Il 25 gennaio scorso, è stato approvato al Senato, con larga maggioranza, l’emendamento che fissa entro il 31 marzo 2013 la chiusura definitiva degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.
La Commissione d’inchiesta del Senato, capeggiata dal sen. Ignazio Marino, che aveva documentato l’orrore di veri e propri luoghi di tortura, ha finalmente spinto il legislatore ad attivarsi per eliminare la vergogna di queste strutture di natura sanitario-detentiva.
Nonostante l’impegno sia senz’altro degno di apprezzamento, la formulazione stessa dell’emendamento, non è esente da incertezze che, laddove il testo si tramutasse in legge, potrebbero tradursi in inefficienze pratiche di non poco conto, soprattutto se si tiene in considerazione che potrebbe essere svilito l’intento stesso delle norme: garantire il rispetto della persona e dei suo diritti fondamentali.
Da molto tempo, i diritti più elementari dei detenuti di OPG infatti, vengono del tutto mortificati. Le problematiche principali, sono quelle relative all’accoglienza di tali soggetti, in strutture idonee alle loro esigenze, in particolare, quella di poter ricevere un trattamento terapeutico opportuno in base all’eterogeneità delle patologie da cui sono afflitti. Lo scandalo degli OPG, infatti, risiede primariamente dell’assenza di cura, ed in particolare, di un trattamento che tenga conto delle diversità di ogni paziente-detenuto: insomma, troppo spesso ci si concentra esclusivamente sulla detenzione, ci si dimentica della sofferenza.
Il problema delle strutture di accoglienza, però, sorge da un pregiudizio.
Nasce dall’odiosa stigmatizzazione del malato. Come sempre accade nelle vicende umane, la diversità è concepita come motivo di isolamento dalla presunta “normalità”.
Allora, se un uomo ha commesso un reato “bagatellare” in condizioni di compromissione della propria capacità d’intendere e volere a causa di un patologia psichiatrica, la pericolosità sociale interpretata spesso troppo rigidamente da magistrati evidentemente poco attenti alle situazioni umane, o magari vittime della stigmatizzazione del malato cui facevo sopra riferimento, ne segna la condanna il più delle volte a degli “ergastoli bianchi”.
Una misura di sicurezza, si trasforma così nella peggiore delle condanne, in palese violazione del principio di uguaglianza. L’OPG è l’emblema di una dura lex che travalica ogni principio costituzionale in tema di libertà personale, tramutandosi in ingiustizia.
Vivere il non-luogo dell’OPG, entro le alte mura e le inferriate da cui non provengono voci, dove non si odono parole, ma lamenti sommessi, vuole dire entrare a far parte di una realtà estremamente lontana dalla vita quotidiana di ognuno di noi. Il tempo è immobile, e l’immobilità la si percepisce nitidamente, anche se non si riescono a vedere i letti di contenzione, nascosti in un’ombra spaventosa.

Occorre, poi, come in qualsiasi processo di cambiamento, sensibilizzare gli operatori del settore e l’opinione pubblica in genere, ad una maggiore sensibilità; è necessario che il malato psichiatrico venga privato dello stigma che lo rende identificabile quale diverso, e dunque emarginato.
Una malattia, non può tramutarsi in destino.
http://saramarinomerlo.blogspot.com/2012/01/stopopg-ovvero-come-restare-umani.html