Ancora una nota margine dell’incontro letterario visto a Brolo, nei giorni passati, con lo scrittore Letterio Pomara.
Turi Schepis, docente, attento osservatore delle “cose del mondo”, amante della letteratura e del buon scrivere, certamente non cristiano praticante, che ha, facendolo, colto l’essenza del viaggio verso Santiago di Compostela.
…. E’ spettato a lui introdurre “La fuerza del camino”.
Ecco integralmente il suo intervento.
L’uomo si porta dentro, come residuo di un lungo passato, l’istinto al nomadismo, la voglia di viaggiare che poco o nulla ha a che fare con il viaggio da turista.
Il nomadismo ha caratterizzato quasi tutta la vita dell’uomo, che ha iniziato ad essere sedentario solo diecimila anni fa.
Un viaggiatore moderno Bruce Chatwin parla del viaggio come risposta all’irrequietezza dell’uomo ed usa una bella immagine per spiegare la necessità del viaggiare: in qualsiasi società, nelle più diverse culture, quando un bambino piange la madre lo prende in braccio e cammina, allora il bambino smette di piangere. Il nomadismo è la risposta all’irrequietezza, è anche l’esigenza di andare oltre la linea dell’orizzonte, di varcare confini.
Il viaggiatore è uno che si pone di fronte ai posti che visita non come un fruitore, ma come uno che vuole legare quei posti alla propria esperienza, che ha curiosità di scoprire sintonie tra il proprio modo di essere e il luogo che attraversa, che viaggia con “lentezza”; se questo è il viaggio il modo migliore per farlo è a piedi seguendo percorsi che altri hanno fatto, quasi volendo trovare le orme che altri hanno lasciato, in questo caso il “cammino di Santiago” ha suggestioni proprie.
Queste suggestioni derivano dalla lunga storia del “cammino”, dal trovare lungo il “cammino” piccole chiese romaniche in paesi ora quasi scomparsi, ma che conservano una lunga storia e nel nome evocano un lontano passato, Roncisvalles, Puente de la reina, Terradillos de los templares, Triacastela, Palas de rey; dal trovare antichi “cruceiros” che costellano soprattutto l’ultimo tratto del “cammino” o resti del passato celtico come le “pallonzas” di O’ Cebreiro e, assieme a questo lontano passato, vedere quanto ancora resta di un passato recente o di un presente che tende a scomparire come gli “horreos” per conservare il grano in Galizia o le mandrie di pecore o le mucche nei pascoli, ultime testimonianze di una realtà contadina che stentatamente sopravvive. Il “cammino” è anche questo.
Il lungo percorso, circa 800 km, con i tanti momenti di sosta, è , come è scritto nella prefazione a “La ballata dei pellegrini” di Edith de la Hèronnière, l’abbandono a ciò che da mille anni si ripete identico…. E’ la scoperta di orizzonti che si aprono improvvisi e suggestivi.”
L’autore del libro che presentiamo questa sera parla del cammino di Santiago come di una metafora della vita, che è forse la definizione migliore del cammino. Il viaggio è una metafora della vita e questo spiega il fascino che il cammino ha avuto fin dal medioevo e che continua ad esercitare oggi, anche se sono diverse le motivazioni. Il modo migliore di parlare del “cammino di Santiago” credo che sia questo, credo che si debba parlare non di una lunga escursione turistica, ma di un viaggio, proprio come ha fatto Letterio Pomara e come è raffigurato nell’immagine di copertina che ritrae uno dei luoghi più suggestivi del “cammino”, il monumento al pellegrnino sull’Alto de San Roque, all’inizio di una lunga discesa dopo essere arrivati a O’ Cebreiro, il monte in cui, mi ha detto una vecchietta incontrata durante una sosta nell’interminabile salita, “il cielo si tocca con un bastone”.
Cosa spinge tante persone molto diverse ad affrontare il cammino?
Nel medioevo la risposta era apparentemente semplice: il cammino era un pellegrinaggio legato alla devozione e alla diffusa sensibilità religiosa; Huizinga ne “L’autunno del medioevo” scrive che “i santi erano figure vive, reali e familiari nella vita comune” e “avevano cristallizzato attorno a sé tanta materia fantastica”, in cui il sacro e il magico si mescolavano, quindi la devozione non era sovrapposizione alla quotidianità, ma ne faceva profondamente parte; ma la religiosità medievale questo non basta da sola a spiegare diffusione del “cammino” , una diffusione talmente ampia che anche Dante ne “La vita nova” parla di tre grandi vie di pellegrinaggio: quella per Gerusalemme, quella per Roma e quella per Santiago.
