Interessante articolo, pubblicato in due parti, su www.ilprimatonazionale.it, solo alcuni giorni fa da Stefano Bianchi.
Quale riuscito esempio di mescolanza tra etnie e modelli culturali, quello offerto dall’esercito romano dell’età del principato (e, ancor più, del tardo-antico), costituisce spesso un feticcio sbandierato da certi ambienti per rammentare in ogni occasione utile, l’ineluttabilità dell’umano destino (e la sottesa grandezza legata ai principi che ne discendano): una gioiosa confusione di idee, tradizioni e lingue. Beninteso, tutto ciò non è rinvenibile nel pensiero degli specialisti della materia, i quali ben consci di come stiano le cose nella realtà, si guardano bene dal propugnare simili sciocchezze. Ma tant’è. L’idea è dunque quella che le armate romane, abbiano rappresentato un sorta di microcosmo e che testimonino e provino quel processo di confusione di culti che sarebbe divenuto tratto caratteristico dell’epoca imperiale, sì che proprio all’interno delle forze legionarie si sarebbe prodotto uno sfaldamento dell’originaria identità religiosa italico-romana a tutto vantaggio dell’orientaleggiante mondo dei misteri.
L’esempio che viene alla mente è quello del culto di Mitra. Le più recenti ricerche (specie di carattere epigrafico e prosopografico) hanno dimostrato, in realtà, che la sua diffusione si limitò al ceto medio-basso (soldati di rango inferiore, funzionari della burocrazia imperiale di livello piuttosto modesto, oltre a una gran mole di liberti e schiavi) ed ebbe ben poco dei tratti del virile tradizionalismo propriamente romano che si son voluti vedere in esso da parte di certi ambienti ancor oggi legati a giudizi risalenti ad un’epoca dominata da scarse conoscenze, come fu quella degli anni 30’ – scadendo, piuttosto, la religione mitraica, in un confuso insieme di liturgie esotiche (in cui, forse, neppure l’influenza del primo cristianesimo fu assente) mescolate tra loro, funzionali al carattere astronomico della sottesa ideologia, accompagnate da un attraente sfondo esoterico-soteriologico che poco o nulla aveva a vedere con l’originario culto iranico, sì che la nascita dello stesso rituale rimane sospetto; e, incidentalmente, assai poco “iniziatico”, di fatto: giacché, forse non del tutto a caso, manca ad esempio qualsiasi prova epigrafica (come cippi funerari e votivi, in gran uso all’epoca) che un adepto ai misteri mitriaci, sia mai appartenuto ad un grado inferiore al quarto – come noto, i gradi “iniziatici” sarebbero stati sette – e quindi sorge il sospetto che l’avanzamento fosse garantito un po’ a tutti quanti; con una certa speditezza e senza troppi problemi, insomma. Nonostante qualche moderna fisima, siamo ben distanti da ciò che fu il mos maiorum: giammai, d’altro canto, la religione mitraica ottenne un riconoscimento ufficiale dallo stato romano. Tuttavia, resta il fatto che la sua estensione (così come quella di altri culti orientali, che non va però esagerata, come vedremo) proverebbe la nascita di un nuovo modello culturale e religioso che si sarebbe progressivamente sostituito a quello romano tradizionale, specie in ambito militare.
Senza dubbio, il contatto nelle province più lontane, tra legionari, locali comunità e truppa ausiliaria, favorì la trasmissione (o meglio, contaminazione) tra differenti costumi e ritualità; parimenti, il trasferimento degli uomini da una guarnigione all’altra, costituì un veicolo per la penetrazione anche in Occidente dei culti orientali. Conosciamo ad esempio il caso di un centurione, tal Petronius Fortunatus, che nel corso della propria carriera militare, durata oltre 50 anni, fu trasferito in ogni angolo dell’impero: dall’Africa e Arabia, all’Italia, dalla Siria, alla Bretagna e Germania. Per tal via, un Juppiter Dolichenus, poté stabilirsi in Mesia proveniente dalla Siria e così Osiride trovò un qualche seguace sul limes germanico(seppure, assai più limitatamente). Ma è anche facile osservare, prima facie, come in realtà, proprio la rigida distinzione tra unità legionarie (cui potevano accedere solo coloro che possedessero la cittadinanza romana) e le unità ausiliare, costituisse una barriera alla penetrazione di identità estranee a quelle più strettamente cittadine ed identitarie italiche.
