1 febbraio 1876 – Quando gli Stati Uniti massacrarono i Sioux
Che ne pensi di

1 febbraio 1876 – Quando gli Stati Uniti massacrarono i Sioux

Membri di una delegazione di Nuvola Rossa (al centro), storico capo degli indiani Sioux in una fotografia scattata prima del 1876 (foto Corbis).

Ieri cadeva l’anniversario di una dichiarazione di guerra troppo spesso ignorata o non considerata come tale.  

Il 1 febbraio 1876 il ministro degli Interni degli Stati Uniti d’America dichiarò guerra ai Sioux “ostili”, quelli cioè che non avevano accettato di trasferirsi nelle riserve, dopo che era stato scoperto l’oro nelle Black Hills, il cuore del territorio Lakota.

Come si potevano traferire migliaia di uomini, donne e bambini dalla terra dov’erano nati, in una stagione dell’anno in cui il territorio era coperto di neve?

Molti indiani pare neanche ricevettero l’ordine, in quanto impegnati nelle loro attività di caccia, lontano dalla propria residenza.

Guerriere Sioux e Cheyennes durante una rievocazione storica (foto Corbis).

Quella dichiarazione di guerra del 1 febbraio fu l’inizio del massacro degli Indiani d’America, che culminerà con l’eccidio di Wounded Knee, passato alla storia grazie a canzoni, libri e film.

Sul finire del dicembre 1890, la tribù di Miniconjou guidata da Piede Grosso, appresa la notizia dell’assassinio di Toro Seduto, partì dall’accampamento sul torrente Cherry, sperando nella protezione di Nuvola Rossa.  

Il 28 dicembre furono intercettati dal Settimo Reggimento, che aveva l’ordine di condurli in un accampamento sul Wounded Knee: 120 uomini e 230 tra donne e bambini furono portati sulla riva del torrente, circondati da due squadroni di cavalleria e trucidati.

Un indiano Lakota a Wounded Knee (foto Corbis).

“Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” di Dee Brown è il libro (anche film) che ha commosso generazioni di persone e ispirato cantanti di tutte le generazioni e latitudini, fino a Fabrizio De Andrè che compose la canzone “Fiume Sand Creek”, Prince e Luciano Ligabue.

Protagonista delle lotte indiane per 40 anni fu il Capo Nuvola Rossa (1822-1909) che si confrontò aspramente con l’agente governativo perché venisse rispettata l’autorità tradizionale dei capi indiani.

Nel 1888 invitò i Gesuiti a creare una scuola per i bambini Lakota nella riserva indiana, una scelta necessaria per mantenere il legame degli Indiani con la loro terra.

Pochi anni prima il governo aveva cercato di obbligare i bambini a frequentare una scuola “bianca” per essere “civilizzati” con risultati disastrosi per la cultura indiana.

Nuvola Rossa andò a Washington più volte di ogni altro capo indiano e rimane il leader più rispettato del suo popolo, insieme ad Alce Nero, noto per la sua forte carica spirituale.

Quest’ultimo aveva 13 anni nel 1876 ed era già impegnato nella causa, tanto che l’anno dopo andò a Londra per incontrare la Regina Elisabetta.  

Così racconta il massacro di Wounded Knee: «Brillava il sole in cielo. Ma quando i soldati abbandonarono il campo dopo il loro sporco lavoro, iniziò una forte nevicata. Nella notte arrivò anche il vento. Ci fu una tempesta e il freddo gelido penetrava nelle ossa.

Quello che rimase fu un unico immenso cimitero di donne, bambini e neonati che non avevano fatto alcun male se non cercare di scappare via».

Bambini della tribù Sioux oggi nelle loro riserve (foto Corbis).

I Sioux, che preferiscono chiamarsi Dakota o Lakota, sono la principale tribù degli Stati Uniti, con 25.000 membri.

Ora vivono in riserve nei loro antichi territori. Continuare a raccontare la loro storia (pochi giorni fa è stata la Giornata della memoria) è un modo per non dimenticare di cosa è stato capace l’uomo nel corso della storia e fare in modo che episodi simili non si ripetano.

foto C orbis, testo: http://www.famigliacristiana.it/articolo/indiani_010212101431.aspx

 

 

Il massacro di Sand Creek, quello della canzone

Prologo
I primi giorni di dicembre del 1864 nei saloon di Denver e sulla stampa locale si raccontava l’eroica parabola di un manipolo di valorosi soldati guidati dal colonnello John Chivington, che avevano sgominato in una «valorosa battaglia» ben 600 guerrieri indiani. A provarlo c’erano i macabri trofei esibiti dagli autori dell’impresa: anelli, scalpi, nasi, orecchie e organi sessuali amputati. Le cose in realtà erano andate diversamente. L’impresa di cui i soldati si vantavano era l’attacco avvenuto il 29 novembre presso un accampamento di circa 600 nativi americani, membri delle tribù Cheyenne meridionali e Arapaho, situato in un’ansa del fiume Big Sandy Creek. Il villaggio era stato attaccato da 700 soldati della milizia statale – comandati appunto da Chivington – in aperta violazione dei trattati di pace e in modo del tutto inaspettato, tanto che al campo non erano state predisposte nemmeno delle vedette, nonostante la quasi totalità dei guerrieri fosse altrove, impegnata nella caccia al bisonte. Le vittime tra i nativi furono tra le 125 e le 175 – in grande maggioranza donne e bambini – e 24 tra i militari.

