Sbarchi & Guerra – 72 anni anni fa gli americani a Malpertuso
Cronaca, Cronaca Regionale

Sbarchi & Guerra – 72 anni anni fa gli americani a Malpertuso

Acquisizione_a_schermo_intero_12082013_180833E Brolo vide “passare”  la Guerra

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Lo sbarco di Brolo, meglio denominato “Operazione Brolo Beach” inizia la notte tra il 10 e l’11 agosto.

La piana di Malpertuso, monte Cipolla con i suoi nidi di mitragliatrici, le paure di chi, allora bambini assisteva alle incursioni dei  Messerschitt – le “rondini” tedesche che supportavano gli assaltatori della Panzergrenadier Division – diventarono ieri come oggetto oggetto di ricordi e riflessioni.

Tutto – allora -è stato seriamente documentato grazie anche alle foto dell’archivio storico Pidonti e di quelle dei fotoreporter di guerra a seguito delle truppe americane e tedesche. Grzie alle  mappe e ai documenti ufficiali si potè accertare come il “gigante” americo peccò di arroganza,  fece malei suoi conti, e nellapiana di malprtuso perse una bellaoccasione per accorciare i tempi della guerra. A Pagare tutto ciò furono anche i brolesi, tra bombardamenti,incursioni aeree e la morte che sfiorò le case abbandonate,ma non tutti,perchè tanti erano sfollati a Matini e Lacco.

Prezioso per ricostruire quei fatti un libro, quello scritto sull’evento da Basilio Maniaci. Documentato e preciso.

Lui bambino vide tutto dal Lacco dove abitava.

Un libro che divenne anche una mostra fotografica che qualche anno addietro venne esposta alla Sala multimediale “Rita Atria” di Brolo.

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Agosto 1943, Brolo è sotto la tempesta di fuoco della prima ondata di 12 bombardieri americani A-36 che verso mezzogiorno dell’11 agosto si misero a sganciare una pioggia di bombe su Monte Cipolla, seguiti, a rotazione, da una seconda ondata di altrettanti bombardieri e, poco prima delle 17, da 24 aerei tedeschi F.W.-190.

Il “fuoco amico”, che a causa di segnalazioni sbagliate bombardò Monte Cipolla, fece più vittime di quello dei nemici. Tra i soldati americani si contarono 99 morti. Tra i tedeschi si suppone che il numero delle vittime sia stato molto più pesante. – Descrive così quei momenti Basilio Maniaci nel suo libro e aggiunge –

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Nell’operazione Brolo Beach il rilevato ferroviario alto circa 4 m, i sottopassaggi strettissimi, i limoneti fittissimi e le saie in lungo e in largo, cosituirono altrettanti ostacoli per l’avanzata dei carri armati, dei cannoni semoventi e degli attrezzi meccanizzati verso Monte Cipolla.

Si fece ricorso alle bestie da soma per il trasporto di munizioni per mitragliatrici e mortai.

Ma le salmerie non riuscirono a rifornire i soldati americani per il sacrificio di 15 uomini e 13 bestie da soma al bivio per Ficarra.

Alla fine, la conquista del Monte Cipolla si trasformò in una furiosa battaglia (l’ultima di Sicilia) con l’intervento delle forze di terra, di mare e di cielo”.

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Attimi lunghissimi, giorni pesanti con intere famiglie sfollate a Lacco, nella chiesa, tra le famiglie di quel borgo.

“La chiesetta della Madonna Maria SS. Addolorata di Lacco e alcune casette della frazione nebroidea dove, durante le cruenti fasi dell’”Operazione Brolo Beach”, qui c’erano gli sfollati brolesi.

I tetti a tegole e le mura in pietra delle strutture fanno intendere quanto il Paese fosse impreparato ad affrontare la guerra costringendo le persone a trovare mezzi di fortuna per ripararsi dai bombardamenti”.

Di quel tempo rimane a Brolo anche una lapide, al cimitero, che ricorda tre soldati tedeschi “senza nome”, tre morti “sconosciuti”, che negli scontri del secondo conflitto, persero la vita durante lo sbarco, morti sulla piana di Brolo proprio all’epoca dello sbarco degli alleati a Malpertuso. Dimenticati anche dal loro Stato, lasciati tra i rovi di Malpertuso da un esercito  in rotta ma non domo, che proprio grazie agli sbagli americani, ebbe il tempo di ricompattarsi e continuare la guerra per lunghissimi mesi.