Si tenga conto che fino all’approvazione della cd. Constitutio Antoniniana (212. a.C., ossia l’editto emesso dall’imperatore Caracalla, che garantì la cittadinanza a gran parte degli abitanti dell’Impero: si calcola che sino ad allora, solo 1/3 della popolazione fosse un civis romanus) proprio attraverso il sistema dei diplomi militari (cioè documenti che venivano rilasciati agli ausiliari, al termine del servizio) veniva riconosciuta allo straniero, la civitas romana piena, ch’egli poteva trasmettere alla propria famiglia e ai discendenti. Ma solo a condizione che avesse onorato il proprio giuramento di fedeltà a Roma, al pari del legionario, prestato al momento dell’arruolamento (con una cerimonia religiosa detta anche honesta missio). Un esempio che dovrebbe essere preso a modello ancor oggi, sul significato più profondo dei doveri e degli oneri in capo a chi pretenda di accostarsi ad un’altra civiltà o nazione per cercare di entrarvi a pieno titolo.
Ancora, la reale diffusione dei peregrina sacra (cioè i culti stranieri) tra i militari, deve essere ridimensionata alla luce delle evidenze archeologiche: essa non incise mai concretamente, quanto a dimensioni, sul sistema religioso romano tradizionale. Ad esempio, l’insieme della documentazione conservata riguardante la provincia della Mesia e risalente agli stanziamenti militari delle legioni romane, attesta che circa l’80% delle dediche epigrafiche della metà del III° sec. d.C, erano rivolte a divinità facenti parte del pantheon romano. Emerge un altro dato: ossia che gli uomini appartenenti alle unità ausiliarie “regionali” (cioè provenienti dallo stesso luogo di reclutamento) e che andavano a formare reparti autonomi dal caratteristico nome, conservavano i propri culti privati, senza però influenzare le truppe legionarie “regolari”. Lo stesso mitraismo, nonostante certi falsi sensazionalismi à la Voyager, conobbe una penetrazione piuttosto modesta nei centri urbani e nelle stesse guarnigioni romane, e cioè pari a circa il 2% dell’intera popolazione dell’impero, quantomeno agli inizi del III° sec. d.C.; anche applicando modelli di sviluppo geometrico alla diffusione di un culto di natura misterica e da cui erano escluse le donne, siamo ben lontani dalla leggenda, secondo cui la religione mitraica contese al cristiananesimo le sorti della nostra civiltà.
E’ semmai vero, in un certo senso, il contrario: ossia che furono le popolazioni e i soldati provinciali ad essere influenzati dal pensiero religioso romano. A tal proposito, possediamo uno straordinario documento coevo, spesso misconosciuto o volutamente dimenticato, che conferma quest’ipotesi. Tra il 1931 e il 1932, nel corso di scavi effettuati nei pressi del fiume Eufrate, a Dura-Europos, un piccolo papiro con testo in lingua latina (detto Feriale Durianum), fu rinvenuto tra gli archivi della Cohors XX Palmyrenorum (cioè, un’unità ausiliaria dell’esercito romano, di stanza nell’antica provincia della Siria) conservati all’interno delle rovine di un tempio apparentemente dedicato alla divinità siriana di Azzanathkona (ossia Attagartis). Per quanto corrotto in alcune sue parti, il documento resta sufficientemente chiaro nel contenuto: il papiro contiene infatti un calendario risalente all’età severiana (più esattamente, databile tra il 223 e il 227 d.C., regnante l’ottimo e pio Severo Alessandro) con le ricorrenze religiose da osservarsi nel corso dell’anno da parte dei militari della locale guarnigione.
