“‘Ntoni passa il tempo a bere alla bettola della Santuzza“… si legge nei Malavoglia, ed anche qui si evoca uno spazio, appunto la bettola o taverna, per indicare quel luogo, nell’immaginario d’infimo ordine con spaccio e mescita di vino e talora con servizio di cucina, ma rassicurante, sapido di odori, dalle finestre con i vetri opachi di vapor acqueo e di tanto altro, che sono state, anche per Brolo, da sempre la valigia dei ricordi e che nel passa parola biascicato dal vino e dalla mancanza di denti hanno tramandato la memoria storica di fatti e misfatti. Brolo e la sua storia sono passata anche da lì.
Per entrarvi occorreva piegare la testa a scendere due scalini e “annacarsi” lungo un percorso, sempre uguale a se stesso, d’estate e d’inverno, per raggiungere il solito tavolo dove assieme agli altri – sempre i soliti – farsi il bicchierozzo di vino rosso, sapientemente diluito con la gassosa.
Questa era la bettola “du Cucciuni”.
L’ultima, alla fine degli anni sessanta, in ordina di nascita, tra quelle che oggi chiameremmo cantine della vecchia Brolo.
Era in piazza Annunziatella. Una serie di locali in successione. Uno spazio, il suo slargo fuori, sottratto ai ragazzini che giocavano a pallone, tramutando la saracinesca di un garage, quello del maestro Siracusano, in improvvisata porta di calcio, mentre in fondo tra i ruderi della vecchia chiesa dell’Annunziata, la forgia di Don Paolino, conservava ancora, all’ingresso quello che restava della piccola torre campanaria, nata nell’emergenza di dare un luogo di culto, sopratutto alle donne brolesi, mentre la chiesa subiva i lavori di restauro.
Le altre bettole, al centro di Brolo, erano quelle da “Naggitta” e di “MenzaNasca”.
Tutte sulla “nazionale”.
Poi quella della signora Paolina, si spostò per pochi, gli ultimi sui anni di attività, in via Trento. Ma era finito il loro tempo.
Ma la bettola storica rimane quella dei Campo, quella che nasceva nei luoghi del vecchio fondaco, a ridosso del Palazzo dei Gembillo e dei Maniaci, conservando ancora le fattezze di un tempo con il ricovero per i cavalli trasformato in magazzino.
“Se passi da Brolo e non si rubato Maniaci è malato carcerato”.
Si legge in una vecchia agenda del 1800, che dà – nel bene e nel male – storicità a quell’attività.
L’altra bettola brolese, era quella di Don Santo, proprio a ridosso dell’arenile, alla marina.
Qui oltre a fave e lupino, ben mischiate con il vino era facile mangiare del buon pesce.
Quindi c’erano le altre. A Piana, da Don Cono “u zoppo”, era un misto tra putìa e bar, quindi a Iannello, da Aria – forse l’unica rimasta -, ed al Lacco da donna Rosina a “Puntida”.
Ad esser precisi un’altra mescita di vino sorgeva sullo spartiacque con il comune di Ficarra, a pizzo brignolo, sempre da Aria e qui il confine con la casa era davvero labile.
Le taverne era teporose, sempre, in ogni stagione, l’aria quasi mite durante l’estate, forse per via dell’umidità che proveniva dalle botti, invitava a star dentro, mentre erano voragine di vapori d’inverno.
La Gente cambiava a tutte le ore, anzi segnava con la sua presenza le fasi della giornata, i tempi lenti del paese.
A volte c’era silenzio con gli occhi di tutti puntati sul bicchiere, quasi un’unità di misura, “barbetta”, altre volte, sopratutto quando si giova a Stop, erano animate, le urla si sentivano dalla strada, intercalate da insulti, dove le madri diventavo protagoniste, e bestemmie, e si sentiva il tipico rumore, di chi stava a guardare, tra riso e scracchi.
Si lo Stop era il gioco di carte tipico, insieme alla scopa, di imbriacuna, il ramino, il tressette e la briscola venivano lasciati agli avventori di Donna Rosa, quelli del Bar Savoia. Ancora il circolo Artigiani non c’era.