Rimangono i ricordi di chi tornò, chi perse la vita sui vari fronti, e che ora sono foto ingiallite “o petraru”, la statua di Santa Rita .. qualche medaglia

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Una storia triste, lo sbarco di Brolo,  raccontata dalle nonne, ricordata nelle bettole dai “vecchi”, che parlavano anche della vecchia “miniera” di Jannello diventata ostello di guerra, e che ricordano anche le violenze degli alleati sulla popolazione, la paura per i “marocchini” . Storie anche di alcune “ciociare brolesi”, storie occultate per il senso di morale e di protezione.

Storie che parlano anche della morte di un ragazzino – Santo Campo, figlio di Salvatore – ucciso da una jeep americana, e per la quale nessuno ha mai  pagato.

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Episodi che disegnano la storia di una Brolo sotto i bombardamenti.

E dice ancorta Maniaci “Si tratta di naturali ricordi di storia locale, e non di celebrazioni. Poiché se Historia est magistra vitae ne deriva, conseguentemente, che la vita dipende dalla maggiore o minore consapevolezza che uno ha della storia.

Sciogliere un po’ di passato nel proprio sapere, quindi, è naturale come per gli alberi lo è con le proprie radici.

Se, poi, le proprie memorie possono costituire un patrimonio culturale, valutabile anche in termini di risorse, che ben venga specie in questi tempi di crisi”.

 

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BROLO & LA GUERRA – Le foto dello sbarco

 

Foto di giovani soldati morti negli agrumenti e nei pollai di Brolo, di truppe tedesche in ritirata, ma pronte a dar ancora battaglia.. foto che nessuno vorrebbe più vedere scattare – ora – con le digitali e le nostre nuove tecnologie.

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Foto che ci consegnano la Storia di settant’anni fa…. Gli americani entravano da vincitori, sbarcavano nell’isola … allora come ora.

 

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STORIA & GUERRA – Quei liberatori assassini

Liberarono l’Isola dai tedeschi e da quello che rimaneva dell’esercito di Mussolini ma durante la conquista dell’isola, le truppe anglo-americane si resero responsabili di alcuni crimini contro la popolazione civile e contro prigionieri italiani inermi.

Su queste stragi, del tutto ingiustificate sul piano militare, per anni è scesa una cortina di silenzio.

In alcuni casi i colpevoli non furono neppure cercati, mentre l’unica condanna all’ergastolo che fu comminata si risolse in una detenzione di pochi mesi.

Ma gli americani sono così. La storia non nasconde i crimini di guerra attuati da questi liberatori.

Ovviamente fuori dalla Sicilia hanno fatto peggio. E ovviamente non solo nel frangente della seconda guerra mondiale.

Fino ad oggi possono classificarsi  davvero tra i grandi criminali di guerra.

Tra i peggiori … al pari di Pol Pot, di quanto si esercita oggi contro il popolo Palestinese, di quanto fatto dai Serbi.

Loro hanno usato l’atomica, inutilmente contro un Giappone ormai sconfitto,  gas e naplam contro il popolo vietnamita, in Iraq e dovunque il tallone dei militari liberatori hanno calcato il terreno di guerra.

Ma tornando all’agosto del 1943 in Sicilia.

no_guerraC’è una parte di storia ancora tutta da scrivere, rimasta sommersa da ragioni in qualche modo intuìbili ma ancora da indagare, interpretare e comprendere.

È la pagina oscura delle stragi di civili e di prigionieri compiute non solo dai soldati tedeschi in Italia dopo l’8 settembre, ma anche dai soldati americani del generale Patton durante l’occupazione della Sicilia nell’estate del 1943.

In questo estremo lembo dell’Italia fascista, il 10 luglio 1943 misero piede 160 mila uomini angloamericani. Si portarono dietro 600 carri armati, 1.800 cannoni e 14 mila automezzi.

La supremazia alleata era evidente, ma non sufficiente a sgominare in pochi giorni, così come previsto nei piani del maresciallo Montgomery, comandante delI’VIII armata britannica, la difesa italo-tedesca dì presidio nell’isola.

Occorsero 38 giorni di dure battaglie per occupare totalmente questo piccolo lembo di terra e per raggiungere Messina, tappa finale della campagna siciliana.