Le successive ricerche e lo studio del Feriale Duranum hanno accertato come esso rappresenti una copia del testo che veniva inviato ad ogni legione o anche unità militare romana formalmente indipendente, purché a livello di cohors (fanteria) o ala (cavalleria), composta da ausiliari, cittadini o meno che fossero, perché fosse osservato e seguito. Il testo (mancante per gran parte il periodo ottobre-dicembre, ma pressoché integro per i precedenti mesi) riporta giorno per giorno, le divinità da onorare e i sacrifici da compiersi, divisi tra supplicationes (cioè preghiere accompagnate dall’offerta di incenso e vino) e immolationes (cioè sacrifici animali). L’insieme, molto articolato, può essere suddiviso, grosso modo, in quattro gruppi di festività: quelle riservate per onorare il genio dell’imperatore regnante nel giorno della sua nascita e il genetliaco dei grandi condottieri del passato (Germanico, Cesare, Augusto etc), quelle dedicate alle principali feriae publicae romane (Vestalia, Neptunalia, Saturnalia etc) quelle dedicate alle singole divinità (Mars, Juppiter, Hercules etc) e alle ricorrenze per i riti strettamente militari (come quello del giuramento di fedeltà da rinnovarsi ogni 3 gennaio, i rosalia signorum etc).
La circostanza dell’inserzione nel Feriale Duranum di alcune cerimonie di carattere civico (come i già annotati Vestalia, ad esempio), smentisce, dunque, l’esistenza di una netta distinzione tra culti militari e quelli cittadini pubblici; né poteva essere altrimenti perché, in linea con la tradizione di epoca arcaica e repubblicana, l’intero ciclo del bellum romano, dalla partenza dell’esercito per la campagna sino al suo ritorno con la celebrazione del trionfo, dall’indizione stessa della guerra, attraverso il complesso rito della sua dichiarazione curata dal vetusto sodalizio religioso dei Feziali, al suo quotidiano esercizio faccia al nemico, per mezzo della ciclica lustratio (pulizia e purificazione) delle armi e della presa di auspici per scrutare la volontà di Giove Ottimo Massimo prima di ingaggiar battaglia, appaiono dominati dalla sfera del sacro (rimandiamo al bello studio di Jörg Rüpke, “Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom” Stuttgart, 1990, purtroppo non ancora tradotto e pubblicato in Italia) .
Qui, però, le prescrizioni rituali e i ferrei precetti dello ius divinum propri della latinità, sembrano davvero trasformare l’esperienza della belligeranza in un continuo, interrotto ciclo in una lotta illuminata, circondata e protetta dai numina romani, sin dal momento del giuramento prestato dal nuovo legionario (sacramentum, atto sacro esso stesso, come riconosceva obtorto collo persino un Tertulliano, autore cristiano arci-nemico della religione militare romana e la cui formula recitata – restituita nella sua probabile forma da Serv. Ad Aen VIII 614 – da un legionario appositamente selezionato, veniva seguita, con ferrea forza, dall’idem in me, “lo stesso valga per me”, di ogni altro soldato) per poi proseguire sino al suo congedo (l’honesta missio: che si svolgeva di fronte all’intera legione schierata, previa esecuzione dei rituali e sacrifici prescritti) terminando sovente con la richiesta di assistenza e protezione a Fortuna Redux (ossia la Fortuna di colui che era reduce di guerra, in senso di spirito protettore geniale: sebbene introdotta sotto Augusto per celebrarne il ritorno vittorioso, nondimeno essa poté anche essere onorata dal semplice veterano,come pare dimostrarne la popolarità) che accompagnava il ritiro alla vita privata del buon milite.