Ma resta nella mente quel tipico odor acre di fiati agliosi, di sudore antico, di scarpe dalle suole bagnate e di menti ormai annebbiate di alcol, diabete e malinconia.
Stanze che diventavo antri, dai vecchi mantelli color militare appesi alle rastrelliere diseguali tra coppole e sciarponi, giacche di velluto, colli di camicie lise, gesti usuali, cappotti, d’inverno, mai smessi, quelli color cammello che rammentavano altri vissuti, anche se la conca faceva il suo ruolo, ed il pentolone sapeva di ceci e fagioli che affioravano da una brodaglia melmosa, mentre la carta del pesce permetteva alle uova o a pezzi di salsiccia di diventar buoni da mangiare immersi nelle ceneri calde.
Bettole, come luoghi dove passar il tempo, senza la televisione a casa, senza nessuno che aspettasse nessuno.
Dai banconi luridi, lerci, grassi con i bicchieri di vetro, forse solo sciacquati e le misure dei quarti e dei mezzolitro dei vini sul bancone con le cassette delle “Cucinotta” messe in fila, accatastate, e le chiazze del vomito sui muri, appena fuori dove spesso aleggiavano odori di urina, mal tenuta, e fatta in fretta prima che scappasse. Ma a tutti sembrava ugualmente pulito, quotidiano, quasi di casa.
Erano spazi riempiti di un’umanità che ricordava la guerra, anche quella che aveva preceduto la seconda, lo sbarco, la donna lasciata in eritrea con due o tre figli, l’emigrazione in Belgio, i figli morti di tisi, il lavoro perso, il dito amputato dal coltello utilizzato per rimunnare gli agrumi, dei solchi sulla schiena fatti della fascine troppo pesanti per un bambino ancor troppo distante dall’essere ragazzo, da mariti raccattati dal mogli che se li riportavano a casa, sera dopo sera, ubriachi, puzzosi e vogliosi di far sesso in un letto freddo.
Bettole che sul finire della loro epopea vennero anche frequentate da una strana gioventù brolese.
“Nera” spesso per caso e non per convinzione, vogliosa di saper storie, di averle raccontate, ladra di memorie, consapevole di trasgredire agli occhi dei perbenisti, di scandalizzare che aveva trovato un altro ghetto dove stare che non erano le “catenelle” messe a difesa dei passanti davanti alla nuova Posta.
Giovani che si sentivano un pò reduci che così incontravano un’altra generazioni, reduci entrambi, ma senza quella di mezzo.
U Catineri, u Giocufucaro, u figghiu di Manciasciutto o dell’Appuntato, il Mugnaio, e gli altri, poi diventanti monaci, ingegneri, bravi padri di famiglia, persi per strada, andati via, qualcuno finito anche in galera, altri morti in una loro gioventù spezzata… amici che iniziarono ad amare quell’umanità, rubandone racconti e saperi, storie e misfatti e che brindarono con gli ultimi alla chiusura di questi posti… ed il pub non ha certo quel fascino.
Tutta la storia del bere, senza mangiare a volte, del sottoproletario brolese, dei braccianti, dei sindacalisti, dei marinai, dei cornuti, degli scioperati, degli operai, esce ed entra in questa strana architettura socialurbana dello stare insieme.
Le bettole brolesi era divise in veri e propri clan. Guai a sgarrare, erano club esclusivi.
Difficile, tranne dalla “Naggitta”, che vi entravano “stranieri”. Per i viandanti, già negli anni cinquanta c’erano bar e alberghi pronti ad accoglierli.
Vi entravano a volte oscuri sbirri, per carpir storie di contrabbando, e prima di mano nera, e poi di un a partita di polvere nera usata per far brillar le mine dentro le cave e finita in strane mani per la pesca di frodo e ipotetici attentati.
