La presa di posizione di “Oltre la Linea”
Il 17 aprile, cum magno gaudio, al popolo italiano verrà consentito di esercitare la propria sovranità ( ??? ) esprimendosi in ordine all’abrogazione dell’art. 6, comma 17, III periodo del D.l. n.152/2006, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”.
In altri termini, ci sarà consentito di esprimere la nostra opinione limitatamente al rinnovo o meno delle concessioni già rilasciate entro le 12 miglia marine dalla costa.
Occorre precisare, per completezza di informazione, che in ordine al possibile rilascio di NUOVE concessioni vige, a seguito della ricezione della normativa di stampo comunitario, l’assoluto divieto di ricerca, prospezione o coltivazione entro le 12 miglia.
La necessità di scrivere un articolo su un argomento così tecnico nasce da varie esigenze.
In primis dalla mancanza di oggettività, dall’approssimazione ed, in alcuni casi, dalla falsità delle informazioni rintracciate negli scritti maggiormente diffusi in rete dai sostenitori indifferentemente del SI o del NO nonché dalla mancanza del dovuto approfondimento nelle tribune politiche.
Insomma, già il popolo è “poco propenso” ad informarsi ma, in questo caso, districarsi tra la giungla delle disinformazioni è davvero difficile.
Si procederà, quindi, ad analizzare – senza pretesa alcuna di esaustività – le problematiche connesse ad un’eventuale, conseguente alla vittoria del si, divieto del rinnovo delle concessioni già esistenti con particolare attenzione anche alla rilevanza, in termini strettamente economici, del quesito referendario.
Innanzitutto occorre chiarire che, qualora dovesse trionfare il Sì, non ci saranno conseguenze rivoluzionarie. Gattopardescamente, tutto cambierà per rimanere uguale.
Infatti, l’abrogazione dal paragrafo III delle parole suddette comporterà solamente il mancato rinnovo delle concessioni. Di conseguenza, non ci sarà alcuno stop immediato di tutte le trivellazioni entro le 12 miglia.
Più precisamente, poichè le concessioni sono state stipulate in tempi diversi, le più vecchie scadranno pressappoco entro 5 anni, mentre le più recenti rimarrebbero in essere anche per altri 20. Dunque, nottetempo, nessun licenziamento in tronco di migliaia di poveri operai, nessun arresto dell’economia industriale italiana, nessuna sorpresa in bolletta o alla pompa di benzina, nessun passaggio dall’autosufficienza energetica alla dipendenza dai paesi stranieri.
Difatti, non stiamo mica parlando di centinaia di piattaforme d’estrazione che verrebbero spazzate via dallo tsunami abrogatorio, bensì il quesito riguarda, secondo i dati rinvenuti sul sito del ministero dello sviluppo economico, 44 concessioni di coltivazione di idrocarburi1, per un totale di 92 piattaforme di cui 48 eroganti, 31 non eroganti, 8 non operative e 5 solo di supporto alla produzione2.
Ai fini della valutazione globale dell’impatto del referendum, occorre tenere in considerazione che, in totale, le 135 piattaforme marine di concessione italiana estraggono il 10% del fabbisogno nazionale di gas ed una percentuale risibile di petrolio. Una quantità palesemente insufficiente a soddisfare il fabbisogno interno e che sottolinea quanto l’Italia sia un paese che, dal punto di vista energetico, vive quasi esclusivamente d’importazioni. Altro che “energia a km 0”!
Oltretutto, ricordiamo di stare parlando della produzione TOTALE delle piattaforme presenti e non delle 92 d’interesse3. Quindi, a fronte di un calcolo puramente matematico, che non tiene conto né delle dimensioni dei giacimenti né di quanto siano stati sfruttati né di quanto venga realmente estratto da ciascuno di essi, si tratta, approssimativamente, del 6,5% del fabbisogno nazionale di gas.
Inoltre, è importante evidenziare che quello relativo alle quantità estratte da ciascuna piattaforma è un dato posseduto solo dalle agenzie che estraggono i combustibili fossili; nessuno sa neanche con esattezza quanto siano le riserve presenti, né tantomeno quanto a lungo queste saranno sfruttabili.