Non basta perché non si spiega come la devozione di un santo riesca a convogliare masse di persone da tutta l’Europa, anche da zone dove il culto di San Giacomo non era molto diffuso; probabilmente il fascino di quei luoghi è anteriore alla devozione verso san Giacomo e risale alle popolazioni celtiche che si sono insediate in Galizia in epoche precristiane arrivando ai confini del mondo, “finis terrae”, l’ultimo lembo di terra prima del vasto mare, prima dell’ignoto che spingeva l’Ulisse dantesco all’ultima temeraria sfida. Il pellegrino, andando a Santiago, arrivava ai limiti estremi del mondo, oltre c’era solo il vasto Oceano, il mistero; non è un caso che san Giacomo sia stato venerato anche come il protettore dei moribondi, di coloro che sono giunti alla “finis terrae” e sono di fronte all’ignoto.
La vita nel medioevo, contrariamente a quanto spesso pensiamo, non era solo chiusa all’interno dei delle curtis o dei vari feudi, ma un numero enorme di persone viaggiava, viaggiavano i mercanti, i soldati, i pellegrini ed è proprio la figura del pellegrino, di chi viaggia senza un’apparente utilità, quella che evoca maggiori suggestioni, basta ricordare il celebre sonetto di Petrarca “Movesi vecchiarel canuto et bianco”. La devozione medievale e la religiosità diffusa davano un senso e una finalità a questa spinta al “nomadismo”. Quanti pellegrini nel medioevo andavano ogni anno a Compostela? Nell’introduzione a un edizione spagnola della “Guida del pellegrino medievale” del “Codex Callixtinus” vengono riportati i dati approssimativi che calcolano tra i 200.000 e i 500.000 il numero dei pellegrini che ogni anno iniziavano il viaggio per Compostela.
Santiago inizia ad essere meta di pellegrinaggi già nel IX sec. e al XII secolo risale il “Codex Calistinux” che contiene una “Guida del pellegrino medievale” composta in ambienti del monachesimo cluniacense che lega la figura di San Giacomo alla riconquista della Spagna e alla lotta contro gli arabi, infatti uno degli appellativi di San Giacomo è “matamoros”, uccisore dei mori, anche se è preferibile l’altro appellativo, “peregrino”, ed è senza dubbio più suggestiva l’immagine di Santiago pellegrino con il mantello e il bastone al Santiago combattente che sul cavallo brandisce la spada. Fin dal 1200 si venne a creare un’intera rete di servizi di ospitalità per i pellegrini, che anticipava la diffusa presenza degli attuali “albergue” lungo il cammino e si insediarono postazioni di templari per proteggere i pellegrini.
In età moderna, soprattutto dopo la riforma protestante diminuirono le pratiche di pellegrinaggio e anche per il “cammino di Santiago” iniziò una progressiva decadenza, senza, però, essere cancellato dalla pratica dei pochi pellegrini e, soprattutto, dall’immaginario collettivo che ha continuato a trasmettere il ricordo di questa antica via di pellegrinaggio. Questa persistenza della memoria ha permesso che il “cammino” conservasse un fascino fino ai giorni nostri.
Il “cammino” è stato rilanciato in tempi recenti, nella prima metà del ‘900, quando il parroco della chiesa di ‘O Cebreiro ha iniziato a segnare il vecchio tracciato medievale. Nel 1969 il regista Luis Bunuel fa del “cammino” il soggetto del suo film “La via Lattea”, il viaggio di due pellegrini si interseca con la storia delle eresie.
Il “cammino” è diventato un itinerario popolare negli ultimi decenni e questo è legato ad iniziative di particolare rilievo: nel 1987 il Consiglio d’Europa lo ritiene un “itinerario culturale europeo”, nel 1993 viene dichiarato dall’UNESCO “patrimonio dell’umanità”, nel 1983 Giovanni Paolo II sceglie Santiago come luogo per l’incontro mondiale della gioventù; contemporaneamente i pellegrini passano dai 2491 del 1985 agli oltre 270.000 del 2010.
Da questi dati sembrerebbe che il “cammino” sia una delle tante mete del turismo contemporaneo, ma sarebbe riduttivo e, credo, profondamente sbagliato ridurre il “cammino” ad una meta turistica, anche se questa componente può esserci.
Lo scritto portoghese Josè Saramago in “Viaggio in Portogallo” descrive nettamente la differenza tra turista e viaggiatore: «In definitiva, che modo di viaggiare è questo? Fare un giro per questa città di Miranda do Douro, questa Cattedrale, questo sacrestano, questo cappello a cilindro e questa pecora, dopodiché segnare una croce sulla mappa, rimettersi in marcia e dire, come il barbiere mentre scuote l’asciugamano: «Avanti un altro». Viaggiare dovrebbe essere tutt’altro, fermarsi più a lungo e girare di meno, forse si dovrebbe addirittura istituire la professione del viaggiatore, solo per chi ha tanta vocazione, è di gran lunga in errore chi crede che sarebbe un lavoro di poca responsabilità, ogni chilometro non vale meno di un anno di vita.
