“An evening with Pat Metheny”. Straordinario concerto del grandissimo chitarrista americano che venerdì sera ha entusiasmato il pubblico che gremiva la cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. Per la prima volta nessun album o progetto ha caratterizzato la sua performance. Il concerto è stato infatti articolato su una vera e propria “antologia” del chitarrista, con pezzi tratti dal suo repertorio storico.
Un’occasione unica per gli appassionati, ai quali Pat Metheny ha regalato 2 ore e 20 minuti di concerto con due uscite finali. Ad accompagnarlo in questo tour mondiale, partito un anno fa, il batterista messicano Antonio Sanchez, la contrabbassista malese Linda May Han Oh e il pianista britannico Gwilym Simcock.
La sera precedente, con analogo repertorio, il quartetto si era esibito a Umbria Jazz. Proposti brani tratti da album che hanno segnato un’epoca, da “Bright size life”, suo primo lavoro del 1976, a quelli più recenti, passando per alcune “pietre miliari” della sua carriera, come “P.M.Group”, Offramp, “Travels”, “Still Life”, “Secret Story” e “I Can See Your House from Here”. Emozionanti gli assoli finali, con i celebri medley in cui Metheny ripercorre la sua storia. In avvio, come di consueto, il chitarrista del Missouri ha fatto “vibrare” la famosa Pikasso a 42 corde.
Compirà 64 anni il prossimo agosto, ed ha un’energia invidiabile. Pat Metheny è sempre lì, instancabile, sui palchi in giro per il mondo, ad imbracciare le sue mitiche chitarre che accendono emozioni ovunque. Aveva appena 22 anni quando con Jaco Pastorius e Bob Moses per ECM incise “Bright Size Life”. Ebbene, a distanza di 42 anni, quei brani, evidentemente frutto di una preparazione e precocità musicale difficilmente eguagliabili, tornano alla ribalta, deliziando gli appassionati di jazz con tutte le sue contaminazioni. E’ un tuffo nella storia, un bagno d’emozioni dettate da un percorso di vita artistica in cui ad un certo punto il “genio” del Missouri ha messo uno stop, seppur momentaneo: l’arte della chitarra methenyana non si può inflazionare, piuttosto è da riproporre, da rivisitare. Così, nel 2017 è partito un tour mondiale senza uno specifico album o progetto cui fosse ispirato, che quest’anno ha portato Pat Metheny in Italia. Il 20 luglio è stato a Roma, la sera precedente a Perugia, arena di Santa Giuliana, per Umbria Jazz, sul palco già “caldo” dalla prestazione del quintetto di Kyle Eastwood, figlio di Clint. Altri concerti di Pat Metheny col suo quartetto sono in programma in Italia in questi giorni. Solo brani storici, che in virtù del susseguirsi di progetti e nuove incisioni, con l’avanzare di una carriera strepitosa, avevano perso visibilità. Fa eccezione solo qualche pezzo inedito, pronto per l’album che verrà. Ecco allora, vedere riproposti i passaggi salienti della “Metheny story”, con una formazione nuova, assemblata ad hoc per la tournée: il batterista messicano Antonio Sanchez, che con Metheny condivide un’esperienza ormai quasi ventennale, la contrabbassista malese Linda May Han Oh e il pianista britannico Gwilym Simcock.
Roma Summer Fest 2018. L’evento: “An evening with Pat Metheny”. Venerdì sera, la cavea dell’Auditorium Parco della Musica era gremita: oltre 2700 persone hanno seguito appassionatamente il chitarrista in questo suo viaggio musicale su un repertorio lungo oltre quarant’anni.
Nonostante si trattasse di brani storici, non è stata eseguito “Are You Going with Me”, il più famoso del Pat Metheny Group. E questa è una notizia. Ma dinnanzi alla riproposizione di tanta grande musica in 2 ore e 20 di concerto, estratta come per incanto dallo scrigno dei ricordi di Metheny, tale mancanza è ancor meno di un peccato veniale.
