Da anni ormai le nostre condizioni materiali di vita vanno peggiorando. I salari perdono potere d’acquisto, i diritti diminuiscono, le possibilità d’impiego sono sempre più rare, la flessibilità è diventata norma e stile di vita, le città nelle quali viviamo sono sempre più invivibili, i servizi sempre meno garantiti, le libertà sempre più compresse. “Noi la crisi non la paghiamo” abbiamo urlato per le strade. Ma non è stato così. Noi la crisi l’abbiamo pagata. E continuiamo a pagarla.
Ogni nuova manovra economica è una minaccia di ulteriori sacrifici da fare. Così, ancora meno servizi, salari sempre più bassi, distruzione dell’istruzione pubblica, abbandono del trasporto pubblico, ulteriore compressione dei diritti, politiche securitarie, speculazioni sui nostri territori, mercificazione di ogni ambito della nostra vita. Fino alla privatizzazione dell’acqua, il bene più comune. Ci siamo battuti. Abbiamo occupato scuole e università per difendere il sapere, abbiamo difeso i nostri territori dall’aggressione della speculazione del cemento e della finanza, abbiamo difeso la nostra dignità in fabbrica, abbiamo continuato a migrare per pretendere una vita migliore, abbiamo difeso il bene comune. Abbiamo vinto, qualche volta. Abbiamo difeso l’acqua pubblica e ci siamo difesi dal nucleare.
Abbiamo avuto anche la capacità di resistere, come è stato nel dicembre studentesco romano o nel torrido luglio valsusino. Nel nostro territorio, nell’area dello Stretto, ci siamo battuti e ci battiamo contro il progetto inutile e devastante del Ponte, per il quale sono già stati spesi 500 milioni. Risorse pubbliche che non hanno dato nulla agli abitanti e che avrebbero potuto rispondere, almeno in parte,
alle domande di difesa del territorio, di reddito, di welfare. Una classe politica locale incapace continua a coltivare la speranza di un impossibile scambio tra devastazione del territorio e flussi di denaro: a noi rimarranno le devastazioni, ai pescecani degli appalti pubblici i soldi. Oggi tutti questi percorsi li dobbiamo mettere insieme. Le lotte di questi anni devono dare vita ad un percorso comune se
vogliamo davvero fare pagare la crisi agli speculatori, a chi si è arricchito sull’impoverimento e sulla precarizzazione, a chi ha fatto dell’evasione fiscale un metodo, a chi gode di patrimoni enormi, a tutte le caste che si sono annidate negli interstizi della politica e dell’amministrazione. Noi sappiamo bene che questa crisi è strutturale. E sappiamo altrettanto bene che da essa si uscirà solo con un
mutamento radicale del modello economico e di società o con una catastrofe sociale.
La nostra piattaforma ha un solo punto: la crisi la paghino i ricchi. La crisi la paghino le banche, gli speculatori, le caste. L’autunno che viene dovrà essere un autunno di mobilitazioni, un autunno caldo. Gli appuntamenti preannunciati sono tanti e la giornata del 6 settembre è solo un passaggio di questo percorso. Una giornata che attraverseremo portando in piazza la necessità del conflitto sociale,
senza il quale sarà impossibile difendere le nostre condizioni di vita. Fin da oggi guardiamo al 15 ottobre, giornata dell’indignazione globale indetta dagli acampados spagnoli e che diventerà, ne siamo certi, il momento di confluenza di tutti i movimenti sociali.

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