“L’improvvisazione può salvare ancora la musica. Non riuscirete a demolire la fantasia del bambino che c’è in me”. L’intervista.
Il pianista e compositore pugliese, trentacinquenne, pluripremiato Top Jazz di fama nazionale e internazionale, alla fine del concerto di Milazzo all’alba, (http://scomunicando.hopto.org/notizie/castroreale-milazzo-jazz-livio-minafra-colora-lalba-di-nuove-sonorita/) si è intrattenuto con noi per un’intervista. Ne viene fuori un musicista intraprendente e audace, che sa liberare al meglio il proprio talento; un innovatore in costante divenire che dimostra di non avere steccati neanche nell’affrontare le discussioni. Sono stati toccati argomenti che interessano sin dall’infanzia la vita di un musicista. Tra le sue considerazioni: “Perché i grandi, da Michael Jackson a Bob Marley a Mozart hanno fatto se stessi e noi li teniamo come idoli? Perché li conserviamo, anziché capire il loro senso di ribellione e inventare qualcosa a nostra volta?” Su Antonello Salis: “Più che un pianista è una forza della natura. E’ il mio maestro, il mio modello”. “I 4 titoli accademici? Li ho usati come scudo…”. Sulla pratica che più gli sta a cuore ha girato la domanda: “Hai letto la mia biografia ma adesso come stai facendo le domande? Stai improvvisando…”
Dopo quasi due ore e mezza di concerto, alla fine dell’evento che ha accolto l’alba a Milazzo dopo la notte di San Lorenzo, la luce è intensa e la terrazza retrostante al chiostro del Rosario offre un affaccio mozzafiato. E’ l’ora della colazione. Livio Minafra attende la tanto desiderata granita con brioche: “Quando insegnavo al ‘Corelli’ – ricorda il pianista con simpatia e soddisfazione – assieme gli allievi, durante le pause, era un passaggio obbligato”. Il musicista è attorniato da addetti ai lavori e appassionati, pronto a ricevere commenti, a scambiare opinioni e impressioni sul concerto.
Notoriamente, egli ama l’originalità, ritenendo giusto, innanzitutto, essere ed interpretare se stesso. Per cui riferire circa i maestri che l’hanno ispirato non è operazione semplice. Ma scorrendo la sua storia artistica, sulla ricerca di alcune affinità, c’è un grande pianista – fisarmonicista, un modello di musicista sui generis, cui Minafra discende artisticamente. L’approccio con il musicista è stato proprio sul “maestro”. L’unico che, conoscendolo, potesse avere nei suoi confronti questa influenza, se di “influenza” si tratta.
Livio Minafra si racconta in tutti i sensi, con le parole così come in piano solo.
Sorprende piacevolmente la sua libertà, la sua spontaneità.
Alle prime luci dell’alba abbiamo visto un Livio Minafra particolarmente ispirato. Non ami i paragoni, ma in ciò che fai rivediamo l’arte e il carattere di Antonello Salis.
Uno cerca di essere autentico, originale. Madre natura ci ha fatto con le impronte digitali diverse. Non è che uno vuole fare “dio”, però vuole fare “io”. Però esistono dei maestri: effettivamente Antonello Salis è tra quei maestri forti della mia vita. Egli più che un pianista è una forza della natura, più che un tecnico è un vulcano. Siamo nella terra dell’Etna e di Stromboli, per cui è giusto parlare in questi termini. Questo mi ha affascinato tanto. Sì, Antonello Salis è il mio maestro, vogliamo dire anche il mio modello. Lo è stato.
E’ un concetto ricorrente. Quanto influisce l’idea del viaggio nella tua musica?
Il viaggio è tutti i giorni, tutti i momenti. Infatti, uno fa un programma ma poi deve modularlo, deve stare attento agli imprevisti, essere brillante, positivo, sempre e comunque. Quindi il viaggio non è una scelta, non è una necessità, è veramente una condizione. Noi che facciamo musica improvvisata abbiamo questo privilegio: possiamo scegliere che musica fare e come farla. Io ho una formazione anche classica: se devi fare Beethoven o un notturno di Chopin, quello è. Se stai male, è successa una cosa brutta e devi fare un allegro, devi farlo. Questa è una sconfitta per la musica, anche perché Chopin improvvisava. Poi è un equivoco pensare che la musica scritta sia stata stigmatizzata, ma lui improvvisava. Quindi il concetto della musica è un viaggio, però bisogna farlo davvero, non riciclandosi nello standard o nell’esecuzione. Chopin bisognerebbe improvvisarlo di nuovo, fatto salvo il tema. Questa è una cosa che può salvare ancora la musica. La gente al di là che sia esperta o massaia, forse questo lo capisce.