Giusto per dare un’idea, i giacimenti da cui pescano le “nostre” trivelle sono piuttosto piccoli se paragonati a quelli messicani, venezuelani o del Qatar.
Più complessa è la questione dell’impatto ambientale, sul quale vi sono ampi contrasti nella letteratura scientifica e poche certezze.
Mettendo da canto la questione dell’impatto visivo, che potrebbe suscitare prevalentemente l’orrore degli animi più romantici, soffermiamoci su quella dell’inquinamento strictu sensu.
Secondo i dati forniti dall’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), le attività delle piattaforme potrebbero rilasciare sostanze chimiche inquinanti e pericolose nell’ecosistema marino, come olii e greggio (nel caso di estrazione di petrolio) nonchè metalli pesanti (cromo, cadmio, mercurio, arsenico, piombo, nichel etc..) ed altre sostanze contaminanti (anche nel caso di estrazione di gas), con gravi conseguenze sull’ambiente circostante.
Inoltre, tali dati sono stati analizzati da Greenpeace, nel report “Trivelle fuorilegge”, in cui viene evidenziato innanzitutto come non tutti i dati delle ispezioni ambientali siano disponibili, cosa che limita la trasparenza dei controlli e che la maggior parte delle piattaforme analizzate ha almeno un valore che eccede i limiti stabiliti per legge, sebbene tale dato possa variare da un anno all’altro.
Anche la ricerca del gas e del petrolio, che utilizza la tecnica dell’airgun (esplosioni di aria compressa), incide in particolar modo sulla fauna marina e su attività produttive come la pesca.
Inoltre, bisogna tenere in debita considerazione che i mari italiani sono mari “chiusi” e un eventuale incidente sarebbe fonte di danni incalcolabili con effetti immediati e a lungo termine su ambiente, qualità della vita e con gravi ripercussioni sull’economia turistica e della pesca.
Quanto alla possibilità di incidenti, è netta la minore probabilità che questi si verifichino su una piattaforma moderna rispetto ad una petroliera stracarica di greggio, considerando che quotidianamente ne transitano centinaia per i nostri mari.
Alcuni ambientalisti, inoltre, si appellano al buonsenso dei lettori evidenziando come le attività di trivellazione siano alla base di terremoti e fenomeni di subsidenza, spesso gonfiando un po’ la realtà dei fatti per sfociare in un sano terrorismo mediatico.
Senza volersi addentrare eccessivamente nell’argomento, in genere le trivellazioni petrolifere si approfondano sufficientemente da evitare notevoli subsidenze, la cui entità dipende prevalentemente dalla geologia del giacimento. Il petrolio non è contenuto in enormi laghi sotterranei, bensì all’interno di rocce porose: man mano che viene estratto, i pori vengono riempiti da acqua, gas ad elevata pressione o anche semplicemente aria, che forniscono oltretutto parte della spinta necessaria a pompare il petrolio in superficie.
Nella maggior parte dei casi, le rocce riescono a sopportare il peso di tutto ciò che grava su di esse anche quando i loro pori sono vuoti e quindi non v’è la pressione di alcun fluido al loro interno a supportarle. Ma alcune tipologie di esse, particolarmente quelle più superficiali, collassano quando vengono svuotate del petrolio che contengono e quindi si compattano: ecco che si verifica la subsidenza, il cui effetto a largo della costa è piuttosto ininfluente sulla conformazione della terraferma.
Qualora però fosse di notevole entità, potrebbe anche verificarsi qualche sisma associato ad essa, in genere di magnitudo inferiore a 2 gradi Richter ed ipocentro poco profondo.
Per quel che concerne poi l’aspetto economico, nel caso in cui si avesse una vittoria del Sì, l’impatto sarebbe risibile.
Come già chiarito, la produzione di idrocarburi a fronte del fabbisogno nazionale è irrisoria: siamo dipendenti dal gas straniero per il 90% e dal petrolio per circa il 95%.
Dopo la progressiva chiusura dei giacimenti lo saremmo un po’ di più per il gas, ed una percentuale più trascurabile per l’olio.
Inoltre, uno dei cavalli di battaglia dei sostenitori del No è lo spauracchio del licenziamento di migliaia di operatori del settore, che si andrebbero ad aggiungere alla marea di disoccupati italiani.
