– di Corrado Speziale –
Il “Danish trio” composto da Stefano Bollani, dal contrabbassista Jesper Bodilsen e dal batterista Morten Lund, a 10 anni dalla sua formazione, ha avviato un super tour che, passando per Francia e Danimarca, si concluderà a San Francisco dopo due serate al mitico Birdland di New York.
L‘unica tappa siciliana è stata quella di sabato sera a Messina, con un gran concerto tenuto al Palacultura Antonello.
L’evento, organizzato dall’Accademia Filarmonica, era naturalmente il più atteso della stagione, perché lo straordinario trio si è fatto conoscere di recente dal grande pubblico, tra l’altro, attraverso la trasmissione televisiva “Sostiene Bollani”, unica nel suo genere per le alte qualità musicali espresse e per il tipo di conduzione adottata dal talentuoso pianista, nonché uomo di spettacolo, divenuto ormai una star di prima grandezza nel panorama musicale mondiale.
Il trio, in questi dieci anni, ha composto tre album: i primi due, “Mi ritorni in mente” e “Gleda”, realizzati rispettivamente nel 2003 e nel 2005 per l’etichetta danese Stunt, e “Stone in the water”, prodotto nel 2009 per la prestigiosa ECM Records.
Il repertorio del “Danish trio”, rispetto a quello proposto “piano solo” da Stefano Bollani a Messina nel dicembre 2011, imponeva, ovviamente, dei canoni differenti per genere musicale ed approccio con il pubblico, ma non per questo il talentuoso ed eclettico pianista si è sottratto alle piacevoli performance che lo contraddistinguono per trasporto e simpatia.
Il “buongiorno”, come si dice, “si vede dal mattino”. Ecco, allora, vedere il trio esordire con un’accordatura tutta particolare, guidata, ovviamente, dal suo leader con gestualità e vocalizzi che vanno ben oltre il classico “La”.
L’avvio del concerto è un’autentica novità jazzistica: un brano appena composto ed ancora non inciso da Bollani, di cui abbiamo cercato di carpirne il titolo dal chiaro senso ludico e allusivo: “No port, no party” (o qualcosa di simile, visto che non ne abbiamo ancora il riscontro…)
La serata prende subito quota all’insegna del buona tradizione, grazie ad un’ottima interpretazione di “It could happen to you”, standard americano del ‘44 che nel tempo ha avuto svariati interpreti, tra i quali Chet Baker.
A seguire la session, senza interruzione, guidata da un magnifico assolo di Lund, subito affiancato da Bodilsen, approda come d’incanto nella dimensione più alta tra chi interpreta Duke Ellington: è a dir poco eccellente la versione di “Caravan”, dove ritmo, tecnica e virtuosismi del trio regalano variegate forme e connotazioni al brano, tra cui quelle latinoamericane, tanto care al “carioca” Bollani.
Un sensazionale assolo di contrabbasso introduce “Come prima”, super classico della canzone italiana, con il quale i tre regalano emozioni alla platea.
“Brigas nunca mais”, brano di Jobim e De Moraes, rivisto in versione jazz, contenuto in “Stone in the water” ma completamente trasformato, specialmente nella sezione ritmica, è stato il primo dei pezzi brasiliani proposti.
Da qui, parte uno degli esilaranti show del “nostro” pianista più famoso al mondo: “Un brano in re minore, una storia triste ma igienica” dice, spolverando lo sgabello del pianoforte (il riferimento al gesto di Berlusconi in televisione non sembra casuale…) prima di appoggiarvi le mani per “mimare” “Billie Jean”, celebre brano di Michael Jackson, che scherzando gira e rigira cantando e suonando in mille “salse”, fino ad approdare al reggae di Bob Marley.
A seguire, “Asuda”, pezzo composto da Bollani, compreso anch’esso in “Stone in the water”, come il precedente di Jobim, viene anch’esso variato in versione live rispetto all’originale, ma non per questo è meno apprezzabile.
Un suggestivo attacco di pianoforte, dà il via a “Retrato em branco e preto”, dolce, raffinato e introspettivo brano, non a caso firmato A.C. Jobim – C. Buarque, che Bollani ha estratto da “Orvieto”, imperdibile album inciso dal vivo ad Umbia Jazz Winter 2011, anch’esso targato ECM Records, assieme ad un suo “collega” di tutto rispetto, che più di ogni altro ha spalancato le porte al jazz contemporaneo: Chick Corea.