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Senza dubbio una vittoria amara, che fece registrare agli Alleati più di 4 mila morti e 13 mila feriti.

I cinegiornali dell’epoca mostrano i boy americani che marciano sorridenti in mezzo alla gente che sventola fazzoletti, pezzi di stoffa bianca e grida «liberatori». Una folla che accoglie festosa quei ragazzi alti un metro e ottanta e che masticano chewing gum. Nell’iconografia che illustra quelle giornate di avanzata tra città e paesi dell’isola, ricorre l’immagine di parecchi siciliani che s’incamminano trionfalmente accanto ai baldanzosi militari statunitensi, mostrando sorrisi soddisfatti conditi solo raramente di sorniona acquiescenza. Quei soldati sbarcano in Sicilia portando la libertà soppiantata per anni dal regime fascista.

Arrivano con in tasca la democrazia e i diritti inalienabili dell’uomo, primo fra tutti quello della vita umana. Eppure, quei giorni sono giorni di eccidi.

Solo da poco tempo e grazie ad alcune testimonianze di sopravvissuti e a documenti degli archivi americani, tornano a galla verità rimaste celate per oltre mezzo secolo.

Fatti che andrebbero approfonditi non solo dal punto di vista storico, ma anche in sede giudiziaria, per fare chiarezza, definire responsabilità e rendere giustizia alle vittime.

Solo nel luglio scorso, per iniziativa della procura militare di Padova e a distanza di 61 anni, è stata aperta un’inchiesta sull’orrenda vicenda dell’eccidio di civili nelle campagne di Piano Stella, vicino l’aeroporto di Biscari (oggi Acate, a sud di Caltagirone) e di 73 prigionieri italiani, sempre nei pressi di Biscari, compiuto dai soldati a stelle e strisce.

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L’eccidio di piano Stella

Il piccolo aeroporto di Santo Pietro (o di Biscari) non era altro che una corta pista per il decollo e l’atter-raggio degli Stukas tedeschi, situato tra Caltagirone e Vittoria. Costruito nel 1941, a ridosso del borgo di Piano Stella, era uno dei tanti poderi assegnati da Mussolini ai coloni locali a partire dal 1938, poderi di circa 10 ettari ciascuno, con una casa colonica in mezzo composta da due stanze, una cucina e una stalla, dove trovavano malamente posto le due mucche a famiglia assegnate anch’esse dallo Stato per arare la terra e per il latte.

Nei 38 poderi di contrada Piano Stella si coltivavano fave, orzo, avena e, in certi casi, anche uva per ricavare vino in piccole quantità. I contadini chiamavano questi poderi «orticelli di guerra», dato che servivano soltanto per il fabbisogno della famiglia concessionaria e non per una produzione destinata al mercato.

A una ventina di chilometri in linea d’aria, verso est, vi era l’aeroporto di Comiso, meglio attrezzato per il transito dei bombardieri che puntavano su Malta.

A ovest si trovava l’altro aeroporto, quello di Ponte Olivo (Gela), che per la sua collocazione geografica era ritenuto dalle forze alleate il principale obiettivo da raggiungere subito dopo lo sbarco.

La corta pista di Santo Pietro, per la sua posizione centrale rispetto agli altri due, era un punto strategico per l’aviazione tedesca, logisticamente adatto in caso di perdita degli altri due maggiori aeroporti. Rappresentava senza dubbio un’ulteriore linea di difesa della divisione Hermann Goering di stanza a Caltagirone. La vicinanza del campo di aviazione aveva trasformato quei poderi in bersagli dei bombardieri americani che ogni giorno sganciavano quintali di ordigni. Prima dello sbarco per i contadini del borgo di Piano Stella erano notti di paura e di ansia.

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Giuseppe Ciriacono, allora tredicenne, viveva insieme ai genitori nella casa del podere 26. Il giorno in cui i soldati della 45° divisione americana di fanteria arrivarono nei pressi della piccola abitazione di campagna, il piccolo Giuseppe era con il padre, Peppino, e altri quattro uomini: due della famiglia Curciullo (padre e figlio di 16 anni), Salvatore Sentina e Giuseppe Alba. I soldati li scovarono tremanti dentro un rifugio di fortuna scavato poco distante dalla casa.

Era il pomeriggio del 13 luglio 1943.

