritture.

Nemmeno Mosè lo ha visto, «Il mio volto non lo si può vedere».

E io l’ho avuto in braccio. Non rido mai nel ritratto del mondo. E nemmeno nei Vangeli.

Ma ho riso, quanto ho riso con il Bambino. Ho avuto paura. Anche in questo somiglio a tutte le madri. Quel che viene da Dio rimane, mi ripetevo. Il nostro non è un Dio che abbandona, è un Dio che rimane.Il suo corpo l’ho avuto anche dopo, per poco, il calore della vita lo abbandonava. Poi mi è rimasto, tra le braccia, in tutte le pietà che sono state dipinte e scolpite.E con lui il mio corpo che i Vangeli non raccontano è diventato forte nella pietra e nel marmo levigato, la pelle come petalo di ogni fiore.Piegato dal dolore ma reso eterno dalla fede, dalla preghiera delle donne e degli uomini di buona volontà.Pensano tutti di sapere, perché la mia storia è scritta, mille volte scritta e dipinta e predicata, cantata e messa in poesia.Si sa come finisce.

Cos’altro c’è da dire.

Mio figlio è stato e poi è morto. Il mio nome è il nome di tutte le madri condannate a restare sulla terra più del loro figlio. Così tanti sono stati i testimoni. Tutti lì a ripetere, ecco, è morto.Poi è risorto.Ancora oggi c’è chi ride, ridono, loro sì, dicono che son favole, da raccontare d’inverno ai bambini quando il buio fa paura e a risorgere è solo il giorno che ci aspetta al mattino. Non si muore mai del tutto, in tanti lo dicono ma non ci credono davvero.

Si rimane nel ricordo, dicono, e il ricordo è forte e potente, si può vivere di ricordo.Vivere noi certo, e nel nome di chi è andato, costruire storie che salvano.

Ma lui è proprio risorto.

E prima è morto, ho contato le ferite come quando era piccolo contavo i battiti del cuore e i respiri e mi dicevo vive, vive vive è un bambino, perché preoccuparsi di quel che sapevo e non capivo? Delle parole che intorno spargevano? Ridevano. Ridevano.

Avevano paura che fosse così com’era.

Volevano che la potenza delle sue mani fosse forte quanto i loro desideri scomposti. Avevano paura che non fosse il guerriero che aspettavano. Il re forte. Forte è chi esercita la forza, o chi la trattiene per lasciar liberi gli amici e anche i nemici di essere uomini e donne liberi?

E io chi ero? E lui?

Il mio corpo proprio non c’è nel Vangelo.

Non si dice dei capelli, né degli occhi di quale colore, la pelle scura della mia terra è diventata trasparente sugli altari.Solo racconto io sono nel Vangelo.

Non sono stata amata di carezze e abbracci nelle Scritture. Troppo pudore.Come un vaso ho raccolto chi mi è stato dato, hanno scritto.E poi sono stata svuotata. Ho consegnato al mondo senza poter trattenere. Tutto così diverso che non so nemmeno come raccontare.

Tutti pensano di sapere come va a finire.Non chiedetemi se sapendo avrei detto sì.

Sono domande che non si possono sentire.Risposte che non si possono pensare. Il tempo si mette a saltare sul nostro ostinato parlare”.

Nel suo romanzo, quindi, Mariapia Veladiano restituisce Maria di Nazareth alla sua piena essenza umana, dandoci la sensazione di sentire parlare una donna del nostro tempo, una madre con le stesse paure di tutte le madri, una donna con gli stessi pensieri di tutte le donne, che vive l’attesa della nascita nella sua dimensione più terrena, scoprendo e proteggendo, giorno dopo giorno, la meraviglia della vita all’interno del proprio corpo, vaso, contenitore di frammenti di eternità.

