– di Saverio Alabanse – Sanremo– Domani notte intorno all’una, sparemo chi sarà il vincitore di questa 61esima edizione della kermesse canora più prestigiosa del Bel Paese: una cosa è certa, l’arte portata sul palco del teatro Ariston dal professore Roberto Vecchioni con il brano “Chiamami amore”, fortemente impegnato, com’è nel suo stile, ha toccato il diapason del pubblico in sala e della vasta platea televisiva pubblico che ogni sera segue il festival. La sua partecipazione è frutto sopratuttto della grande amicia di vecchia data con il presentatore Gianni Morandi: “Sono venuto altresì per dimostrare, o per ribadire, che la canzone d’autore non può più essere una canzone di nicchia–ci ha confidato Roberto Vecchioni– destinata ai soliti appassionati. Il festival ti consente di arrivare ad un certo numero di persone di ogni età e di ogni formazione. In fondo è un modo per gettare semi dappertutto. Sono sempre stato convinto che ogni espressione d’arte, e quindi anche la canzone, deve cercare codici, registri, canali per penetrare in contesti sempre più ampi. Mi pare che questa sia stata e sia una delle funzioni essenziali della cultura”.
Questa sua poesia sanremese, è nata, però, in circostanza strane: “E’ vero, perché è nata per caso a Roma: una sera non riuscivo a prendere sonno e mi sono venuti dei flash di quando ero bambino. I prati verdi, con i ruscelli puliti nei periodi in cui andavo in vacanza con i miei genitori in Valle d’Aosta e poi il periodo in cui frequentavo l’università –ricorda con grande nostalgia Roberto Vecchioni –. Non eravamo tipi violenti, parlavano tra di noi insieme alle ragazze, volevamo cambiare le cose ed ho pensato che siamo una grande nazione. Che bella che è la cultura, innamorarsi delle cose solo a guardarle: una bella donna, un quadro fino alla commozione. E poi abbiamo i grandi scrittori italiani. La cultura è vita e verità, non è astratta. Ci può essere più altezza di poesia in una piccola cosa, in una canzone. Tutto questo e… improvvisamente buio, almeno nell’ulitmo ventennio”.
In tutte le sue canzoni e nei suoi libri lei ha sempre parlato d’amore, così come nel brano con cui sta partecipando alla kermesse canora: “Chiamami amore è una canzone che io trovo singolare, molto particolare. È una canzone d’amore dalle molte sfumature, tessuta di riflessi, di riferimenti alla realtà. Mi rivolgo a chi ci crede, a chi ha un pensiero per noi, a quelli cui rivolgiamo i nostri pensieri. Parlo ai miei studenti, a mia moglie, ai miei figli, ai miei amici, a tutti quelli che amo, ai miei affetti. Dico quali sono le ragioni per le quali le cose non vanno come dovrebbero andare. Ma è anche una canzone di grande speranza. Dico: Tu devi continuare a chiamarmi amore perché questa maledetta notte dovrà pur finire”.
Il senso essenziale delle storie d’amore che racconta il poeta Vecchioni stanno nella valenza magica del parlare d’amore. Ogni parola che dice l’amore è la celebrazione di un incantesimo. È il continuo parlare d’amore che costringerà l’amore a vincere. “Ogni volta che dalla nostra bocca esce una parola d’amore – prosegue il cantautore– il mondo si ricorda della speranza. È una canzone di difesa delle idee. Delle idee che vengono prima di tutto e restano quando tutto è finito, delle idee che sopravvivono agli uomini e che cambiano i destini di ciascuno e della Storia. Perché le idee sono il sorriso di Dio nell’universo. Quando Dio sorride l’uomo ha un idea. Quando l’uomo ha un’idea, Dio sorride”.
Un gradito ritorno per il professore Roberto Vecchioni che, dal teatro Ariston, è assente dal lontano 1973, quando, si esibì con “L’uomo che si gioca il cielo a dadi”. Un testo che raccontava una straordinaria figura di padre, di un uomo capace di giocarsi il cielo a dadi anche con Dio. Una canzone intelligente, che non riscosse un grande successo. In questi quattro lustri, però, molte cose sono cambaite: “In Italia è cambiato tutto e non mi riferisco soltanto al costume, alla morale, alla politica. E’ un discorso lungo e se ne parliamo non ha via di uscita. Se prendiamo questo discorso non finiamo più. Neppure mi riferisco solo al modo di vedere e giudicare i fatti che accadono, di confrontarci con le cose che ci riguardano. È cambiato tutto e quindi anche la musica, il modo di farla, l’attenzione e la disattenzione nei suoi confronti. Fare musica oggi è difficilissimo; è una fatica tremenda. Può sembrare strano, ma oggi la novità fa paura. Si resta lontani dalle cose che hanno spessore, che hanno qualità, dallo sguardo che cerca di scandagliare le profondità. C’è una tale e diffusa abitudine ai prodotti di massa che una proposta nuova, o diversa, impaurisce. Non viene accettata”.
Una situazione davvero incresciosa, allarmante: “Questa è la realtà attuale, perchè fare musica, di questi tempi ,significa fare resistenza. Anche per chi ha un certo passato, per chi ha fatto tante cose e si è creato un pubblico attento, affezionato. Ovviamente per i giovani che hanno qualcosa di diverso da dire diventa tutto più difficile. Gli spazi si restringono sempre di più. I processi si fanno sempre più complicati”.
Quali potrebbero essere le soluzioni, secondo lei, più favorevoli per uscire da questa situazione di stallo? “Bisogna combattere contro la banalità, la superficialità. Pure Sanremo va bene, perché a me dà la possibilità di parlare tanto con quelli che conoscono la canzone d’autore quanto con quelli che non la conoscono. Stabilire un rapporto con altre e nuove sensibilità per me è una cosa fondamentale”.

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