A raccontare cosa accadde quel giorno è lo stesso Giuseppe Ciriacono, oggi 73enne, unico sopravvissuto. «Verso il pomeriggio tardi sentimmo qualcuno che chiamava dall’esterno del rifugio: “uscite fuori, uscite fuori”, la voce gridava. Così uscimmo fuori e trovammo un soldato che parlava bene l’italiano e ci chiese di entrare a casa per vedere se vi erano soldati tedeschi. Mio padre si apprestò a fare perlustrare la casa, ma quando arrivammo davanti alla porta ci accorgemmo che già i soldati avevano sfondato la porta ed erano entrati. Dopo qualche ora arrivarono altri soldati… ormai era all’imbrunire. Ci fecero segno di uscire, ma nessuno parlava italiano. Eravamo in sei persone e ci fecero segno di seguirli verso Acate. Il nostro podere confinava con il territorio della provincia di Ragusa e, dopo avere camminato un po’, giungemmo presso una casa che apparteneva a un certo Puzzo…Gli americani ci portarono in questa casetta, il terreno circostante era piantato a vigneto e lì ci fecero segno di sederci… Poi i soldati imbracciarono delle armi, dei fucili mitragliatori, e si misero ad angolo, uno da un lato e l’altro dall’altro. Ricordo che quando assunsero questa posizione il signor Curciullo, che era accanto a me, disse: “cumpari Pippinu haiu ‘mprissioni che ci vogliono uccidere”. A questo punto, mentre parlavano, mi sentii prendere da qualcuno per il bavero della camicia e tirarmi su…allora ero ragazzine, andavo ancora alle elementari e sentivo i racconti dei fratelli Bandiera e cose del genere e pensai che il primo a essere ucciso sarei stato proprio io. Quando mi sentii tirare per il bavero, girandomi vidi questo americano che aveva il fucile abbrancato, con la mano sinistra teneva un’anguria e con la destra mi tirava. Appena mi girai a guardarlo disse delle frasi che a mio parere volevano dire di allontanarmi. Non appena mi allontanai 20, 30 passi circa sentii una raffica di mitra e le urla di mio padre, del mio amico e degli altri. Li avevano uccisi. Subito dopo fui preso in consegna da questo soldato che mi portò da un suo superiore, lo nel frattempo cercai di ribellarmi gridando: “Là hanno sparato a mio padre” e volevo raccontare quello che era successo. Invece il superiore mise la mano in tasca e cercò di darmi dei cioccolatini, che io rifiutai e glieli scagliai in faccia. Dopo un po’ arrivarono altri due soldati e fui dato in consegna a questi. Come a dire: portatevelo con voi. Ormai era sera tarda e sentivo le cannonate provenienti dalla zona di Caltagirone. C’erano tanti soldati americani e due di loro mi portarono nella campagna degli Scrofani di Vittoria, all’epoca tutto uliveto. Sotto una pianta di ulivo distante circa cinquanta metri dalla strada provinciale Vittoria-Caltagirone, scavarono una trincea. Verso l’una di notte, uno di questi soldati mi abbracciò come un padre, l’altro, invece, si comportò come se io non esistessi. Poi mi lasciarono tutto solo. La stanchezza mi prese e mi addormentai dentro la trincea. Qualche ora più tardi mi sentii spingere con il piede da un soldato. Mi fece segno di andarmene indicandomi la strada per Acate. lo volevo andare dall’altra parte, verso Santo Pietro dove c’era la mia casa e mia madre…ma il soldato mi fece capire che se avessi preso quella direzione mi avrebbe sparato».

Il piccolo Giuseppe girovagò ancora un giorno e una notte prima di ritrovare sua madre, che non sapeva ancora nulla di quanto era accaduto. Insieme tornarono sul luogo dell’uccisione dove ritrovarono i corpi dei cinque contadini in stato di decomposizione. Giunsero appena in tempo per assistere a una frettolosa sepoltura da parte degli stessi soldati americani in una fossa comune ricavata facendo esplodere una bomba. Giuseppe venne anche a conoscenza che qualche ora prima dì uccidergli il padre, i soldati americani erano stati in un altro podere, quello della famiglia Smirlo, dove avevano ammazzato un ragazzo, Francesco Mercinò, e un altro contadino, Nicolo Noto. Giuseppe Ciriacono non ha mai voluto raccontare questa storia a nessuno, se non al nipote, Gianfranco, che qualche anno fa ne ha fatto oggetto di una tesi di laurea. Di recente l’ha voluta rendere pubblica con un libretto stampato a proprie spese e nel giugno scorso si è spinto oltre, scrivendo al presidente della Repubblica per chiedere l’apertura delle indagini e un regolare processo che facesse luce su quanto accaduto 61 anni fa. Non solo sull’eccidio di cui è stato testimone suo nonno Giuseppe, ma anche sul massacro di 73 prigionieri italiani, compiuto l’indomani, il 14 luglio, dagli stessi soldati americani proprio a pochi chilometri dal podere 26.