C’è una bellissima scena del film “La passione di Cristo” di Mel Gibson nella quale Maria corre incontro a Gesù, il quale cade durante il Calvario e la invoca… a questa corsa il regista ha magistralmente sovrapposto il flashback di Gesù, bambino, che cade e della madre che corre a consolarlo stringendolo tra le braccia, sottolineando, ancora una volta, la natura umana dei personaggi e, soprattutto, dei sentimenti da essi provati. Maria, in fondo, è una ragazzina che, come tutte noi, impara a diventare madre, a conoscere e accompagnare il figlio fino alla morte incomprensibile, similmente a tanti altri figli morti in modo per noi inaccettabile. Perfino la figura di Giuseppe, suo sposo, che dovrebbe condividere con lei gioie e dolori, sembra quasi evanescente, la tradizione ne parla pochissimo, finché addirittura scompare dalle Scritture: non c’è quando Gesù muore e risorge. Ancora una volta, quindi, la figura di Maria può essere accostata a quella di tantissime donne, felici e riconoscenti per l’immenso dono della maternità, ma anche impaurite per l’incertezza del futuro dei figli e, tuttavia, restando sempre accanto a loro, lottando spesso anche contro la solitudine e contro ciò che non sempre ci è dato comprendere.

Infine, vorrei concludere fornendo alcuni dati relativi alla natalità oggi e alla condizione dei bambini nel mondo, che spero possano indurci ad una riflessione seria, capace di scuotere nel profondo anche le coscienze più assopite, soprattutto alla luce di quanto espresso finora, agli insegnamenti cioè ritrovati nelle Sacre Scritture, in cui il filo conduttore resta sempre il Bene: solo l’amore, nel senso più ampio del termine, ci può salvare e credo che le donne debbano essere protagoniste attive di un cambiamento radicale, all’insegna dell’accoglienza, dell’educazione e del rispetto della vita e della dignità di ogni essere umano.

Da anni, ormai, in Italia, si assiste ad una forte “crisi della natalità”, confermata dai dati Istat: nel 2016 sono nati nel nostro Paese 473.438 bambini, oltre 12.000 in meno rispetto al 2015. Nell’arco di otto anni (dal 2008 al 2016) le nascite sono diminuite di oltre 100.000 unità e il numero medio di figli per donna scende a 1,34 (1,46 nel 2010), e ciò sia perché le donne italiane in età riproduttiva sono sempre meno numerose, sia per la diminuzione della propensione ad avere figli. Ed è partito male anche il 2018, che nei primi tre mesi dell’anno ha visto un calo di quasi 3.000 nascite rispetto allo stesso periodo del 2017. E ancora, un articolo di Repubblica, datato 13 giugno 2018, ci informa che, secondo l’ultimo Bilancio demografico nazionale redatto dall’Istat, siamo di fronte ad un nuovo minimo storico di nascite dall’unità d’Italia: 458.151.

Ma anche la condizione nella quale versano tantissimi bambini nel mondo deve farci riflettere. Save the Children ha presentato nel 2017 il dossier “Infanzia rubata” che prende in considerazione 172 Paesi al mondo: 263 milioni di minori nel mondo (1 su 6) non vanno a scuola, mentre 168 milioni (più di tutti i bambini che vivono in Europa!) sono coinvolti in varie forme di lavoro minorile.

Sei milioni di bambini muoiono ogni anno per cause facilmente prevedibili, come polmonite, diarrea e malaria, prima di aver compiuto i 5 anni, mentre sono 156 milioni i bambini di età inferiore a 5 anni colpiti da forme di malnutrizione acuta che, ovviamente, ne compromettono seriamente la crescita.

Circa 28 milioni di bambini sono stati costretti ad abbandonare le proprie abitazioni per fuggire da guerre e persecuzioni e solo nel 2015 sono stati uccisi più di 75.000 minori. Infine, la negazione dell’infanzia riguarda anche le migliaia di “spose bambine”, costrette a contrarre matrimonio prima dei 15 anni. Secondo il rapporto, a circa 700 milioni di minori nel mondo viene negata l’infanzia.

Il Niger è il peggior Paese dove essere bambini, seguito da Angola, Mali, Repubblica Centrafricana e Somalia. Norvegia, Slovenia e Finlandia risultano essere le nazioni dove l’infanzia incontra le condizioni più favorevoli.

L’Italia è al nono posto nella classifica stilata da Save the Children, meglio di Germania e Belgio, però dietro Spagna, Francia e Gran Bretagna.

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10 Dicembre 2018

Autore:

redazione


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