Ovviamente tale pericolo si potrebbe presentare nel corso degli anni allo scadere delle prime concessioni, ma non dobbiamo dimenticare che la maggior parte dei pozzi entro le 12 miglia sono già stati ampiamente prosciugati e quindi, anche se è impossibile determinare la loro durata, anche perché, come vedremo in seguito, per varie ragioni il loro sfruttamento non è intensivo, si arriverà comunque al loro esaurimento con conseguente chiusura della piattaforma e, al pari, al rischio di licenziamenti o ricollocazioni.
In altre parole, non vi è un rischio di licenziamento di massa in quanto a progressive chiusure potrà farsi fronte mediante il ricollocamento in altre piattaforme.
Ancora, alcuni sostenitori del Sì ritengono che la vittoria della loro posizione comporterebbe una spinta ulteriore verso l’utilizzo delle energie rinnovabili. Ciò che molti non sanno è che, in Italia, circa il 40% dell’energia elettrica e termica è prodotto grazie a fonti energetiche rinnovabili o verdi, una percentuale tutt’altro che bassa.
Il problema di fondo delle energie rinnovabili è la loro intrinseca aleatorietà: la produzione elettrica dipende da fattori prettamente indipendenti dall’azione dell’uomo, per cui un giorno questa potrebbe essere elevata, il successivo praticamente nulla. Pertanto, vi è bisogno di impianti di grosse dimensioni capaci di produrre picchi energetici molto elevati, nei giorni buoni, in modo che la produzione media sia capace di colmare la domanda elettrica.
Conseguentemente, per far fronte ai picchi di produzione energetica, anche le linee devono esser potenziate, altrimenti collasserebbero non appena questi vengono raggiunti.
Ergo, ulteriori spese per ampliamenti degli impianti e potenziamenti delle infrastrutture, ovviamente sovvenzionate dai cittadini con i prezzi esosi delle loro bollette.
Nel mentre, i privati si arricchiscono spropositatamente grazie al “business del verde”, ricavando duplici introiti: vendita dell’energia da un canto, dei certificati verdi dall’altro.
Un’attraente alternativa nel mondo delle energie rinnovabili è data dal biometano, che costituisce un concreto concorrente al gas di origine fossile. Stando a quanto affermato dal Consorzio Italiano Biogas, questa fonte sarebbe capace di ricoprire oltre il 15% dei consumi creando, nel mentre, anche 12.000 nuovi posti di lavoro.
Questo settore, fiorente in paesi quali la Germania, è taciuto e tenuto in stallo in Italia, dove finora non è stata fissata alcuna regola relativa all’immissione del biometano nella rete da parte di aziende o discariche.
Altro punto che assume un peso considerevole ai fini della scelta in ordine al Sì o al No è quello relativo ai guadagni delle società di estrazione ed a quelli dello Stato.
Ed anche qui, prima di entrare nel dettaglio, è più che opportuno sottolineare che il solo proprietario degli idrocarburi presenti nei fondali sottostanti al mare territoriale, è il popolo; essi, al pari dell’acqua o dell’aria, vanno inquadrati come beni comuni e la ricchezza prodotta dai medesimi dovrebbe ritornare, quantomeno in termini di qualità dei servizi offerti dallo Stato, al popolo stesso. In realtà, anche in questo settore, come negli altri, nulla di tutto ciò accade.
Agli italiani dei guadagni enormi realizzati dalle società che si occupano, in seguito alla concessione da parte dello Stato, dell’attività di estrazione e delle attività connesse, non rimangono che misere briciole.
Dismettere un impianto ha costi altissimi per cui i concessionari estraggono il minimo possibile sia per non esaurire il giacimento ed, indi, per non affrontare i costi suddetti, ma anche perchè il pagamento delle royalties in favore dello Stato è vincolato alla produzione. Esse sono pari solo al 10% per il gas e al 7% per il petrolio in mare.