La mattina del 14 luglio, il giorno dopo i fatti accaduti a Piano Stella, i soldati della 45° divisione americana raggiunsero le campagne circostanti l’aeroporto di Bi-scari, nei pressi di Acate. Al 180° reggimento di fanteria della divisione toccò il compito di conquistare il campo di aviazione, difeso dalla divisione tedesca Hermann Goering e da un gruppo di cecchini italiani ben appostati lungo la strada n. 115. Lo scontro, in quella strada soprannominata dagli stessi americani «il viale di Adolph», fu durissi-mo e la forte resistenza italo-tedesca impegnò parecchio gli inesperti soldati americani (per la 45° divisione la campagna di Sicilia rappresentò il battesimo del fuoco). Intorno a mezzogiorno un gruppo di 36 soldati italiani, alcuni dei quali in abiti civili, si arrese (sul fatto che fossero tutti soldati vi sono a tutt’oggi dubbi, anche se questa ipotesi appare la più verosimile, visto che si parla di combattimenti). Il comandante della compagnia C, il capitano John T. Compton, senza pensarci due volte, ordinò di uccidere subito i prigionieri. Gli italiani vennero schierati lungo la strada e fucilati all’istante. Nella stessa giornata, poco distante dal luogo dove era avvenuta l’esecuzione, un’altra compagnia, la A, catturò 45 soldati italiani e tre tedeschi. Uno dei sottufficiali, il sergente Horace T. West, aveva ricevuto l’ordine di scortare 37 di loro (gli altri pare fossero feriti), tutti italiani, nelle retrovie per farli interrogare dal servizio informazioni del reggimento. West, insieme a un caporale e un gruppetto di suoi soldati, prese in consegna i prigionieri e si avviò lungo la strada provinciale in direzione di Acate. Dopo avere percorso un paio di chilometri bloccò la marcia dei 37 prigionieri, facendoli disporre lungo un fosso, ai margini della carreggiata. Gridando che avrebbe ucciso quei «figli di una cagna», aprì il fuoco. Ne uccise 36.

Uno dei prigionieri tentò la fuga, ma venne colpito alla schiena dal caporale americano al quale il sergente West aveva ordinato a sua volta di sparare. Il massacro venne portato a conoscenza del comandante del II corpo d’armata. Ornar Bradley, il quale a sua volta informò il generale Patton. Quest’ultimo cercò in qualche modo di minimizzare l’accaduto, suggerendo a Bradley di dire che «gli uomini uccisi erano cecchini o che avevano tentato la fuga», aggiungendo che, «d’altra parte, ormai sono morti e non c’è più niente da fare». Bradley fece esattamente il contrario, deferendo i due uomini alla corte marziale con l’accusa di omicidio premeditato di 73 prigionieri di guerra. La corte marziale americana si riunì il 30 agosto per dibattere il caso. West aveva 34 anni ed era nato nell’Oklaoma. L’imputazione era chiara: violazione dell’art. 92 del codice di guerra per avere «fucilato con premeditata cattiveria, volontariamente, illegalmente e con crudeltà 37 prigionieri di guerra». Gli atti che riportano l’interrogatorio del sergente West e di altri testimoni della vicenda fanno emergere l’inaudita violenza dell’eccidio. West, dopo avere sparato una prima raffica di mitra contro i prigionieri, caricò nuovamente l’arma e fece ancora fuoco su coloro che ancora non erano morti. Il cappellano militare William E. King, nella sua testimonianza, racconta di essersi imbattuto in quei corpi senza vita il giorno dopo, mentre viaggiava lungo la strada che conduce all’aeroporto di Biscari. Si accorse subito che tutti quei cadaveri, disposti in linea, l’uno di fianco all’altro, con la faccia in su, non potevano essere stati trasportati lì per la sepoltura e che qualcuno li aveva uccisi in quel luogo. King testimoniò di avere notato subito che alcuni corpi avevano sulla schiena un foro di proiettile calibro 90, mentre altri presentavano un foro di pistola nella testa.