Chiaro l’adattamento di epoca imperiale, dovuto alle nuove esigenze date dall’estensione territoriale: secondo una prassi assai consueta, il conservatorismo religioso romano trovava, recte, nuove forme espressive. In questo senso, dato estremamente significativo, secondo la communis opinio degli interpreti, la copia detta Feriale Duranum, per vero, altro non rappresenterebbe che un adattamento di epoca severiana (o meglio, un aggiornamento) di una prassi assai più risalente, introdotta da Ottaviano Augusto per armonizzare e dare omogeneità ai culti romani militari o provinciali e, soprattutto, garantire, quanto più possibile, l’occasione di rispettare maggiori festività, agli uomini che si trovassero lontano dall’Urbe. L’inserimento successivo di personaggi di cui onorare il genius – come lo stesso Augusto, Vespasiano e altri eminenti Imperatori, per complessive 41 ricorrenze calendariali – prova al di là di ogni dubbio, che l’originale testo di epoca augustea subì successive addizioni e cambiamenti, pur nel rispetto del generale quadro di rispetto e trasmissione del culto tradizionale romano, con le sue principali festività e divinità da celebrare. La circostanza che in epoca severiana – spesso del tutto erroneamente identificata come periodo di estrema decadenza della religio italico-romana –ancora si conservasse tale uso (anzi, dando ad esso rinnovato vigore) prova che dopo decenni di frottole e bizzarre teorie, al centro del sistema del sacro si poneva l’attività religiosa veteroantica, la quale mantenne sempre un immutato vigore ed una supremazia incontrastata sui nuovi culti, come peraltro ormai pare generalmente ammesso.
Che in questo disegno, vi fosse anche la volontà di “romanizzare” la vita liturgica delle peregrinae popolazioni, persino giungendo a vietare implicitamente (certamente a scoraggiare) rituali o forme religiose non romane, può essere vero, come no: ma non pare essere la questione centrale. Al pari, v’è ben poco dubbio come, attraverso il rispetto delle regole del mos maiorum per mezzo di un preciso percorso da seguire da parte di ogni unità militare (ripetiamo: fosse essa composta da cives romani o meno), un po’ come avveniva per le festività civiche, si creasse anche un eccezionale esprit de corps e una coesione sociale nella vita del singolo soldato che lo avrebbe legato ai sacri destini stessi di Roma, anche attraverso la sua massima espressione imperiale, cioè il culto del genius (e del numen) del princeps oltreché del dies natalis Urbis Romae. Ciò che resta essenziale, è la questione della preservazione e trasmissione del sistema cultuale tradizionale: questione chiara, precisa, netta.
Gli scavi condotti sui resti delle guarnigioni fisse, poi, hanno dimostrato un altro punto assai importante. E cioè che mentre intorno ai castra (ossia gli acquartieramenti destinati alla truppa) potevano sorgere anche realtà religiose della più diversa natura e funzione (son stati scoperti persino luoghi di culto cristiano) destinati al culto privato, v’era un limite, un confine, invalicabile e fisico che i peregrina sacra non potevano varcare: ossia il perimetro dell’accampamento militare. Peraltro, all’interno dello stesso v’era uno spazio cultuale adattato, ossia l‘aediculum che doveva contenere un importante oggetto sacro, come vedremo a breve, e cioè le insegne della legione. Peraltro anche il praetorium (un’imponente costruzione posta al centro dell’accampamento) poteva servire a questo scopo, così come nel cortile di fronte ad esso, di norma, si svolgevano le più importanti funzioni religiose. Orbene, i risultati degli studi archeologici condotti in ogni luogo del mondo ove furono stanziate le legioni, ha dimostrato senza ombra di dubbio che giammai alcuna statua o immagine, rilievo votivo o dedica di una divinità orientale e comunque estranea al pantheon romano, all’interno dello stesso così come al di là dei fines del campo militare. Anche l’esame dei numerosi sacella (altari votivi o destinati ai sacrifici) disseminati e rinvenuti negli stanziamenti militari porta alla medesima conclusione: qualche rarissima dedica di protezione per la salute del locale comandante militare o per la buona sorte delle insegne militari, attraverso l’invocazione a divinità straniere poteva essere talvolta tollerata e ammessa. Ma nulla di più.
