Il prete non è una figura privilegiata alla quale vanno dati riconoscimento e status speciali. Ma forse la triste vicenda del suicidio del prete di 35 anni di Novara, don Matteo Balzano, ci obbliga a una riflessione.
Finora il nome di don Matteo ci ricordava il personaggio della tv. Simpatico, sempre disponibile, mai stanco. Uno di noi. Ma anche no. Perché è così che vogliamo il prete. Uno di noi ma anche, e soprattutto, uno separato da noi. Uno che si faccia trovare sempre, a tutte le ore e, allo stesso tempo, uno che si ritiri in buon ordine, nel suo mondo, quando di mezzo non ci sono celebrazioni, feste e sagre. Ovvero, quando non vogliamo che sia uno di noi.
Questo è il don Matteo della TV. Il simbolo della sua “non” appartenenza a quel “noi” che è la sfera privata delle famiglie è proprio lì, in quell’abito talare sciupato, cappello da prete, bicicletta, segni che delineano il confine fra una persona “normale” e il prete, colui che, quando non ci serve, non deve stare con noi.
Ma queste serie si chiamano “fiction” per un motivo. Si tratta di finzione. E mentre riempiono il cuore della classica famiglia della media borghesia italiana, presentando, anche in questo caso, il prete del mulino bianco, mentono, perché non parlano della vita reale, quella fatta di infinite sfaccettature di bellezza come anche di lati spesso drammatici.
Non serve nessun elogio della figura del prete. Io personalmente non ne sento proprio il bisogno. Non siamo né santi né eroi. Ogni giorno cerchiamo di capire, fra le vicende alterne della vita, quale è la chiamata di Dio per questo giorno, per questa o quella particolare situazione.
E per esperienza posso dire che sovra-esporre i preti a elogi non fa loro alcun bene. E spesso si ritorce contro di loro. E’ sempre la croce che ci rende più umani, più cristiani e, dunque, più preti.
Disse Gesù agli apostoli: “Guai quando tutti parleranno bene di voi”. Attenzione, dunque, alle motivazioni per cui elogiamo o critichiamo o attacchiamo i preti. Spesso non sono motivazioni legate alla loro fedeltà al vangelo quanto quelle legate alla misura di quanto ci soddisfano.
E con ostinazione torno a dire: smettetela di chiedere ai preti che vi facciano solo divertire. Così li esponete al fallimento. Chiedete loro che vi parlino di Gesù Cristo, di quel Dio che ama tutti di amore infinito. Ed esigete che sappiano parlarvene con la massima profondità. Non accontentatevi di nulla in meno. Se volete, invitateli voi ai vostri momenti familiari di svago e allegria, perché ha bisogno anche di questo. Lo dico io che, giunta la sera, non vedo l’ora di ritirami a casa per la stanchezza e amo stare da solo, con me stesso.
C’è chi dice: il prete ha fatto la sua scelta quindi si tenga per sé le sue difficoltà. Giusto. Ma non è che con l’argomento della “chiamata” e delle scelte legate all’essere prete, la comunità cristiana non si stia auto-assolvendo da ogni responsabilità di prendersi cura dei propri sacerdoti girandosi dall’altra parte? Non è che questo rischia di trasformarsi in un pretesto per imporre al prete dei macigni che la gente non tocca nemmeno con un dito? Se così fosse, siamo al fariseismo alla rovescia.
Non serve nessun elogio della figura del prete. Siamo uomini. Sbagliamo. Anche noi dobbiamo fare i conti con i piccoli fallimenti che accumuliamo lungo la strada. Senza piangerci addosso e senza accusare. Anche noi dobbiamo confrontarci con quella cosa che si chiama “fede” e che tutti credono di avere in tasca come una tessera, salvo poi vivere una vita come se Dio non esistesse, oppure come se la sua esistenza non serve a nulla. Il prete non va giustificato sempre e comunque. Deve assumersi le sue responsabilità e non chiedere sconti a nessuno per via della sua “scelta”.