A sua difesa, sergente West sostenne di avere eseguito gli ordini del generale Patton. Questi avrebbe detto ai suoi soldati che durante i combattimenti non bisognava prendere prigionieri. Alla fine, la corte stabilì che West aveva compreso male le parole del suo generale e che Patton avrebbe semplicemente affermato che non bisognava fare prigionieri durante i combattimenti e non dopo che il nemico si fosse arreso. Per la commissione medica che doveva pronunciarsi sullo stato di salute mentale dell’imputato. West era sano di mente quando compì la feroce esecuzione. La corte marziale condannò West all’ergastolo, senza però l’aggravante della degradazione. Venne mandato nella prigione di Lewi-sburg in Pensilvania, dove però scontò solo pochi mesi di pena. Riguardo all’eccidio compiuto dal capitano Compton, la Corte marziale dichiarò quest’ultimo prosciolto dall’accusa. Delle 73 vittime non si conosce nulla. Non si conoscono i nomi né se fossero tutti militari. Si sa soltanto che furono seppelliti in una fossa comune sul luogo dell’eccidio. Probabilmente la notizia della loro morte, a guerra finita, è giunta ai parenti con l’amara motivazione di «caduto in combattimento». •

Note

Dell’eccidio americano di Biscari ne ha parlato per primo lo storico americano Carlo D’Este, nel suo libro io sbarco in Sicilia, Mondadori, 1990. L’argomento è stato ripreso per primo da Ezio Costanze in Sicilia 1943, Le Nove Muse, marzo 2003 e, successivamente, da Gianfranco Ciriacono nel suo contributo al volume Arrivano…, edizione a cura del Comune di Vittoria, luglio 2003 e nel volume Le stragi dimenticate, edito dalla Provincia regionale di Catania, settembre 2003. Recentemente, Alfio Caruso ha riproposto i fatti, citando come fonte Ezio Costanze, nel suo Arrivano i nostri, Longanesi, aprile 2004.

Tratto da www.thule-italia.com/ scritto da Ezio Costanzo fonte http://xoomer.virgilio.it/parmanelweb/LIBER%20ASS.htm

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CONTROSTORIA – I bombardamenti in Italia nella seconda guerra mondiale

 

Anche se l’armistizio era stato firmato, non significava nulla fino al momento in cui fosse stato possibile renderlo pubblico.

Durante l’intervallo gli Alleati continuarono a uccidere gli italiani.

Tre giorni dopo la firma, fu sferrato contro Frascati uno degli attacchi aerei più massicci che si fossero visti fino a quel momento.

Frascati, situata a una quarantina di chilometri a sud-est di Roma, era un legittimo obiettivo militare, data la presenza di numerosi alti comandi tedeschi.

Ma i bombardieri alleati, con l’abituale imprecisione, riuscirono a causare solo danni lievi a uno di essi, e uccidere invece centinaia di donne e bambini. (da ‘La guerra inutile’, pag.141)

Nelle grandi città e piccole coloro che vivevano nel sud liberato si trovavano in condizioni più difficili di quelli sotto l’occupazione tedesca. Tuttavia, se una città del nord aveva qualche importanza commerciale, veniva bombardata regolarmente e indiscriminatamente. (da ‘La guerra inutile’, pag.347)
Le storie ufficiali indicano che 64.000 italiani furono uccisi dai bombardamenti alleati contro i 56.000 civili britannici uccisi dalla Luftwaffe. (da ‘La guerra inutile’, pag.492)
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Il primo attacco su Torino e Milano avviene nella notte fra il 12 e il 13 agosto. Nel capoluogo lombardo la saturazione delle bombe in un’area ristretta è tale da rischiare di provocare un’altra Amburgo, la città tedesca appena devastata dalla ‘tempesta di fuoco’ degli incendi.

Non c’è pezzo della Milano storica che non subisca immense devastazioni, dalla Galleria alla Scala, da Palazzo Marino al Castello Sforzesco, oltre a ottomila edifici distrutti o lesionati. […] Le vittime civili sarebbero ascese a 1600, i feriti a 3600 e a quasi mezzo milione i senzatetto. […]

Alla camera dei Comuni il leader laburista Bevan criticò il governo per la mano pesante usata proprio sulle città italiane che più delle altre, con i loro scioperi, avevano manifestati vivi sentimenti antifascisti.