La religione ufficiale delle armi romane era ancora una volta inflessibile e non ammetteva eccezioni: neppure all’interno delle fortificazioni o fortini presidiati da unità ausiliare. Beninteso, all’esterno di essi e nello spazio immediatamente circostante (detto territorium legionis) anche per effetto della riforma introdotta da Settimio Severo che consentì ai soldati di vivere fuori dall’accampamento con la propria famiglia, ogni culto che non fosse stato dichiarato in contrasto con i principi religiosi romani era tollerato, ammesso e senza dubbio largamente praticato. Ma un vero e proprio processo di osmosi e inglobamento, a tutto favore delle externae religioni orientali, mancò sempre in ambito militare: e questo è ancor più riscontrabile in alcune province dell’Occidente, particolarmente “tradizionaliste” come la Britannia o la Gallia e pure l’Iberia.
Infine, per quanto lo spazio ci consenta (occorrerebbe svolgere uno studio a parte) vi fu un altro spazio fisico inaccessibile. O, meglio, un oggetto centrale ed essenziale per la vita sacrale delle armate romane, cui nessun culto non-romano ebbe mai accesso sino all’avvento del Cristianesimo: l’insegna ufficiale della legione (detta signum, la Iovis satelles cantata da Virgilio), ossia l’aquila. Come noto, solo nel 103 a.C. nel corso del suo secondo consolato, Gaio Mario adottò ufficialmente l’aquila come simbolo del signum della legione; prima di allora come riferisce Plinio il vecchio (N.H. 10,16) la prima cohors della legione (al cui signifer era affidata l’insegna, dopo una severissima selezione) era uso impiegare cavalli, minotauri, lupi o cinghiali a seconda dei casi. Ma da allora solo l’aquila fu adottata e amai alcuna immagine, se non quella dell’Imperatore fu accoppiata alla stessa. La funzione sacrale del signum (vocabolo polisemico, non a caso, che poteva designare tanto un presagio, quanto l’insegna, mentre nella letteratura spiccia e popolare anche una sorta di confetto) pure è nota. La perdita dello stesso comportava il più delle volte lo scioglimento della legione con disonore o, in altre, una severa punizione. Le stesse aquile in tempo di pace venivano conservate nel Tempio di Saturno, mentre una volta esaurita (per altri motivi) la propria funzione erano depositate in un apposito spazio all’interno del Tempio di Mars Ultor.
Ma anche in quelle rare occasioni in cui le aquile romane furono vinte o prese, subito altre furono forgiate e sorsero, nuove braccia si accalcarono per levare al cielo il simbolo stesso di Jupiter Optimus Maximus Stator Depulsor Triumphator Invictus Victor Defensor et Tutator: si ché intorno ad esse, si potessero radunare, fiduciosi nella vittoria, gli uomini che giurarono fedeltà a Roma, rinnovando di anno in anno quel patto sacro, quel giuramento d’onore. Non in oscure caverne o in buie catacombe, non dentro piramidi o bizzarri templi orientali, non contorniate da immagini mostruose o dementi : ma sui campi di battaglia, al sole radiante. Sul limes, sui confini dell’Impero a difendere un’idea di civiltà e spirito. Non furono mai vinte, quelle aquile: se ne dovette decretare la morte loro per editto, pian piano sostituendole con croci e o dragoni, regnante il cristiano Teodosio e i suoi successori.
Eppure, ne siam certi, in cuor suo ogni vero legionario non le abbandonò mai: e noi, idealmente, con loro.
Stefano Bianchi
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.