Con “Mi ritorni in mente”, il trio fa un piacevolissimo tuffo nel passato per festeggiare i dieci anni d’attività: non poteva esserci interpretazione migliore per il brano di Mogol – Battisti, che ha dato il nome al primo album del gruppo, di cui è divenuto il cavallo di battaglia.
Applausi scroscianti per il trio, che chiude il concerto per poi ritornare per ben due volte sul palco proponendo grande musica, accompagnata anche da una simpaticissima improvvisazione ritmica nella quale nessun oggetto sul palco è stato sottratto alle percussioni.
Con “Storta va”, brano del pianista, tratto da “Big band!”, inciso dal vivo ad Amburgo con la NDR Big Band nel 2011, si è chiuso il concerto sull’impronta di uno straordinario jazz rock acustico, scorrevole, ben colorato ed articolato, in linea con le peculiarità del trio.
Messina ha scritto, dunque, una pagina importante in questa prestigiosa tournée di Stefano Bollani, risultando tra le sette città italiane che ne hanno ospitato il concerto. Tuttavia occorre registrare l’impossibilità della stampa, quantunque rappresentata anche da qualche giornalista esperto ed accreditato, di poter incontrare ed intervistare il famoso pianista prima del concerto, neppure per qualche battuta o un semplice scambio di parole.
Nonostante questo, non ci siamo arresi all’idea di poter comunque portare a casa un piccolo risultato. Per questo abbiamo atteso che alla fine del concerto, il pianista, assieme ai due musicisti danesi, incontrasse i suoi ammiratori nel salone d’ingresso del palacultura.
Lì Stefano Bollani è stato letteralmente preso d’assalto da tutti coloro che hanno chiesto ed ottenuto l’autografo sul suo ultimo libro, fresco di edizione, “Parliamo di musica”, pubblicato da Mondadori, destinato a riscuotere un meritato successo.
Alla fine, seppur sotto l’occhio vigile e pressante del suo agente, egli ci ha concesso una breve intervista.
Dieci anni di “Danish trio” cosa ti hanno lasciato?
Ancora non mi hanno lasciato nulla perché non abbiamo smesso…Vabbè, soprattutto mi hanno re-insegnato a fidarmi molto delle persone con cui mi piace suonare, non sulla carta, ma nella pratica.
Come affrontate i concerti?
Saliamo sul palco e non decidiamo nulla, ci fidiamo semplicemente l’uno dell’altro. Può succedere che Jesper prenda una via inconsueta, che Morten cambi il tempo o che io prenda un’altra tonalità. Capita, pure, come stasera, che facciamo un pezzo che non avevamo mai fatto prima. L’importante è fidarsi a vicenda, come guidare tutti e tre la stessa macchina.
Tu lavori con la stessa abilità con musicisti brasiliani, così come del nord Europa. Come fai a coniugare entrambi, visto che hanno caratteri così differenti?
In realtà i musicisti sono uguali in tutto il mondo. Certo, poi hanno le loro caratteristiche, ma soprattutto sono i caratteri somatici che li differenziano. Jesper e Morten, ad esempio, hanno il mio stesso spirito perché siamo coetanei, idem riguardo Hamilton de Holanda, anche lui ha la mia stessa età. Se non fosse per la lingua non ci sarebbero grandi differenze. In più, grazie alla musica, non abbiamo continuo bisogno di parlare, ma possiamo intenderci attraverso un linguaggio universale.
Sei tra coloro che hanno contribuito a spostare l’asse terrestre del jazz dagli Stati Uniti all’Europa. Qual è, secondo te, adesso, la prossima frontiera?
La Groenlandia. Vabbè, questa me l’hai chiamata…Giusto: dobbiamo arrivare in Groenlandia!
Sei l’unico, oltre Antonio Carlos Jobim, ad aver suonato nelle favelas di Rio De Janeiro. Che emozione hai provato?
Era come suonare qua, perché quando suoni…suoni. In realtà, però, sono stato tutto un giorno là e sono riuscito ad arrivare in cima alle favelas insieme ai ragazzi. Questo, devo dire, è abbastanza atipico, perché non credo che di solito la gente torni indietro quando sale su quella collina…