Sennonchè, la legislazione in vigore stabilisce che sono esenti dal pagamento di aliquote allo Stato le prime 20 mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente in terraferma, le prime 50 mila tonnellate di petrolio prodotte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi standard di gas estratti in terra e i primi 80 milioni di metri cubi standard in mare: cioè, entro quei limiti le concessionarie non verseranno alcunchè nelle “nostre” casse, con il risultato concreto che nel 2015, sul totale di concessioni produttive, solo 5 di quelle concernenti gas e 4 riguardo il petrolio hanno pagato le royalties. Tutte le altre hanno estratto quantitativi tali da rimanere sotto la franchigia e quindi non versare il pagamento a Stato, Regioni e Comuni.
Tra l’altro giova evidenziare come le percentuali stabilite nel nostro paese sono le più basse d’Europa: in Danimarca, dove non esistono più royalties ma si applica un prelievo fiscale per le attività di esplorazione e produzione, questo arriva fino al 77%; in Inghilterra può arrivare fino all’82% mentre in Norvegia è al 78% a cui però bisogna aggiungere dei canoni di concessione. Secondo la ricerca condotta da Legambiente «se in Italia avessimo portato le royalties al 50%, nel 2015 ci saremmo trovati invece che con un gettito di 352 milioni di euro con uno da 1.408 milioni».
Come se non bastasse le royalties si possono ovviamente dedurre dalle tasse: altro regalo sostanzioso a beneficio delle sole imprese concessionarie e a danno dei proprietari!
Più che un referendum abrogativo, non sarebbe stata meglio una proposta di legge per l’innalzamento della percentuale delle royalties? Avremmo avuto un duplice effetto positivo, l’aumento degli introiti per lo Stato, e più fondi da destinare allo sviluppo delle energie c.d. verdi.
In conclusione, la questione va inquadrata, a parere di chi scrive, alla luce non tanto dei dati tecnici, i quali non fanno altro che sottolineare, in realtà, come il quesito su cui il popolo italiano è chiamato ad esprimersi non sia rilevante, ma alla luce della propria visione del mondo.
Sappiamo infatti che le quantità di petrolio e di gas estratte dai giacimenti interessati dal quesito sono irrisorie sia rispetto al totale di quelle estratte sia rispetto al fabbisogno nazionale, dunque un’eventuale abrogazione della norma non cambierebbe lo status quo, non rappresenterebbe una battuta d’arresto per l’economia italiana, non danneggerebbe le tanto odiate multinazionali, non risolverebbe la questione dell’impatto ambientale, né la aggraverebbe, non ci libererebbe dalla dipendenza dai combustibili fossili: insomma, una volta analizzate, tutte le ragioni sulle quali sia i sostenitori del Sì che quelli del No basano la loro scelta si sciolgono come neve al sole.
Chi scrive si rifà ad una visione spirituale della vita, di conseguenza ritiene che l’uomo non sia al centro del mondo ma, piuttosto, ne faccia parte ed, in quanto parte, non può servirsi in maniera dissennata delle sue risorse, come da secoli fa. Abbiamo il dovere di trasmettere ai nostri figli non solo un mondo più giusto ma anche un mondo sano, bello ed armonico.
Ai profitti, al progresso anteponiamo il rispetto della natura e di tutte le forme di vita che la animano. Per tale ragione, riteniamo che sia doverosa la ricerca incessante e l’investimento su fonti energetiche pulite. E a chi asserisce che ciò non sia “ conveniente” noi rispondiamo che compito dello Stato dovrebbe proprio essere quello di andare oltre gli interessi individuali ed egoistici e perseguire quello che è il bene comune, investendo laddove nessun privato farebbe proprio in quanto anti-economico, almeno nel breve periodo.
Noi “occidentali” sembriamo essere stati avvelenati dal capitalismo, sul suo altare stiamo sacrificando non solo la terra, i fiumi ed i mari, ma anche intere nazioni.
Eppure ci sono popoli, che reputiamo tribali, sottosviluppati, che non vendono la loro terra, la loro dignità per il vile denaro, per il progresso e che in nome di questa libertà hanno impugnato le armi. Chiedete loro se permetterebbero di trivellare il loro mare.
Leandro Calanna
Diana Gerace
Oltre la Linea…del pensiero unico.
Oltre la Linea…del pensiero borghese.
Oltre la Linea…del politicamente corretto.
https://www.facebook.com/Oltre-la-Linea-Messina-462241247318341/?fref=ts
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.