Il concerto. Come consuetudine degli ultimi anni, l’inizio del chitarrista è un viaggio introspettivo, la narrazione di un sogno attraverso magiche corde che intrecciano il loro suono e arpeggi che si susseguono. Un assolo nel segno di Pikasso, la super chitarra ideata da Metheny, un prototipo da 42 corde, i cui effetti acustici fanno vibrare l’auditorium. Dopodiché balzo in avanti, musicisti sul palco, Gibson semiacustica tra le braccia in tempi record, col primo pezzo corale della serata: “So May It Secretly Begin”, da Still Life (Talking), 1987, brano scorrevole e avvolgente che riscalda la platea. Ancor più intensa e passionale è la fusion di “Bright Size Life”, in versione ampiamente rivisitata, dall’omonimo album del 1976, il primo dell’artista. Dallo stesso lavoro è tratto “Sirabhorn”, con un’articolazione lenta con cadenza stile anni 70. In evidenza il contrabbasso di Linda May Han Oh, che così si ripresenta al pubblico romano. Sin da subito, tuttavia, è il batterista Antonio Sanchez a rivelarsi il più affine al chitarrista americano per stile e tecnica. Dopo gli anni 70, balzo nuovamente verso “Still Life” con la veloce “Third Wind” spezzata da uno straordinario assolo di batteria. Invero si fa sentire, eccome, l’assenza degli effetti prodotti dall’ensemble stellare del Pat Metheny Group, quantunque al piano Gwilym Simcock, nelle occasioni che gli si presentano, si difenda benissimo dinnanzi a chi sente l’assenza di Lyle Mays.
Emozioni da brivido: è il momento di “Always and Forever”, da “Secret Story”, 1992. E’ un duo chitarra/contrabbasso con le note di Metheny che assumono morbidezza e profondità con l’appoggio di Linda May. Intermezzo nel segno di un superveloce jazz elettrico e una fusion leggera. Dopodiché la storia riprende il proprio corso: “James”, brano capolavoro da “Offramp”, 1981, interamente ripreso rispetto all’originale con passaggi che il chitarrista americano reinterpreta in chiave jazz-rock. Ottimo lavoro intorno ad una superlativa batteria che ad un certo punto duetta magnificamente col basso. Davvero un gran pezzo. Stesso atteggiamento in “The Red One”, tratto da “I Can See Your House From Here” inciso nel 1994 con John Scofield. Invero, il brano partiva già da un notevole jazz elettrico, adesso ulteriormente potenziato. Probabilmente si tratta del pezzo in cui il quartetto dà il meglio di sé quanto a interplay. Riecco la chitarra acustica per il primo, straordinario medley.
Giusto un paio di minuti e come per incanto arriva “Farmer’s Trust”, da “Travels”, 1983. Brano splendido dove il carisma di Pat Metheny emerge assieme ai tocchi delicati sulle corde della chitarra. E’ unico nel far apparire semplici le cose difficili. A seguire, due brani inediti in cui il dialogo tra i musicisti svela tutta la loro bravura. Dopodiché, ancora un frammento di storia indimenticabile: “Face Dance”, 1978, da “Pat Metheny Group”. Qui tra Metheny e Simcock c’è grande reciprocità e complicità. Fioccano applausi. In prossimità delle due ore di concerto arriva una performance su sfondo di chitarra synth dove si fondono tecnica e improvvisazione. Dopodiché, uscita e rientro dei musicisti: spazio per il tanto atteso secondo medley in solo con chitarra acustica, quello più corposo.
Subito “Minuano (Six eight)” e sono applausi che sfogano emozioni. Seguono: “September Fifteenth”, “Antonia”, “Chris”, che sarà un tutt’uno, a seguire, con “This is not America”, nella ricostruzione del tema della colonna sonora di “The Falcon e The Snowman”. Chiusura del medley con l’immancabile “Last Train Home”. E’ un’ovazione generale. Pat Metheny saluta ed esce, ma il pubblico non si rassegna, lo rivuole sul palco. Così sarà. Con “Song For Bilbao” si chiuderà il sipario sull’ennesima serata di grande musica concessa a Roma da Pat Metheny.
Un concerto da “antologia”, con oltre quarant’anni di storia dentro e oltre i confini del jazz, da parte del vincitore di 20 Grammy Award, recentemente entrato nella Downbeat Hall of Fame come musicista più giovane e quarto chitarrista, dopo Django Reinhardt, Charlie Christian e Wes Montgomery. In ultimo, per Pat Metheny, la nomina alla NEA – National Endowment for the Arts, Jazz Master.
Siamo di fronte a una “leggenda” vivente della musica, nata in Missouri e consegnata al mondo, che con le sue chitarre non finisce mai di stupire e appassionare.
Corrado Speziale