Il prete non va sottoposto a un trattamento di comprensione speciale. Ci sono padri di famiglia e giovani in cerca di futuro a cui la vita non fa nessuno sconto. Ma non va nemmeno lasciato a sé stesso. Nessun prete può sopravvivere all’assenza di una comunità per la quale lui dà la vita. E’ la comunità il luogo naturale dove il prete si realizza nella sua umanità. Pensare che un prete possa sopravvivere senza una comunità “affettiva” è come pensare che un essere umano possa essere generato in laboratorio e possa vivere e arrivare a maturità rimanendo chiuso in un laboratorio.
Ci sono preti sgarbati, preti isolati, preti politicanti, preti attaccati ai soldi. E ci sono preti che per non negare un certificato si mettono i vestiti sopra il pigiama all’una di notte ed escono di casa, preti che non sanno dire di no quando serve dirlo, preti che hanno paura di perdere il consenso popolare, preti sinceri ma psicologicamente fragili, preti che soffrono di burnout, di solitudine, preti fedeli sono al martirio e preti fedeli nell’anonimato. Preti simpatici e antipatici. Preti instancabili nel fare il bene.
D’altra parte, non veniamo dal pianeta Marte. Siamo lo specchio della società reale. Siamo uomini, ministri, tutto quello che volete. Ma restano sempre parte di quella famiglia umana in cui si diventa “umani”.
Riguardo don Matteo Balzano, che si è tolto la vita, la domanda non è: chissà cosa provava nel suo cuore. E’ chiaro che qualcosa lo ha tormentato. Un rimorso, la solitudine, la sensazione di aver fatto una scelta di vita sbagliata? Non so se lo sapremo mai. La vera domanda è: qualcuno, all’interno della comunità cristiana o frequentatore dell’oratorio dove prestava servizio, si è mai accorto di qualcosa, nel suo sguardo, nei suoi silenzi? Esiste davvero una comunità, quella fatta di relazioni che “salvano” il prete dall’isolamento, lo realizzano nella sua umanità e fanno sentire confermato nella sua vocazione? Se guardiamo alla nostra società europea, divenuta ormai post-cristiana, la risposta non è incoraggiante.
Come ho già detto altrove, mi sento benedetto da Dio perché oggi posso dire che mi sento circondato da una comunità che sento come una famiglia. Ma quanti si trovano in situazioni diverse, magari col rischio di divenire persone spigolose e difensive. Chissà se don Matteo ha potuto appoggiarsi a una comunità.
Il carattere del prete fa tanto. Personalmente, posso dire che davanti agli elogi non ci sono cascato. Non ho mai posto la mia fiducia nel consenso e nell’approvazione. Davanti alle accuse non mi sono lasciato intimidire. Smarrito e spiazzato, per un attimo, sì. Ma oggi, con qualche cicatrice in più, posso solo dire grazie per l’affetto di un numero infinito di persone. Ed è un affetto vero e ricambiato.
Il problema è lo stesso che attanaglia la società moderna: la dissoluzione e la mercificazione dei rapporti umani, la loro banalizzazione, la scomparsa della comunità, la cultura della prestazione e della perfezione. E’ un problema che colpisce il prete come anche chi è sposato e ha famiglia.
La differenza sta nei modi in cui tutto questo si manifesta. Il problema di preti che soffrono di demotivazione, burnout o anche di alcolismo e depressione esiste. Solo che, da lui ci si aspetta nulla in meno che la perfezione. E spesso, chi la pretende, sta cercando solo di nascondere le proprie voragini interiori e per farlo, magari si crea un account social e comincia a vendere una immagine di sé ideale, bugiarda.
Grazie del dono della tua vita, don Matteo. La tua anima riposi in quella pace che non sei riuscito a trovare tra noi. E prega per noi. Per i tuoi confratelli e per la chiesa. Non dico che il tuo gesto estremo sia colpa della società. Ma vorrei che la tua morte non sia vana. Aiuta noi cristiani a migliorare.
Riposa in pace.