Entravano i personaggi del paese, Don Nino “u barberi”, monarchico, a modo suo aristocratico, Francesco che sapeva l’Orlando Furioso e la Divina Commedia a memoria, i monaci questuanti, con i loro Rosari fatti di petali di rose essiccate, un vecchio poeta, abbandonato dal circo, gli uomini di fatica che avevano caricato agrumi e patate su vagoni ammassati lungo il binario morto della stazione, un antico parente del Baritono, gente delle “casitti”, del castello, chi aspettava o aveva perso di proposito l’autobus, chi era stato lasciato dalla moglie, chi voleva dimenticare una gravidanza sapendo che il figlio non era suo. Chi aveva subito l’insulto del “padrone” o aveva perso il lavoro per non aver detto “sabbinidica”. In quei luoghi entrano chi aveva il coltello – la molla – nella tasca dei pantaloni, o il ferro, pronto a sparare, portato appresso perchè non si sa mai. Mai donne o baldracche. Per quest’ultime c’erano altri posti.
La bettola era un punto di ritrovo, rimpiazzava la casa e la famiglia, il focolare, normalizzava la giornata, a volte le dava un senso. Per le feste ospitavano la banda, si riempivano di note, il menù era uguale, stagionale, non cambiava. Lo scaccio, le carrube, la minestra, a volte il fegato di maiale, qualche pezzo di capone o le acciughe, mangiate quasi vive mentre quelle salate servivano per berci sopra.
Era un’avventura mangiarci. Oggi con le normative vigenti, non sarebbero mai state aperte. Eppure non è morto mai nessuno. Neanche un mal di pancia, solo forti mal di testa, dopo, riprendendosi dalle sbornie, epiche, senza risse, d’altri tempi.
Tra storie e cibo c’erano i misteri del paese che emergevano, u lupu minario, u sugghio, il malocchio, ed i sapori che si mescolano tra dotte culture, mignatte e attrezzi quotidiani. Gusto e materialità.
Su quei tavolini, senza tovaglie, si leggevano nei disegni fatti con chiodi o con le unghia annerite una tribale arte figurativa, poche frasi, non tutti sapevano o ricordavano lo scrivere. Linee grafiche essenziali, come lo erano le menti lineari di chi le tracciava, che svuotavo il bicchiere tutto di un fiato, tra pane e lardo, offrendolo il vino a chi entrava, anche ai bambini venuti con i soldi in mano a riempir una bottiglia per la cena a casa e che rimanevano sull’uscio… la Taverna faceva un pò paura.
Bettole che a Brolo, come a Gioiosa Marea dai “Ridduciuti”, a Sant’Angelo di Brolo, Ficarra e nei dintorni, diventavano equilibratori del livello sociale, si perdevano i titoli, uscendo ubriachi, anche se questi rimanevano appiccicati addosso, come quel “lasciate il posto o figghiu du prufissuri” che sedeva orgoglioso difronte ad un nonno bistrattato.
Luoghi vivi che oggi, riflettendoci, creano una sensazione di pace di un romantico passato dove i tavoli malfermi, il venerdì quasi sempre vedevano scorrere i piatti di baccalà.
Le bettole a Brolo avevano anche il momento del “tocco” anche se i viveurs locali lo hanno sempre snobbato. Relegando all’estate, a chi “si faceva” di birra. Ad un’altra generazione.
Resta difficile comunque per chi c’era il levarsi di dosso, quei vapori di cibo e di corpi dall’acuto sentore di mosto, di pelle e di fumo.
Lungo la strada, dopo una certa ora, era facile individuare chi proveniva da questi luoghi.
Un inceder incerto, un muro per sostenersi, la risata per un nonnulla, un rutto, in piena libertà, anche questo liberatorio, amplificato anche dall’assenza di un traffico inesistente.
Sembra un secolo, appena trent’anni fa.
Tutto ora è ormai finito, non esiste quell’epopea quasi mandata giù a forza dalla grande pancia di un paese che ambiva a divenir città e che non voleva conservare memorie ingombranti.
Ma rimangono i ricordi e storie, quelle facce scavate e le pacche sulle spalle, le manate sulle cosce, quasi a evocar un ricordo difficile da far emergere
Luoghi e ricordi che hanno la voluttà di un ritorno, il dolce lasciarsi scivolare nell’abisso, nei sdirupi, che solo la mente può permettersi.
Ecco la “Valigia dei ricordi”.. quasi quasi se ne sente l’odore.
foto tratte archivio storico pidonti
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