Churchill si difese sostenendo che la durezza degli attacchi doveva convincere Badoglio e casa Savoia a gettare definitivamente la spugna. In effetti, appena si seppe dell’intenzione italiana di trattare la resa, gli attacchi aerei, almeno nel Nord Italia, cessarono. (da ‘I disperati’, pag.288-289)
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A mezzogiorno oltre cento quadrimotori americani bombardano Frascati per colpire il Quartier generale di Kesselring, seminando distruzione e provocando migliaia di morti e feriti nella popolazione senza peraltro centrare l’obiettivo. (da ‘I disperati’, pag.295)
Ugo La Malfa (uno dei fondatori del Partito d’Azione), durante una riunione di esponenti antifascisti, ‘propose, e la proposta fu accettata con una risicata maggioranza, di rivolgere agli Alleati il consiglio urgente di sbloccare la situazione […] con intensi bombardamenti sulle principali città italiane […] Questi ebbero come deliberato obbiettivo i centri cittadini. Furono cioè chiaramente bombardamenti politici […] Il numero dei morti, mai acclarato completamente, soltanto a Milano superò i 10.000′. (da ‘J.V.Borghese e la X MAS’, pag.116)

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Suonava mezzogiorno, quando 135 bombardieri B-17 rovesciarono su Frascati 389 tonnellate di bombe, uccidendo 6.000 degli 11.000 abitanti. Costoro pagavano con la loro vita l’inesattezza delle informazioni fornite a suo tempo da Castellano agli Alleati sulla dislocazione del Quartier Generale tedesco: esso, infatti, non si trovava proprio a Frascati, ma in diverse ville vicine, tra Montecavo e Grottaferrata, fra cui la celebre Villa Aldobrandini. Cosi i tedeschi se la cavarono con un centinaio di morti ed il loro Quartier Generale continuò a funzionare perfettamente. (da ‘In nome della resa’, pag.352)
La gente, nella stragrande maggioranza, si chiuse in un atteggiamento passivo, concentrandosi nel proprio lavoro e cercando alla meglio di sopravvivere, procurandosi il cibo necessario che le carte annonarie non fornivano e tentando di evitare ‘Pippo’, un ricognitore che anticipava i bombardamenti alleati i quali, giorno e notte, con sadismo, si accanivano contro tutto ciò che si muoveva lungo le strade grandi e piccole, contro i casolari ed i singoli passanti, seminando morte e paura. Questa tecnica crudele, militarmente ingiustificata, che gli Alleati applicavano pure in Germania, si rivolgeva da noi, giuridicamente parlando, contro i cittadini del cobelligerante Regno d’Italia, visto che né Londra né Washington riconoscevano il governo italiano idi Gargnano. Ma chi si preoccupava di queste ‘sfumature’? (da ‘In nome della resa’, pag.423)

 

Il dicembre del 1943 iniziò bene per gli Alleati, sul fronte italiano: il 1° del mese, infatti, essi presero, dopo dieci giorni di lotta, il Monte Camino, che era uno dei perni della ‘Linea Bernhard’.

Era una grande fortuna che mantenessero l’iniziativa, poiché, se si fossero trovati in difficoltà, a causa di una controffensiva tedesca che avesse minacciato una rottura del loro fronte, non avrebbero esitato – sul nostro suolo – a far uso dell’iprite. I fatti di Bari del 2 dicembre ne erano la prova inconfutabile. […]

Secondo Janusz Piekalkiewicz, il bombardamento di Bari fu il più proficuo del conflitto, dopo quello giapponese di Pearl Harbor. […]

Ma la tragedia non finisce qui.

Tra le navi colpite vi era la John Harvey, che trasportava, tra l’altro, 100 tonnellate d’iprite, confezionate in bombe da 45,5 kg ognuna. La nave affondò subito con tutto l’equipaggio. Com’era prevedibile, molte bombe si ruppero ed il gas riempi il porto, ma la cosa non fu resa nota ed anzi tenuta segreta per decenni.

Molti però si sporcarono di nafta contaminata e dopo un paio d’ore iniziarono ad avvertire dolori atroci. Dopo 18 ore, il primo dei 617 che furono contaminati mori. Altri 82 lo seguirono in questa sorte: l’ultimo un mese dopo il bombardamento!