Alle prese con questo filosofare, il viaggiatore finisce per addormentarsi, e quando al mattino si sveglia, ecco davanti agli occhi la pietra gialla, è il destino delle pietre, sempre nello stesso posto, a meno che non venga il pittore e se le porti via nel cuore». In quest’ottica il “cammino” non è un luogo per turisti, ma un itinerario per viaggiatori.
Il libro di Letterio Pomara si inserisce nella vasta e molto articolata bibliografia relativa al cammino di Santiago, un argomento che suscita sempre più interesse, si va dalle guide, tra cui è pregevole la “Guida al Cammino di Santiago” di Curatolo e Giovanzana, edita da Terre di Mezzo, al racconto del viaggio come nell’interessante testo di Piergiorgio Odifreddi, Sergio Valzania e Franco Cardini trasmesso su radio 3 e pubblicato con il titolo “La via lattea”, al discutibile “Il cammino di Santiago” di Paulo Cohelo. Testi che denotano sensibilità diverse: “La via lattea” è un interessante dialogo tra una ateo, Odifreddi, un credente, Valzania, e uno storico del medioevo, Cardini, che vivono insieme una comune esperienza ed ognuno vi ritrova elementi che gli sono congeniali e che suscitano inevitabili discussioni; il “cammino di Santiago” nel testo di Paulo Choelo è solo un’occasione che l’autore utilizza per dare spazio alla propria visione della realtà impregnata di misticismo new age, ma personalmente non credo che il “cammino” si presti a questa operazione, a meno che non si continui ad avere una visione idilliaca e fuorviante del medioevo.
Il libro di Letterio Pomara non è una guida turistica, non ci sono neanche indicazioni complete sulle singole tappe, è piuttosto un libro che vuole trasmettere le suggestioni del “cammino”, vuole comunicare un’esperienza, condividerla con il lettore; già il titolo, “Santiago, la fuerza del Camino”, è una chiara indicazione di lettura. Le aspettative prima di iniziare, le difficoltà, la stanchezza, ma anche la voglia di arrivare, la scoperta della “lentezza” e della necessità di adeguarsi a ritmi diversi, la sorpresa nel constatare quanto c’è di superfluo nella nostra quotidianità e quanto sia sufficiente uno zaino di 10 kg per portare quanto ci è necessario.
La lettura del libro di Pomara è utili per chi vuole fare il “cammino”, non perché ci indica il percorso, per questo ci sono le guide, ma perchè ci trasmette sensazioni, perché suscita suggestioni, ci fa sentire “la fuerza del camino”. Personalmente lo ritengo più interessante del testo forse più famoso sul “cammino”, quello di Cohelo, che potrebbe ambientarsi nella via di Santiago come in tanti altri posti.
Leggendo questo libro ho ricordato alcuni momenti del mio “cammino” iniziati a Burgos, a circa 500 km da Santiago: la vista suggestiva dei ruderi del convento di Sant’Antonio, l’arrico dopo una lunga tappa, ad Hontanas, un piccolo borgo che si vede solo negli ultimi 100 metri della tappa, la recita dei vespri nel monastero benedettino di Leon o nella chiesetta di Rabanal del Cammino, la messa a O’ Cebreiro, momenti che hanno una suggestione anche per un laico che non fa il “cammino” spinto da motivazioni religiose.
Un’immagine più di altre mi aveva particolarmente colpito, il Crocefisso della chiesa di Furelos, un Crocifisso particolare che mi ha permesso di fare una breve discussione con il parroco; Cristo è rappresentato con un braccio inchiodato alla croce e uno che abbandonato su sé stesso, ma a guardare bene l’espressione del Crocefisso il braccio non è abbandonato, ma è rivolto all’uomo, sembra quasi un invito a ricongiungere l’uomo a Dio, un segno di redenzione. Sensazioni di un laico che durante il “cammino” si è portato anche il Vangelo da leggere nelle pause, perché si può anche essere non credenti, ma sentire ugualmente il fascino della religiosità.
Il poeta spagnolo Antonio Machado in una poesia scrive “Caminante, no hay camino, / se hace camino al andar”, “viandante, non c’è sentiero, / il sentiero si crea andando”. Il “cammino” è uno dei sentieri che possiamo fare nostri percorrendolo.