Antefatto
Il massacro si inserisce nell’ambito dei più vasti eventi della guerra del Colorado e delle guerre indiane, che in parte coincisero con la guerra di secessione. Su pressione dei coloni e dei minatori, attirati dalla caccia all’oro californiana, era iniziato per i nativi un progressivo processo di ridefinizione dei confini: prima il trattato di Fort Laramie (1851) e, dieci anni dopo, il trattato di Fort Wise. Nuovi trattati significavano nuovi confini sempre più stretti, e con Fort Wise (a cui molte tribù si opposero) il territorio destinato ai gruppi Cheyenne e Arapaho finì per coincidere con la zona compresa tra i fiumi Arkansas e Big Sandy Creek.

La situazione iniziò a precipitare nel 1864, complice il nuovo governatore John Evans, sostenuto, nella sua antipatia nei confronti dei nativi, dal colonnello John Chivington, comandante del 1st Colorado Volunteer Regiment of Cavalry. All’epoca il colonnello aveva 43 anni, era un pastore metodista dalle velleità politiche che aveva perso la sua Chiesa a causa delle proprie convinzioni radicalmente abolizioniste; si era pertanto dato alla carriera militare, distinguendosi nella battaglia di Glorieta Pass, e al momento trovava opportuno cavalcare il generale malcontento nei confronti degli indiani in vista di una possibile carriera politica che si sarebbe dovuta concretizzare di lì a poco, quando il Colorado fosse diventato uno Stato.

sand-creek-massacre_1

Nel frattempo Black Kettle (Pentola Nera, “Motavato” in Cheyenne), stimato capo Cheyenne di 63 anni, tra i più convinti sostenitori di un approccio pacifico, aveva condotto la sua gente ad accamparsi dalle parti di Fort Lyon, vicino all’attuale cittadina di Las Animal; di lì gli Cheyenne si sarebbero mossi verso sud, in Oklahoma, per stabilirsi pacificamente nei nuovi territori. Così era stato deciso negli accordi Camp Weld, negoziati dallo stesso Black Kettle con l’ausilio, in qualità di mediatore, del colono William Bent, un commerciante conosciuto e stimato dai nativi, sposato con una donna Cheyenne. E così era stato assicurato anche dal nuovo comandante del forte: il maggiore Scott J. Anthony, il quale però, a detta di tutti, non nutriva nei confronti dei nativi una grande simpatia.

Quando il 26 novembre il commerciante John Smith arrivò a Fort Lyon chiedendo di poter recarsi a Sand Creek per affari, Anthony – forse per tranquillizzare i nativi – gli concesse volentieri il permesso, e anzi gli affiancò un carro per trasportare le merci e un guidatore, il soldato semplice David Louderback. Nel frattempo però chiese anche che fossero inviati al Forte dei rinforzi – 700 cavalleggeri, capitanati niente meno che dal colonnello Chivington – che non tardano ad arrivare.

Il massacro
29 novembre 1864, poco prima dell’alba. Il campo indiano sorge lungo il fiume, in un’ansa a forma di ferro di cavallo, a nord di un piccolo torrente momentaneamente in secca. Il freddo è pungente e la neve è caduta copiosa nella notte appena trascorsa. I fuochi sono rimasti accesi nell’attesa del ritorno degli uomini, quasi tutti impegnati a est nella caccia al bisonte: sono rimasti al campo solo 35 guerrieri e una trentina di uomini anziani.

Al campo ci sono anche alcuni visitatori: oltre ai già citati Smith e Louderback, sono presenti anche George e Charlie Bent, figli di William Bent, in visita a parenti della madre insieme a Edmund Guerrier, un commerciante Cheyenne-francese che avrebbe poi sposato una delle figlie di Bent, Julia.

Secondo i racconti dei testimoni, gli abitanti del campo furono svegliati dal rumore dei cavalli al galoppo. Edmund Guerrier corse nella tenda di John Smith, accampato con la moglie, i due figli e il soldato Louderback, che propose di andare incontro ai soldati. Il gruppo fu però accolto dagli spari e costretto a nascondersi dietro una tenda, dove fu raggiunto anche da Charlie Bent.

Nel frattempo il capo White Antelope, ormai 75enne, si era diretto incontro ai soldati, disarmato e con le braccia alzate, intimando loro di fermarsi. Fu abbattuto dai fucili e il suo corpo cadde nel letto secco del torrente. Secondo Robert Bent – il maggiore dei fratelli Bent, reclutato da Chivington lungo il tragitto come guida – al suo cadavere vennero asportati naso, orecchie e testicoli. «Fu una carneficina indiscriminata» racconta Robert: «vidi alcune donne con i seni mozzati, una bimba di cinque anni che si era nascosta nella sabbia tirata fuori a forza dai soldati e colpita a morte, vidi molti neonati uccisi insieme alle loro madri. L’odore del sangue penetrava l’aria resa già acre dagli spari».