La nave Bistera, che raccolse 30 superstiti dal porto di Bari per far rotta su Taranto, giunse in questo porto, 18 ore dopo, con l’equipaggio quasi cieco. Malgrado ciò, tutto fu messo a tacere.

Churchill impedì che una commissione d’inchiesta esaminasse i fatti ed ordinò che i morti per l’iprite fossero sepolti come morti per ustioni!

Al Premier britannico non andava infatti l’idea che si venisse a sapere in Italia (e nel mondo) che la Gran Bretagna era disposta ad adoperare gas venefici, contrariamente alla convenzione internazionale stipulata a Ginevra nel 1925. (da ‘In nome della resa’, pag.473)

 

Ma non basta: nel centro-nord, solo tra l’ottobre ed il dicembre del 1943, le incursioni aeree alleate provocarono, tra i civili, 6.500 morti, 11.300 feriti e distrussero 3.500 edifici. In questo contesto si comprende l’importanza dell’aeronautica della Repubblica Sociale Italiana, che ebbe il grandissimo merito di tentare di proteggere le città italiane più esposte ai bombardamenti condotti dalia RAF e dalla US-Air Force.

Bombardamenti che spesso, a dispetto che tanti bombardieri portassero il nome di Liberator, erano per giunta di tipo terroristico. È triste perciò che il merito dei piloti repubblicani fino ad oggi non sia stato ancora né riconosciuto, né tanto meno onorato. (da ‘In nome della resa’, pag.476)

 

Si era sparsa la voce che Hitler e Mussolini sarebbero convenuti il 7 aprile a Treviso per una conferenza (che invece ebbe luogo presso Salisburgo). Gli Alleati, nell’intenzione di uccidere i due dittatori, scaraventarono tonnellate di bombe sulla città e alla sera del 7 aprile oltre duemila trevigiani erano morti a causa una diceria! (da ‘In nome della resa’, pag.487)

Nel corso di un anno, a partire dal 2 novembre 1943, la RAF si era accanita ben 54 volte sulla piccola Zara, malamente contrastata dagli 8 pezzi da 75 mm della contraerea. Il risultato fu che sui 10.000 abitanti originari, quasi la metà – 4.000 – rimasero uccisi forse con lo scopo di far sfollare o di ‘ridurre’ la comunità italiana più folta della costa balcanica. (da ‘In nome della resa’, pag.518)

 

Dal 1939 la guerra era divenuta sempre più brutale. Pochi giorni dopo combattimento di Eglio, il 18 novembre, accadde un episodio che dimostra come i crimini di guerra non fossero monopolio degli Stati del Patto Tripartito: la nave ospedale tedesca Tubingen, malgrado che le grandi insegne della Croce Rossa fossero perfettamente riconoscibili, venne affondata dalla RAF presso il delta del Po. (da ‘In nome della resa’, pag.519)

I bombardamenti più terrificanti squinternarono Palermo il 9 maggio e Catania l’8 luglio.

Palermo era già stata martoriata il 18 aprile: le bombe avevano centrato il rifugio di piazza Sett’Angeli, accanto alla cattedrale. Le macerie avevano seppellito centinaia e centinaia di donne, bambini, anziani.

Niente in confronto a ciò che accadde tre settimane dopo. Al mattino due gerarchi fascisti, Cucco e Caradonna, avevano celebrato la ricorrenza della fondazione dell’Impero con una grottesca cerimonia nella Sala delle Lapidi a Palazzo delle Aquile. A mezzogiorno giunse la prima ondata di quarantotto Liberator. Se ne susseguirono altre undici. I morti furono più di tremila, il numero esatto rimase ignoto giacchè molti corpi non furono mai recuperati. Interi quartieri, quelli più caratteristici che tramandavano agli arabi, ai normanni, agli spagnoli, vennero spazzati via. (da “Arrivano i nostri – 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia”, pag.148-149)

Quei bombardamenti indiscriminati rispondevano alla logica del Foreign Office, accettata a Casablanca, di piegare il morale degli italiani con il terrore, con i massacri, con le distruzioni. (da “Arrivano i nostri – 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia”, pag.150)

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da:http://www.controstoria.it/bombardamenti-in-italia.html

10 Agosto 2015

Autore:

redazione


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