Il tuo caso è quello di un musicista che si è affacciato al mondo con ben 4 titoli accademici: Pianoforte, Musica Jazz, Strumentazione per Banda e Composizione classica. Quanto ti ha condizionato tutto ciò, nel trovare una personalità al di là della preparazione accademica?
Sì, sì, in realtà balza molto agli occhi che ho 4 lauree in musica. Però in realtà sono condizioni di arrivo, non di partenza, nel senso che per me sono degli scudi. Io sin dall’inizio ho improvvisato: ho scoperto il pianoforte perché era dentro casa mia. Sono figlio di musicisti e quindi questa condizione mi ha aiutato, anche perché mia madre fa musica antica mentre mio padre faceva avanguardia di jazz (Pino Minafra, importante trombettista e flicornista jazz, classe 1951, ndr). Quindi in casa convivevo col diavolo e l’acqua santa. In più avevo il pianoforte e in qualche periodo anche la batteria. Morale: un bambino che fa? Si approccia, non si fa domande su cos’è il “do”, sul tasto nero o tasto bianco, etc. Neanche gliene frega più di tanto. Suona, si esprime, tanto non è giudicato come noi adulti che abbiamo il panico di essere giudicati. I bambini fanno, loro “sono”.
Tutto questo fino a quando?
Questa condizione me la sono portata avanti fino quando ho iniziato a studiare, a subire l’accademismo. Ad un certo punto ho detto: prendo quello che mi serve dall’accademismo. Lo prendo, però lo porto nella mia stanza dei giochi. Ho pensato: non riuscirete a demolire la fantasia del bambino che c’è in me. Normalmente invece accade il contrario. Poi si salvano dai conservatori, è una legge naturale, ma non è giusto, perché un conservatorio – e io ci insegno – dovrebbe dare gli strumenti e non invece bacchettare e fare fuggire la maggior parte degli studenti. Uno si salva solo perché ha saputo resistere. Questa non è scuola, questo è inferno. Infatti, a 22 anni, quando poi ho preso le quattro lauree: Pianoforte, Musica jazz, poi Strumentazione per banda e infine composizione classica, che è la più difficile, le ho usate come scudi, perché, quando suoni in maniera originale ti dicono: oh, ma non sei jazzista! Eh, ma non sei classico! Allora, che sei? Vabbè, è facile suonare cose tue, ma facci sentire una cosa alla Oscar Peterson! Ma sai suonare alla Brian Auger? Dunque chiedo: perché devo suonare alla maniera di…? Perché i grandi, da Michael Jackson a Bob Marley a Mozart hanno fatto se stessi e noi li teniamo come idoli? Perché li conserviamo, anziché capire il loro senso di ribellione e inventare qualcosa a nostra volta? Allora come ho fatto a difendere questa cosa? L’ho fatto anche con i titoli di studio: sono inattaccabile. Però io, lì (indica lo spazio del concerto, ndr), in realtà, i titoli non ce li ho. Quando suono, dentro di me, non ce li ho, quelli sono solo degli scudi.
Quindi si tratta di improvvisazione quasi costante, perenne.
Tu che stai facendo adesso con le domande?
Sto improvvisando…
E’ vero che hai letto la mia biografia, però stai improvvisando. Questo lo facciamo normalmente, quando parliamo, quando incontriamo una persona, quando nasce una scintilla positiva. In musica non ci abituano a questa cosa, quando invece nella musica si è sempre improvvisato, dalla notte dei tempi fino al 1800. Gli ultimi improvvisatori sono stati Listz, Ravel e Chopin, dopodiché è tutta musica scritta ed eseguita. Quindi è un errore: da 100 anni siamo persi, speriamo di ritrovare la via, no?
Certamente. Allora possiamo dire che penetri nella parte vuota, non scritta del pentagramma e ne fai una tua idea di vita.
Sì, sì, cerco di raccontarmi. Se ci pensi il pentagramma è bianco. E’ il nostro foglio bianco, quello che il bambino riempie col disegno che preferisce. Tanto non lo riempie mai tutto. Se noi adulti facciamo un disegno, il foglio lo riempiamo tutto, mentre il bambino fa, fa e poi finisce, ma lascia molti spazi bianchi. Questo è il pentagramma per me: bianco con cinque linee, poi io decido cosa metterci di volta in volta. Sono dei miei brani, ma si tratta di canovacci che poi, giorno dopo giorno…Stamattina all’alba alzavo la testa e lo sguardo e vedevo quanto fosse buio e quindi pensavo: quanto devo usare le dinamiche? Come devo improvvisare ché non è ancora giorno?
Questa è la “visione del mondo” di un musicista libero, creativo, ribelle al punto giusto. Uno fra i pochissimi in grado di cogliere il senso del momento da condividere con gli appassionati. Un esempio per la musica di oggi e di domani.
Corrado Speziale