I soldati erano indisciplinati e annebbiati dall’alcol bevuto durante la marcia: l’attacco fu caotico e la confusione permise ad alcuni di scappare. Accanto alla propria tenda Black Kettle aveva fatto innalzare una grande bandiera degli Stati Uniti ricevuta col trattato di Fort Wise; le persone iniziarono a raccogliersi intorno ad essa, cercando protezione, ma appena fu chiaro che il vessillo non forniva un riparo sicuro, molti iniziarono a fuggire lungo il basso corso del fiume, cercando di mettersi in salvo sulla sponda opposta. Diversi furono uccisi dal fuoco degli obici da montagna. Black Kettle riuscì a nascondendosi in un burrone, e altri – tra cui George Bent – riuscirono a mettersi al riparo scavando buche e trincee nella riva sabbiosa del torrente in secca, dove rimasero nascosti fino a notte fonda.

A massacro concluso la colonna di Chivington prelevò i cavalli, incendiò le tende e fece ritorno a Fort Lyon. Portarono con loro sette prigionieri, tra cui la moglie e il figlio di John Smith (Jack) e Charlie Bent. Jack Smith sarà fucilato da un soldato durante la prigionia.

sand-creek-massacre_2

Epilogo
La notizia dell’attacco si sparse rapidamente tra i campi degli Cheyenne, distruggendo quel poco di autorità rimasta ai capi anziani e alla loro politica di pace. Molti dei superstiti, tra cui George e Charlie Bent e la loro madre, si unirono alle bande dei Dog soldiers (i gruppi guerrieri) e nel gennaio del 1865 un’alleanza di Cheyenne, Arapaho e Sioux iniziò ad attaccare gli insediamenti dei colonizzatori nella valle del Platte e nel Colorado orientale.

Black Kettle, invece, non rinunciò ai suoi progetti di pace, continuando a prestarsi come mediatore. Quattro anni più tardi però, in un’altra fredda mattina di fine novembre, verrà ucciso insieme alla moglie dalle truppe del generale George Armstrong Custer sulle sponde del fiume Washita, in una tristemente famosa battaglia che, come Sand Creek, fu più che altro un massacro.

Dopo l’iniziale entusiasmo e con l’emergere di sempre nuove testimonianze oculari, anche l’esercito statunitense iniziò a mettere in dubbio l’operato di Chivington e avviò delle inchieste. Furono ascoltati diversi testimoni, tra cui Robert Bent, Edmund Guerrier, John Smith, i tenenti James Connor e Joseph Cramer e il capitano Silas Soule. Quest’ultimo, tra i primi a denunciare l’accaduto, solo poche settimane dopo aver reso la sua testimonianza sarà assassinato a Denver da un certo Charles Squier, ritenuto un fedelissimo di Chivington. Il comitato del Congresso si pronuncerà alla fine contro il colonnello, promettendo «pronte e rigorose misure», che tuttavia non si concretizzarono mai. Il colonnello Chivington morì a Denver a 73 anni, dopo aver tentato – di nuovo e invano – la carriera politica e dopo aver ricoperto per qualche anno la carica di sceriffo.

Quanto al governatore Evans, che si era prodigato per minimizzare l’accaduto ed esautorare Chivington da ogni responsabilità, rassegnò le dimissioni dal suo incarico nel 1865 in seguito a pressioni giunte direttamente dal presidente Johnson; tuttavia rimase una figura alquanto popolare e stimata in Colorado, e continuò a ricoprire incarichi amministrativi fino alla sua morte.

Bisognerà aspettare il 2000 – ben 136 anni dopo il massacro – per le scuse ufficiali del Congresso americano, alle quali seguirà, nel 2007, la proclamazione del luogo a parco nazionale storico: il “Sand Creek Massacre National Historic Site”.

Il numero esatto delle vittime del massacro non è stato mai chiarito: dalle stime spaccone di Chivington e compagni – 600 morti – si passa alle dichiarazioni del maggiore Anthony, che parlò di «non più di 125 vittime». La stima considerata più attendibile e riportata da varie fonti è quella del tenente Joseph Cramer – tra le 125 e le 175 vittime – e per molti storici il numero esatto si attesta attorno a 133 morti: 28 uomini e 105 tra donne e bambini. Tra le tribù del campo i Wutapai di Black Kettle furono quelli che subirono più perdite. Nessun membro dei Dog soldiers, i gruppi guerrieri Cheyenne, era presente al campo sul Sand Creek.

fonte: http://www.linkiesta.it/sand-creek-massacre

2 Febbraio 2015

Autore:

admin


Ti preghiamo di disattivare AdBlock o aggiungere il sito in whitelist